LA QUESTIONE DEI MIGRANTI E LA NOSTRA RISPOSTA
La Chiesa dei poveri non può che stare dalla parte degli esuli e dei migranti e la Chiesa di tutti non può che accoglierli
“LA RESISTENZA E’ UN LAVORO SACRO”
Alex Zanotelli
Un appello alle Chiese per dare asilo ai migranti secondo la tradizione biblica: il ”sanctuary movement”
La politica anti-migranti della UE , come del governo Gentiloni, si fa sempre più pesante. La UE, dopo aver siglato quel criminale accordo con la Turchia (costato sei miliardi di euro!) per bloccare i profughi siriani, ha stipulato simili accordi con l’Egitto di Al Sisi (un miliardo di euro) e con il Niger (cinquecento milioni di euro) per bloccare i migranti sub-sahariani. Anche l’Italia, con il governo Renzi ed ora con Gentiloni, ha perseguito la stessa politica del Migration Compact firmando un patto scellerato con la Libia di El Serraj e un altro con i capi ‘tribali’ del Fezzan, per bloccare i migranti dell’Africa nera. Il governo italiano ha fatto altrettanto con il governo del Niger regalandogli duecento milioni di euro. Questa è la politica europea : esternalizzare le frontiere siglando patti con i peggiori dittatori , una politica pagata a caro prezzo dai disperati della terra. Inoltre la UE ha pesantemente militarizzato il Mediterraneo trasformandolo in un cimitero (sono oltre cinquantamila i migranti che vi sono sepolti!).
E al suo interno la UE persegue una politica anti-migratoria fatta di leggi discriminatorie e razziste, di muri, di fili spinati, di centri e ‘campi speciali’ come nell’Ungheria di Orban. “Campi di concentramento”, li ha definiti Papa Francesco. E tanti paesi della UE si rifiutano di accettare la quota di migranti decisa da Bruxelles. La UE infatti prevedeva il ricollocamento di 160.000 rifugiati ed invece è riuscita a ricollocarne solo 13.000. Ancora più grave è il fatto che Bruxelles intende deportare un milione di migranti irregolari entro il 2017. Un ‘ operazione questa quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la UE stia perseguendo. “E’ vero che siamo una civiltà che non fa figli- ha commentato pochi giorni fa Papa Francesco- ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio.”
E Bruxelles chiede ai 27 stati membri di mettere mano alla propria legislazione per una politica più restrittiva nei confronti dei migranti. L’Italia ha prontamente risposto con il decreto Orlando-Minniti, il cosidetto ‘Pacchetto Sicurezza’. Il decreto, approvato dal Parlamento il 12 aprile con il ricatto della fiducia, stabilisce che il rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale non è impugnabile se non in Cassazione. Non c’è quindi per il rifugiato la possibilità di un appello in Corte. Respinta la domanda, al rifugiato non resta che andare in un Centro Permanente per il Rifugiato (CPR), per poi essere espulso nell’inferno da cui è fuggito.
E questo sta avvenendo non solo in Europa, ma anche negli USA con il neo presidente Donald Trump, che minaccia di espellere undici milioni di clandestini, in buona parte latinos. Infatti Trump, oltre al muro tra gli USA e il Messico che gli costerà un miliardo di dollari, ha iniziato ad espellere ogni settimana settecento clandestini. Per rispondere a questa tragedia, alcune Chiese hanno rilanciato il “Sanctuary Movement” (il movimento che offre asilo, rifugio, santuario a chi è ricercato dalla polizia per essere espulso, perché clandestino). E’ un movimento che si rifà alla tradizione biblica (Num. 35,9-34), ripresa poi nel Medioevo, secondo cui chi riesciva a trovare rifugio in un luogo sacro o in una città asilo aveva il diritto ad essere protetto. Questo movimento ha avuto inizio negli USA negli anni Ottanta, quando Reagan deportava i rifugiati ai loro Paesi come il Salvador o il Nicaragua dove li aspettava la morte. Più di 500 hiese si erano costituite ‘santuari’ di asilo politico. Molti si sono così salvati.
Ora,con l’avvio della presidenza Trump, ben settecento istituzioni (fra queste, anche città,università e contee) hanno iniziato a dare rifugio politico a chi rischia di essere espulso. I responsabili religiosi si rifiutano di aprire le chiese alla polizia, quando viene per arrestare i clandestini. “Le chiese devono aprire i loro battenti per accogliere coloro che Trump vuole deportare – afferma nella rivista ecumenica Sojournes, B. Packnett. Se Trump decidesse di deportare undici milioni di clandestini, dobbiamo chiedere una massiccia disobbedienza civile. La resistenza è un lavoro sacro. Ecco perché è il nostro lavoro.”
Uno dei più accesi sostenitori di quest’azione è il rev. Fred Morris di 82 anni della Chiesa Metodista di Los Angeles. “La mia comunità cristiana combatterà con le unghie e con i denti – ha detto recentemente – Non apriremo neppure di fronte a un mandato. Se vogliono prendere le persone che noi proteggiamo, dovranno buttare giù la porta della chiesa.” Alle chiese si sono aggiunte anche alcune università, città e contee. Alle “città santuario” il 25 gennaio Trump ha deciso di tagliare i fondi federali. Il giudice californiano W. Orrick ha accolto i ricorsi di due contee di S. Francisco e Santa Clara, bloccando così il decreto del Presidente.
Questo movimento è uno straordinario stimolo per le sonnolente Chiese d’Europa. Data la gravità della situazione dei migranti in Europa, diventa pressante un appello anche alle Chiese in Italia perché lancino nel nostro Paese il movimento delle ‘chiese santuario’! E’ un atto di coraggio che devono fare le chiese in Italia, dalle diocesi alle parrocchie, dalle comunità cristiane ai conventi. E’ il coraggio della disobbedienza civile per la difesa della vita umana! E lo stesso coraggio lo devono avere le chiese valdesi, luterane, battiste, metodiste, evangeliche presenti sul nostro territorio. Se le chiese dessero l’esempio, anche città, comuni, municipalità e università potrebbero seguirne l’esempio.
“Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto”, ha detto Papa Francesco lo scorso anno parlando alle massime autorità della UE. Questo è anche il nostro sogno e il nostro impegno.
Napoli, 1 maggio 2017
La colpa di prestare soccorso
28 aprile 2017 Riforma.it
Gli attacchi contro le organizzazioni umanitarie internazionali che salvano i migranti nel Mediterraneo non hanno alcun fondamento giuridico, spiega Gianfranco Schiavone, di Asgi
Quando si guarda al Mediterraneo si vedono aree agitate, luoghi che cambiano e persone che si spostano. Sotto la superficie delle acque, però, ci sono soprattutto persone che muoiono cercando di raggiungere l’Europa. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nei primi quattro mesi del 2017 sono 1.002 le persone che hanno perso la vita lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che connette la Libia e la Sicilia. Tuttavia, nelle ultime settimane questo dato è passato in secondo piano, schiacciato dalle polemiche sulle organizzazioni non governative che dal 2014 compiono operazioni di salvataggio in mare.
Oltre all’accusa di rappresentare un “fattore di attrazione” per i migranti, perché si spingono troppo vicino alle coste libiche, è diventata sempre più rumorosa la voce secondo cui le ong si arricchirebbero sfruttando il cosiddetto “business dell’accoglienza” e addirittura facendo affari con i trafficanti di esseri umani. «A mio avviso – dichiarava giovedì 27 aprile il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, titolare di una delle inchieste sui presunti contatti tra le organizzazioni umanitarie che operano nel Canale di Sicilia e i trafficanti di uomini – alcune ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti. So di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga».
Eppure, il giorno prima il vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, aveva proprio dichiarato che «non c’è nessun tipo di prova che le ong lavorino con le reti criminali dei trafficanti di esseri umani per aiutare i migranti a entrare nell’Unione europea». Dopo le reazioni del ministro della Giustizia, Orlando, e del ministro degli Interni, Minniti, che hanno chiesto a Zuccaro di parlare soltanto in presenza di atti e indagini, il procuratore è intervenuto per chiarire di non avere prove giudiziarie su comportamenti non trasparenti delle ong, ma di essere soltanto in possesso di informazioni su conversazioni dirette in lingua araba tra rappresentanti delle organizzazioni e soggetti sulla terraferma in Libia, inutilizzabili però in sede di processo.
Negli stessi giorni, invece, il procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, ha affermato che, a proposito dei salvataggi in mare, «non sono emersi reati tali da giustificare l’adozione di provvedimenti da parte nostra. Se qualcuno va a soccorrere in mare un barcone di migranti, lo fa nello stato di necessità di salvare centinaia di vite umane. In che modo si potrebbe configurare un reato di favoreggiamento quando c’è qualcuno da soccorrere?».
Secondo Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di Solidarietà e membro di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, «è difficile dire in che momento siano cominciati questi attacchi, perché le polemiche si trascinano da molto tempo. Forse il primo è stato, purtroppo, quello dell’agenzia Frontex più di un anno fa, quando se la prese direttamente con Medici senza frontiere. Ma in realtà è diffuso da tempo il fatto di accusare le organizzazioni non governative che fanno soccorso in mare e che, ricordo, si attengono a un protocollo unico e sono coordinate dalla guardia costiera».
Ma quali sono i fondamenti di questi attacchi?
«Bisogna partire dall’accusa di base: si attaccano le singole organizzazioni umanitarie dicendo che la loro azione favorisce i trafficanti, perché le operazioni di salvataggio, quanto più sono veloci e quanto più sono prossime al confine tra le acque internazionali e le acque territoriali, costituirebbero un fattore di attrazione per i migranti stessi. Qui si ignora il dato fondamentale, cioè che i migranti di cui parliamo non scelgono di partire perché il soccorso è più o meno veloce, ma partono perché non hanno altra scelta se non quella di farlo. Siamo di fronte a una tragedia umanitaria che impone a queste persone di partire comunque e non ha nessun fondamento dire che esiste un fattore di attrazione. Anzi, purtroppo i dati ci dicono che, laddove il soccorso è stato arretrato anche fisicamente nelle acque internazionali, sono aumentate proprio le morti in mare».
Non è la stessa accusa che venne mossa tra il 2014 e il 2015 all’operazione Mare Nostrum?
«Esattamente. Quell’operazione, portata avanti dallo Stato italiano dopo la strage del 3 ottobre 2013, venne criticata duramente proprio per questo. Il fatto è che a seguito della sospensione di Mare Nostrum e con l’introduzione della nuova operazione Triton si registrò un peggioramento complessivo delle capacità di soccorso, un aumento delle traversate e di conseguenza un aumento delle morti».
Una delle accuse mosse è quella di arricchirsi attraverso i salvataggi in mare. Come avverrebbe?
«Nessuno lo sa. Naturalmente nessuno ha provato il fatto che le organizzazioni ricevano soldi dai trafficanti. Certo, se così fosse ci troveremmo di fronte a una partecipazione a pieno titolo alle operazioni di traffico di esseri umani, ma finora nessuno ha mai potuto formulare questa accusa in modo circostanziato e nessuno, a oggi, è iscritto nel registro degli indagati per questa ipotesi di reato».
L’alternativa qual è? Smettere di soccorrere le persone?
«Ecco, nessuno deve mettere in discussione che ci sia non solo un diritto, ma addirittura un obbligo di soccorso che è previsto dalle convenzioni del diritto internazionale marittimo. Anzi, vorrei ricordare che l’omissione di soccorso in mare costituisce una colpa, tra l’altro una violazione dell’articolo 1152 del codice della navigazione interna che viene tra l’altro punito con la pena della reclusione. Non ci sono dubbi, sotto nessun profilo, su cosa si debba intendere quando si parla di obbligo di soccorso».
Quindi il problema per chi lancia queste accuse è il fatto di portare le persone in Europa anziché riportarle in Libia?
«Probabilmente sì. Qui però bisogna ripartire da un’interpretazione corretta della definizione di “luogo sicuro” o “porto sicuro”. Qualcuno ha voluto strumentalmente sollevare il problema che in realtà le persone dovrebbero essere riportate nel porto più vicino, ma per “porto sicuro”, ai sensi della Convenzione SAR per i soccorsi in mare del 1979, si parla di luogo sicuro».
In che modo i due concetti non coincidono?
«Chiaramente, secondo le linee guida interpretative di questa convenzione, quando si parla di “porto sicuro” si intende spesso il luogo più vicino per evidenti ragioni logistiche, dove le persone possono godere di assistenza primaria, ma, cito testualmente, “si può intendere il luogo dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata”. Questo ci fa capire che dobbiamo leggere il concetto di “porto sicuro” anche alla luce della convenzione di Ginevra sui rifugiati e dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo che proibisce la tortura. Incrociando queste normative ci rendiamo conto che in questo caso non è possibile interpretare il concetto di “porto sicuro” o “luogo sicuro” come il porto di partenza, o la nazione di partenza, da cui le persone stanno fuggendo. Riportare le persone lì, al contrario, si configura come un’azione di respingimento, che sappiamo già essere stata sciaguratamente tentata nel 2009 dal governo italiano di allora e condannata dalla Corte europea con la famosa sentenza Hirsi. Quindi “porto sicuro” non sempre e non necessariamente è quello più vicino, ma è quello dove le persone godono di un accesso pieno ai propri diritti, compreso quello di chiedere asilo».
Quindi le coste italiane sono l’unica destinazione possibile?
«Una delle questioni che potrebbe essere sollevata è il fatto che il porto sicuro più vicino spesso è Malta, ma qui chiaramente si apre la questione, che chiunque può capire anche intuitivamente, che questo Paese non è in grado di garantire nel tempo un’accoglienza di numeri elevati. Certo, questo chiama in causa un dato che ha anche molto a che fare con la creazione di corridoi umanitari e in generale con la riforma del sistema d’asilo in Europa: è vero che una volta portate nel porto sicuro, cioè sostanzialmente l’Italia, il sistema europeo dovrebbe garantire una distribuzione delle presenze che oggi non garantisce e anzi addirittura paradossalmente ostacola questa distribuzione con l’applicazione dell’attuale regolamento Dublino III, quindi è vero che siamo di fronte a un coacervo di contraddizioni e che il sistema europeo, che va profondamente cambiato, in questo momento non favorisce l’Italia. Pensate già solo al fatto che le navi che prestano soccorso, anche battenti bandiera non italiana, poi portano le persone in Italia, ma poi nel nostro Paese formalmente restano o dovrebbero restare per fare la domanda d’asilo. Questo sistema evidentemente può funzionare in singole situazioni o per periodi, ma non può essere immaginato a regime».
Migranti, tre proposte per riformare le leggi (e rispondere alle polemiche)
Provenienti ciascuna da diverse sigle del terzo settore e del volontariato, hanno molti punti in comune. Chiedono un ribaltamento di prospettiva: basta muri, riapriamo le frontiere e permettiamo ai migranti di entrare legalmente per stroncare il traffico di essere umani
04 maggio 2017
MILANO – Il cuore della riforma è uno solo: riaprire le frontiere dell’Italia e permettere ai migranti di entrarci legalmente. Senza dover ricorrere ai trafficanti di esseri umani. Sono tre, per ora, le proposte che vengono dal mondo del volontariato e del terzo settore per cambiare radicalmente la legislazione sull’immigrazione e lasciarsi alle spalle la Bossi-Fini e tutti gli altri provvedimenti degli ultimi dieci anni che hanno man mano introdotto paletti e ostacoli all’ingresso nel Belpaese. Sono state presentate in questi mesi. La prima è frutto del lavoro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). La seconda è partita dai Radicali italiani e ha raccolto il consenso di diverse associazioni (anche cattoliche) e di un centinaio di sindaci ed è una vero e proprio disegno di legge, per il quale il primo maggio è partita la raccolta di firme con la campagna “Ero straniero – l’umanità che fa bene”. L’ultima proposta, in ordine di tempo, è stata presentata questa mattina a Milano da un cartello di una trentina di associazioni, centri sociali e comitati, chiamata “Nessuna persona è illegale”: “È lo slogan della grande manifestazione di Barcellona -ha spiegato Pietro Massarotto, presidente del Naga-. E calza perfettamente anche con la situazione italiana: riteniamo infatti che nessun migrante può essere ritenuto irregolare, per il semplice motivo che ad oggi non c’è alcun modo per entrare in Italia in maniera regolare”.
Si tratta di una piattaforma che in tre grandi capitoli rivolge una serie di richieste all’Unione Europea, al Governo e Parlamento italiani e ai sindaci. A Bruxelles le associazioni chiedono, tra le altre cose, di introdurre il permesso di soggiorno europeo, che verrebbe rilasciato da ciascuno Stato ma con validità in tutta l’Unione. Inoltre, una revisione del regolamento di Dublino, con la previsione del diritto del migrante di scegliere il Paese in cui chiedere asilo (attualmente possono fare domanda solo nella nazione in cui sono sbarcati). Alle istituzioni italiane (in particolare al Parlamento) viene chiesto di abolire la procedura dei decreti flussi e di instaurare nuovi meccanismi di ingresso: innanzitutto la possibilità per il migrante di chiedere un visto per ricerca di lavoro della durata di almeno 12 mesi e il ripristino dell’ingresso per lavoro a chiamata nominativa. Inoltre, la possibilità di regolarizzarsi nel caso in cui si abbia un lavoro, il diritto di voto alle elezioni amministrative e che almeno il rinnovo dei permessi di soggiorno sia gestito dai Comuni e non più dalle Questure. Ai Sindaci una totale adesione allo Sprar, il sistema nazionale che finora a funzionato bene nell’accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo.
Gli otto articoli della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero – l’umanità che fa bene”, presentata il 12 aprile a Roma, contiene buona parte dei punti che caratterizzano la piattaforma presentata questa mattina a Milano. Innanzitutto si introduce il permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) per facilitare l’incontro dei lavoratori stranieri con i datori di lavoro italiani. Si prevede la regolarizzazione su base individuale degli stranieri irregolari, se è dimostrabile l’esistenza in Italia di un’attività lavorativa (trasformabile in attività regolare o denunciabile in caso di sfruttamento lavorativo) o di comprovati legami familiari. La proposta intende anche ampliare il sistema Sprar puntando su un’accoglienza diffusa capillarmente nel territorio con piccoli numeri.
C’è infine il documento di Asgi (“Programma di riforma delle norme italiane in materia di diritto dell’immigrazione, asilo e cittadinanza”). Gli avvocati di questa associazione, tra l’altro, hanno contribuito alla stesura delle altre due proposte. E in sostanza il documento, molto articolato, punta soprattutto sulla creazione di “canali di ingresso per ricerca di lavoro”, basati sulle garanzie prestate da singoli o imprese “individuando misure economiche effettive e adeguate di rimpatrio assistito nel caso, decorso un determinato periodo di tempo, la persona non abbia reperito un’attività lavorativa”.
Tre proposte, molto simili, che provengono da una galassia di realtà che va dai centri sociali alla Caritas italiana ai sindaci. Una galassia che rappresenta buona parte di quei volontari e operatori che in questi anni si sono fatti carico di accogliere i migranti. Alle polemiche, alle accuse di lucrare sul traffico dei migranti, rispondono con proposte articolate, basate sulla loro esperienza, cercano insomma di cambiare in meglio la vita di tutti, italiani e stranieri. (dp)