L’IDEA EUROPA IN ERICH PRZYWARA
L’idea Europa in Erich Przywara
Il grande tema dell’identità dell’Europa e della presenza in essa della Chiesa come cristianità, nella riflessione del teologo tedesco citato dal papa nei suoi discorsi agli esponenti europei
Giuseppe Ruggieri
Pubblichiamo una parte di un articolo di Giuseppe Ruggieri, intitolato “L’idea Europa in Erich Przywara e Jan Patočka. La funzione di un’utopia”, uscito in «Siculorum Gymnasium», la rivista on line del Dipartimento umanistico dell’Università di Catania. La parte qui riportata è quella che tratta di Erich Przywara, un teologo gesuita tedesco morto nel 1972, che ha molto riflettuto sull’Europa ed ha elaborato il pensiero della “uscita dal regime di cristianità” inteso come il sistema di origine costantiniana e carolingia in cui Chiesa, società, istituzioni, cultura, politica sono unite in un composto organico sulla linea dello “Stato totalitario europeo” concepito da Carlo Magno. L’uscita della Chiesa dall’epoca della cristianità costantiniana era stata ben presente nel Concilio Vaticano II, e ad Erich Przywara si è più volte riferito papa Francesco nei suoi discorsi rivolti ai rappresentanti europei e ai leaders che vennero a Roma per conferirgli il premio Carlo Magno. Secondo l’interpretazione autorevole della Civiltà Cattolica nel suo rivolgersi all’Europa il papa ha ripreso il tema dell’uscita dalla cristianità, per dire che il compito della Chiesa verso la società, e prima di tutto verso quella europea, non è in relazione al potere e alle sue radici, ma è quello del servizio, della lavanda dei piedi. L’articolo di Pino Ruggieri – che sarà uno dei relatori all’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” il 2 dicembre prossimo a Roma – reca in esergo: “Alla memoria dei morti in mare nel disperato viaggio verso un’Europa che non li accoglierà mai”. L’opera di Przywara a cui Ruggieri si riferisce è uscita in italiano sotto il titolo “L’idea di Europa”, ma il teologo siciliano ritiene che l’uso del genitivo impoverisca il significato del pensiero di Przywara che va al di là della stessa Europa fisica per esprimere un’idea che la trascende fino a indicare “una direzione della storia”, un non-luogo, un’utopia. Perciò Ruggieri preferisce adottare il titolo dell’originale tedesco, che era appunto “Idee Europa”.
Di seguito l’estratto dal saggio di Pino Ruggieri:
Erich Przywara (1889-1972) fu un teologo che dominò la scena del cattolicesimo tedesco fino agli anni ’60 del secolo scorso. Fu redattore e poi caporedattore della rivista dei gesuiti tedeschi Stimmen der Zeit, fino a quando il regime nazista ne vietò la pubblicazione nel 1941. Dopo la guerra, gravemente ammalato, si ritirò a Murnau nell’alta Baviera, ma senza cessare dalla sua straordinaria produzione di scrittore di teologia e filosofia. Il suo pensiero ruota attorno alla metafisica della “analogia entis”, che egli interpretava come struttura dinamica del reale, in una polarità mai risolta tra i vari enti e l’Essere, per cui qualsiasi somiglianza raggiunta tra l’ente e l’Essere, non fa che svelare una dissomiglianza sempre più grande.[1] L’analogia, intesa in questo modo, costituisce allora il movimento dinamico originario (Ur-Bewegung) e strutturale di tutto ciò che esiste, in un’ascesa verso l’alto che non avrà mai termine.
Nel 1964 Przywara diede alle stampe, in un volume che raccoglieva anche altri saggi, uno scritto il cui titolo era “Commercium”. In questo saggio viene chiarita in maniera decisiva l’ambiguità che poteva darsi nella prima stesura di Analogia entis. Qui infatti, nel saggio sul Commercium, viene superata ogni dicotomia tra una struttura “naturale”, puramente filosofica, dell’ente e una struttura soprannaturale. Riconducendo infatti all’evento cristologico l’analogia dell’essere, viene precisato il significato di quell’ανω, “in su”, verso l’alto, che indica la direzione dell’analogia stessa. Essendo infatti l'”alto” Dio stesso, non si può dare movimento verso di Lui che non sia reso possibile da lui stesso, che quindi non presupponga la sua discesa e la sua comunicazione all’ente. Ma questa discesa è Cristo. Przywara riterrà sempre che l’analogia, come struttura dinamica dell’ente creato, trascende la distinzione tra natura e soprannatura.
Sotto le rovine della II guerra mondiale
La situazione vitale nella quale l’autore matura il suo pensiero sul Commercium risale tuttavia a circa 20 anni prima della data di pubblicazione del saggio. Come egli stesso scriveva alla fine del volume, “la prima composizione di questo capitolo costituiva il contenuto delle conversazioni domenicali pomeridiane in un circolo ristretto, durante i bombardamenti del 1944/45, collegate alle conferenze mensili di teologia che l’autore teneva a partire dal 1942 a Monaco, su incarico del card. Faulhaber. Con i suoi ascoltatori l’autore fu costretto a vagare dalla distrutta sala comunale attraverso cinque chiese che furono distrutte una dopo l’altra…”. [2] La riflessione di Przywara si sviluppa quindi, in senso letterale, “sotto le bombe”, davanti allo spettacolo di una Germania distrutta e alla rovinosa fine del folle sogno hitleriano del Reich. Si tratta ultimamente di una meditazione sulla storia recente, opposta ad ogni autoesaltazione della hybris identitaria.
Il capitolo in questione riprendeva il linguaggio della liturgia del Natale dove, il sintagma “admirabile commercium”, lo “scambio ammirevole” sta ad indicare il mistero dell’incarnazione della Parola, spiegato tuttavia dall’autore nel suo nesso intimo con la morte in croce, a partire da alcuni brani neotestamentari chiave (Mt 20, 28; 2 Cor 5, 17-21; Rom 6, 16-22 e Fil 2, 5-9). in connessione cioè con lo “svuotamento” della forma di Dio, “scambiata” con la forma dell’uomo schiavo del peccato: colui che non conosceva peccato, Dio lo fece peccato per noi (cf. 2 Cor 5, 21). Przywara fissava così, in maniera da sottrarlo ad ogni ambiguità possibile, il senso del cristianesimo (sostantivo) e del cristiano (aggettivo): cristianesimo = messianismo, cristiano = messianico. C’è realmente cristianesimo solo laddove venga nuovamente realizzato l’evento messianico, lo “scambio”.[3] Stando infatti all’ingenuità della narrazione neotestamentaria, Cristo è stato “fatto peccato”, ha assunto l’alterità della condizione umana peccatrice (cf. 2 Cor 5, 21). In lui non c’è quindi solo un’assunzione generica dell’alterità della natura umana, come semplice diversità di condizione ontologica, ma c’è l’assunzione di quell’alterità che per definizione è “lontananza” da Dio, anzi “assenza” di Dio: il peccato. In lui l’altro peccatore viene scambiato/riconciliato con Dio. In lui, questo scambio/riconciliazione è anteriore alla conversione del peccatore. Infatti Dio ci ha amati per primo, e il Figlio suo è morto per noi, mentre noi eravamo ancora peccatori (cf. Rom 5,8).
Si può quindi fregiare del nome cristiano (=messianico) ogni realtà e ogni soggetto in cui avviene in qualche misura quest’assunzione della concreta realtà dell’altro, nello scambio che “riscatta”.[4] Paradossalmente l’evento cristiano/messianico non si gioca in un’affermazione della propria identità, ma in uno scambio con la condizione altrui, in un’assimilazione all’altro che “riscatta” l’altro nella sua identità propria.
La forza critica di questa concezione è enorme, perché essa giudica di tante pretese di realizzare la propria identità nella presa di distanza, se non addirittura nella condanna dell’altrui identità. L’implicito filosofico di questa lettura del Nuovo Testamento è che in ogni essere creato la sua struttura dinamica tenda alla solidarietà, all’incontro con l’altro come altro da sé, all’assunzione del suo destino in una prassi di riscatto comune.
L’Europa divisa tra Alleanza atlantica e Patto di Varsavia
Il Patto atlantico (NATO) venne firmato a Washington, negli Stati Uniti, il 4 aprile 1949. La sua espressione maggiore fu ed è un’organizzazione militare, ma al fondo ci stava un’affermazione politico culturale dell’identità occidentale, almeno all’origine, contro l’Oriente egemonizzato dall’Unione Sovietica. Per molti (in primo luogo per Pio XII) questa identità era ultimamente quella cristiana.
Il Patto di Varsavia del 1955 (ufficialmente un trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza) fu un’alleanza militare tra i Paesi del blocco sovietico, nata come contrapposizione all’Alleanza del Patto Atlantico. Il trattato fu elaborato da Nikita Chruščёv nel 1955 e sottoscritto a Varsavia il 14 maggio dello stesso anno. Questa data è significativa, per il semplice fatto che la costituzione del Patto di Varsavia avvenne la settimana successiva all’ingresso ufficiale della Germania Ovest nella NATO (6 maggio 1955).
Nell’inverno successivo E. Przywara tenne una serie di trasmissioni radiofoniche, poi raccolte e pubblicate sotto il titolo di Idee Europa.[5] La connessione dei suoi pensieri con le vicissitudini politiche di allora, e la divisione tra l’occidente e l’oriente europeo, non è un’ipotesi fantastica, ma era dichiarata dallo stesso autore:
«Una”idea di Europa” scaturì inizialmente dall’elaborazione da parte francese del progetto di una “Federazione di popoli europei” da contrapporre al Sacro Impero… Indipendentemente da questa prima origine e a motivo della svolta data al secolo XX dalla prima guerra mondiale, Coudenhove-Kalergi enunciò l’idea di una “Pan-Europa”, idea arrivata fino ad oggi. A questa idea si ricollegarono Schuman e Adenauer, negli anni Cinquanta di questo secolo [il XX] e a partire da un’intesa tra Francia e Germania, tentarono di fondare un’”Unione europea” con fini economici, militari e infine politici. Di tutto questo oggi rimane solo la CECA, (Comunità europea del carbone dell’acciaio). Infine l’attuale Unione Sovietica di Bulganin e Chruščёv aspira alla costruzione di un’analoga Unione est-europea a guida russo-comunista, che incorpori a sé il resto d’Europa sotto la parola d’ordine: “coesistenza”. In tutti questi tentativi l’impulso è stato una politica puramente strumentale, senza la ricerca di una ”Idea Europa”. Anche per questa ragione in questi tentativi il legame dell’Europa con l’Asia e l’Africa non gioca alcun ruolo. Infine questi tentativi mostrano chiaramente la quasi totale emarginazione di un autentico “universalismo cristiano” che fino a Leibniz era stato l’idea base di un “occidente unito”, a fronte del prevalere di un consorzio puramente politico ed economico …».
Ovviamente si potrebbe obiettare a questo testo che esso ignora altre matrici dell’unione europea (Il Manifesto di Ventotene, come esempio), ma alla comprensione di quanto poi si dirà è essenziale comprendere principalmente l’orizzonte di consapevolezza dentro il quale di fatto Przywara pone la sua riflessione critica, in opposizione ad una riduzione della comprensione dell’Europa alla dimensione di una politica asservita all’economia. Ed egli era convinto che questo asservimento fosse frutto di un’oblio dell’idea stessa di Europa.
L’allargamento dell’orizzonte
Per opporsi a questa riduzione, Przywara ricostruisce la genealogia dell’idea, ripercorrendone gli inizi e il destino storico. Risale quindi al mito, descritto da Ovidio nelle sue Metamorfosi, con un Giove-toro (raffigurante la potenza di Roma) che rapisce Europa, figlia del re fenicio, espressione della potenza marittima dell’asiatica Fenicia e dell’africana Cartagine (città fondata secondo Virgilio dalla regina fenicia Didone). Nel mito, Roma da potenza agricola-mascolina (il toro come simbolo dell’allevamento del bestiame) confinata all’Italia, diventa con la sua flotta, la potenza egemone del Mediterraneo, fino a giungere a Londra (Roma anglosassone con carattere prevalentemente mascolino) e a Mosca, Roma di tutte le Russie con una insistita meccanizzazione-americanizzazione. Nel mito, al tempo stesso, si esprime così la vocazione unitaria dell’Europa, giacché questa, «dalla nascita appartiene a quell’Asia e Africa che hanno come simbolo interiore la donna, dal cui grembo provengono la crescita biologica e la crescita cosmica».[6]
Si tratta di un mito romano, ma Przywara, come emerge dalle righe precedenti, lo interpreta in un primo tempo in senso platonico, come «“modello celeste” che risiede unicamente nel profondo dell’anima di un popolo»,[7] e che «ammette sempre ulteriori metamorfosi esteriori: dal Cesare del periodo precristiano alle odierne organizzazioni imperiali, si chiamino cartelli economici o stato totalitario»[8].
All’idea platonica d’Europa, Prywara oppone la «forma d’Europa» aristotelica che logicamente deriva dalla realtà fisica (l’Europa è la più grande penisola dell’Asia), come essenza profonda di questa physis, meta-fisica di una realtà geo-politica che ha al suo centro la polis. I legami con l’Asia (tramite la Sicilia, lo Ionio e il mare dell’Asia minore), ma anche con l’Africa attraverso Spagna e Portogallo, non cessano. A partire da qui Przywara sviluppa tutta una serie di collegamenti e sviluppi storici, non sempre evidenti, anche con il buddismo e l’islam, in contrapposizione al manicheismo, vero nemico delle tre grandi religioni di Asia, Africa ed Europa, che “vede una sorta di intima corrispondenza tra Dio e diavolo, bene e male, odio e amore, luce e tenebre. Tale dottrina fu combattuta strenuamente da Agostino: avvelenò la grande cultura francese provenzale; fu alla base della Riforma; si colloca nascostamente nel profondo della cultura dei tempi nuovi tramite autori quali Baader, Schelling, Hegel, Balzac e Soloviv’ëv; è oggi il sostrato dei comunismi e dei fascismi.”[9]. La fantasia intellettuale del lettore è qui messa a dura prova, ma è chiara l’intenzione globale: mostrare come l’idea di Europa sia intrinsecamente opposta ad un sentimento identitario, esclusivo di altre identità.
A questo punto Przywara sviluppa anche una sua idea della “politica” europea. La politica, che trae il suo nome da polis, soggettivamente considerata è una Gesinnung, un modo di sentire che vede il bene comune dello Stato/città come totalità superiore all’interesse privato dei cittadini. Conseguentemente i partiti che antepongono l’interesse di una parte al tutto negano l’essenza della politica, mentre i ceti (Stände) che costituiscono un’alleanza per la realizzazione di un ordinamento della città, o un’alleanza per una diversa forma costituzionale, Verfassung, corrispondono meglio alla natura della politica. La dottrina costituzionale di Carl Schmitt[10], secondo Przywara, riprende ai nostri giorni l’antica sapienza di Platone e Aristotele, contraria alla democrazia del numero. Nell’idea di alleanza, Przywara, ancorato all’ethos tipicamente tedesco della collaborazione tra i ceti, vede il riflesso della biblica concezione dell’alleanza sancita nel sangue, dei sacrifici nell’Antico Testamento e nella croce di Cristo nel Nuovo. In questa alleanza, come il mistero di Cristo è un mistero di morte e risurrezione, e come Cristo è il servo per eccellenza, così una politica genuina consiste unicamente in questo: «servire» congiuntamente a questo unico servo e in lui essere «conservi». Autentica città dell’Occidente è stata anticamente Roma, ma di un Occidente che non si separa dall’Oriente. Non a caso la «Roma eterna» rimase il centro del «Sacro impero», «ma in ogni lotta tra la Roma del “Sacro Impero” e Bisanzio, la “seconda Roma”, e Mosca la “terza Roma”, l’idea forte che sottostava era questa: né una singola nazione né un’Europa meramente geografica possono essere impero, ma solo oriente e occidente insieme».[11] Oggi questa funzione potrebbe essere assolta da Vienna, ultima città imperiale, ma dove Russia, America e Inghilterra, firmando la costituzione dello Stato austriaco, si strinsero la mano.
C’è molto romanticismo in questa lettura della storia, ma a me, sembra più importante l’intento dell’autore, anche se mediato da un’architettura diacronica profondamente romantica della storia d’Europa. Infatti l’intento sotteso a questa ricostruzione della storia europea, è ultimamente mirato a preparare l’ultima parte, squisitamente teologica, della sua riflessione, scavando quindi una fondazione alla vocazione dell’Europa come luogo dello scambio messianico. L’analogia entis, la struttura dinamica dell’ente viene qui applicata alla storia politica, anche se nella realtà della politica essa si capovolge in un movimento verso il basso e non più verso l’alto, pur restandone intima vocazione “tradita”. Ma in questo capovolgimento il destino della realtà politica assomiglia al destino dell’uomo, anche lui portatore di una vocazione tradita.
Non è un caso che Przywara, a conclusione della sua lettura fenomenologica della storia dell’idea, contrapponga lo spirito autentico dell’Europa alla comprensione attuale dello spirito come dominio della natura:
Il significato che noi uomini dell’occidente attribuiamo oggi alla parola spirito contrasta, in modo inconciliabile, con quello originario attribuitole da tutte le lingue più significative: Ciò che noi chiamiamo spirito, sulla base dell’idolo della pura scientificità, appare come un addomesticamento razionale dell’originaria forza, mobilità e fecondità proprie dello spirito e comuni alla originaria cultura germanica, latina, greca ed ebraica. Spirito è divenuto per noi occidentali il dominio sopra la vita e il cosmo, in se stessi irrazionali, attraverso la ragione umana calcolatrice, la ratio, fino al punto che l’infinità della vita e del cosmo appaia agli occhi delle odierne scienze della natura e della tecnica come una chiara struttura numerica, tale cioè da poter essere «dominata matematicamente» dallo scienziato e dal tecnico che eseguono i calcoli.[12]
Infine nell’ultima parte Przywara sviluppa l’idea cristiana di Europa. Il suo discorso è radicalmente diverso da quello che oggi molti nostalgici portano avanti sulle “radici cristiane” dell’Europa. Non già che Przywara rifiuti di parlarne. Ma per lui l’elemento “cristiano”, nella sua dimensione originaria, acquista un significato radicalmente diverso:
«”Cristiano” è l’aggettivo che si riferisce a Cristo: questo non vuol dire che significhi solo “che proviene da Cristo” o ancora “che appartiene a Cristo” o ancora “che si riferisce a Cristo”, ma significa esattamente quanto Agostino dice dei cristiani: “Voi non siete solo di Cristo, ma voi siete Cristo”».[13]
Questo sta a significare che il cristiano è tale nella misura in cui rende di volta in volta presente nel tempo l’unico Cristo, ne è cioè l’esatta e vera rappresentazione. E giacché Cristo/Messia è l’Unto nello Spirito che realizza le promesse dell’Antico Testamento, “per l’illuminazione delle genti” (Lc 2, 32), allora vale che
«Gesù in quanto Messia dell’Antico Testamento, è essenzialmente “Salvatore del mondo”, in modo tale che egli dev’esser visto e compreso a partire dall’intera e multiforme pienezza del desiderio di liberazione e redenzione di tutti i popoli del mondo … Nel mistero dell’unità insieme di ebrei e gentili, questo unico “Messia degli Ebrei” e “Redentore del mondo” appare finalmente come mistero di un Dio santissimo, capace di “scambiare se stesso”, che in questo Messia e Redentore “si scambia con i ‘peccati del mondo’”: in quanto egli “prende su di sé i peccati del mondo”, dal primo Adamo e dalla prima Eva in poi, e li “porta” nella “maledizione”, nella “morte” e nella “discesa agli inferi”. E questo, nel Messia Gesù, diviene per noi “sapienza di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (cf 1Cor 1, 30)».[14]
Appare quindi qui la centralità del motivo dello “scambio/riconciliazione”. Essere cristiani, rendere presente il Cristo, è un evento che si gioca tutto nella capacità di assumere l’altro, nella concretezza esistenziale della sua storia, portando sopra di sé la diversità della sua identità storica, fosse pure quella della lontananza da Dio.
«Il “servizio di un’Europa cristiana” intesa come “occidente cristiano”, consiste quindi nel compiere, con Cristo e in Cristo, l’unica “diaconia dello scambio che salva”».[15] Ma questa vocazione nella quale si riassume l’idea Europa, in concreto è stata sempre tradita. Tradimento di questa missione dell’Europa nel mondo sono stati infatti il Medioevo cristiano (con il “Sacro impero”) dove i senza Cristo divennero nemici. Ma lo furono anche le chiese della Riforma, nonostante il loro inizio evangelico, giacché la “comunità di eletti” fondata da Lutero si strutturò a Ginevra nella comunità degli “eletti predestinati”, che comportava l’idea di una “terra di Dio”, quella cioè degli “eletti anglosassoni”, che vollero e vogliono tutt’oggi essere i “conquistatori del mondo” con “crociate morali”.[16] Ma tradimento alla diaconia dello scambio, come missione dell’occidente, fu ancora l’illuminismo cristiano, nonostante l’ideale autenticamente evangelico della fraternità, giacché esso si sviluppò nell’antica alleanza degli “umanamente perfetti”. E anche se contengono idee autenticamente cristiane, romanticismo della restaurazione e partiti cristiani che vogliono la restaurazione di una società cristiana diventano l’ultima versione di una nuova antica alleanza, che chiudono gli occhi sul fatto che l’Antico Israele sia “l’Israele di Dio” del Nuovo Testamento, invitato a uscire “fuori dall’accampamento per portare l’oltraggio di Cristo” (Eb 13,13).
Tutte le realizzazione storiche dell’Europa cristiana sono quindi un tradimento della sua missione cristiana. Mentre «una vera e nuova “Europa cristiana” intesa come “occidente cristiano”, può consistere unicamente nel fatto che noi cristiani, con il “Cristo amico e commensale dei peccatori”, diventiamo sinceramente “amici dei peccatori”, e concretamente “ci sediamo a mensa con loro” per essere così solo cristiani “come Cristo” che non distrugge i propri nemici,[17] ma che invece “assume su di sé, porta e toglie il peccato del mondo” (Giov 1, 29).[18]
…. Przywara, proprio attraverso la sua analisi storica delle varie incarnazioni europee dell’idea messianica, deve ammettere che l’idea resta un compito, e anche se non lo ammette esplicitamente, sembra suggerire che la storia dell’idea cristiana di Europa resta essenzialmente aperta, affidata quindi alla storia del legame tra fede e responsabilità.
Il problema che si pone resta allora quello di sapere chi siano i responsabili di questo compito, coloro che avendo raccolto la palla lanciata loro, la rilanciano perché prosegua nel suo corso ultimamente misterioso.[19] … Per Przywara, nel suo saggio, la risposta alla domanda non è mai esplicitata.[20] Ma essa è chiara e va da sé: l’uomo messianico. Giacché si danno nella storia uomini che effettivamente si sono caricati, in maniera radicale, del peso dell’altro fino alla morte, e così hanno “adempiuto la legge del Messia” (Gal 6, 2). Questo compito non è limitato ma si estende ai cristiani come tali. Ne sono esempio tra gli altri, in tempi vicini a noi, Oscar Romero, Marianella García, Teresa di Calcutta, Rutilio Grande, i gesuiti assassinati a San Salvador, i trappisti assassinati a Tibhirine in Algeria, ma al di là di costoro che sono entrati nelle cronache dei giornali, ne sono esempio tutte le migliaia di uomini e donne che nel silenzio offrono la loro vita per fare spazio e dare possibilità di vivere a persone più sfortunate di loro. E se è vero che la storicità deve restare aperta, come problema non decidibile all’uomo, il problema non è quello di far previsioni, quanto quello di reperire la forza dell’utopia, del “regno di Dio” che “non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, oppure: Eccolo là. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17, 20-21).
…Mi sia allora concesso rimandare ad un altro uomo messianico e teologo al tempo stesso, Dietrich Bonhoeffer. Tutta la sua etica ruota attorno al concetto di “assunzione di colpa”.[21] Ed egli si assunse tutta la responsabilità di assumersi le colpe di quanti, per lo più atei, prepararono la congiura contro Hitler. Per questo fu impiccato, nudo come Cristo.[22]
Giuseppe Ruggieri
[1] La prima parte di Analogia entis fu pubblicata nel 1932. La II parte non fu mai scritta, ma l’autore pubblicò vari saggi che di fatto la sostituivano e che furono pubblicati assieme alla I parte, nella II edizione, presso Johannes Verlag, Einsiedeln 1962. Una traduzione italiana di questa seconda edizione è quella curata da Paolo Volontè: Analogia entis, Milano 1995, dove tuttavia il traduttore equivoca e ritiene che la prefazione di questa II edizione sia di H.U. von Balthasar, mentre è dello stesso Przywara.
[2] Si tratta del capitolo finale dell’opera di E. Przywara, LOGOS. Logos, Abendland, Reich, Commercium, Düsseldorf 1964. La citazione a p. 171.
[3] Seguendo un metodo a lui molto caro, Przywara non amava usare i vocaboli nel loro senso derivato, ma in quello dell’originario etimo delle parole. Lo “scambio” è il modo in cui egli rendeva il termine καταλλαγη, che abitualmente viene reso con “riconciliazione”. Ma la riconciliazione è l’effetto dello scambio, non l’evento fondante che è lo scambio di condizione con l’altro.
[4] Przywara traduce così il sintagma liturgico dell’admirabile commercium: “Staunenswunder des (auskaufenden) Austausch”, dove riecheggia il testo di Mt 20, 28: “Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti“.
[5] L’operetta fu pubblicata nel 1956, presso l’editore Glock und Lutz a Nürnberg. Io mi riferisco alla traduzione italiana, L’Idea d’Europa. La “crisi” di ogni politica “cristiana”, presso l’editore di Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013, con una utile introduzione di F. Mandreoli e J.L. Narvaja.
[6] Idea d’Europa, cit. 75 (in seguito Pr).
[7] Pr 73
[8] Pr 75.
[9] Pr 80.
[10] Viene citata, di Carl Schmitt, la raccolta dei saggi Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954. Materialien zu einer Verfassungslehre, Berlin 1958, 84 e 362ss.
[11] Pr 92.
[12] Pr 99.
[13] Pr 111.
[14] 113-115.
[15] Pr 118-119.
[16] Pr 120.
[17] In nota Przywara cita Is 42, 3 e Mt 12, 20: “Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia”.
[18] Pr 124-125.
[19] Ho in mente la poesia di Rilke, che cito, con qualche piccola variante nella traduzione, dall’edizione italiana (R.M. Rilke, Poesie II, edizione con testo a fronte a cura di G.Baioni, commento di A. Lavagetto, Torino 1995, 254-5).
Finché riprendi la palla che ha lanciato la tua mano,
non è che abilità e conquista facile -;
solo se all’improvviso devi prendere
la palla che un’eterna tua compagna
di gioco scagliò al centro del tuo corpo
con ben mirato slancio, in uno di quegli archi
di ponte del grande architetto Iddio:
solo allora è virtù il saper prendere, –
virtù non tua, di un mondo. E se tu addirittura
forza e coraggio avessi a rilanciare,
anzi, prodigio: se coraggio e forza
dimenticando avessi già lanciato (come l’anno
lancia gli uccelli, stormi migranti che il calore
di una vecchia cova all’altra giovane
scaglia oltre i mari) solo a questo rischio
è valido il tuo gioco. Ormai non rendi
il tuo lancio più facile né più
difficile. Dalle tue mani sfugge
la meteora e sfreccia nei suoi spazi …
[20] Ma la risposta è presente nella biografia stessa di Przywara, uomo spirituale, di cui fa fede uno dei suoi capolavori, che potrebbe essere definito come la versione spirituale dell’Analogia entis: Deus sempre maior. Theologie der Exercitienz, in tre volumi pubblicati presso Herder in Freiburg in Br., rispettivamente negli anni 1938, 1939, 1940. In misura ancora maggiore rispetto ad Analogia entis il linguaggio è particolarmente travolgente e coinvolgente. Solo alcune pagine della Kirchliche Dogmatik di K. Barth possono essere accostate nel Novecento alla forza espressiva di quest’opera.
[21] Cf. soprattutto il capitolo su “La struttura della vita responsabile” in D. Bonhoeffer, Etica, a cura di I. Tödt, E. Tödt, E. Feil e Cl. Green, Brescia 1995, 223-252.
[22] Per i particolari della sua morte, cf. Ch.U. Schminck-Gustavus, Il processo contro Bonhoeffer e altri a Flossenbürg e l’assoluzione dei magistrati assassini nel dopoguerra, in G. Ruggieri, Dietrich Bonhoeffer. La fede concreta, Bologna 1996, 71-102.