CHE COSA FA FRANCESCO
CHE COSA FA FRANCESCO
Il papa ripara la Chiesa, annuncia le meraviglie di Dio, apre al tempo nuovo, trattiene le forze della distruzione. È nello stesso tempo la resistenza del “katécon” e il varco al tempo che viene
Raniero La Valle
Pubblichiamo un estratto dell’articolo che uscirà nel prossimo numero di “Presbyteri”
Un ruolo che Francesco sta esercitando come papa è, come quello del primo Francesco, quello di riparare la Chiesa. Fin dall’inizio in effetti egli ne ha fornito il documento programmatico, che è la “Evangelii Gaudium”; ma poi tutto l’esercizio del ministero pontificale, parole, segni ed opere, ne è stato lo svolgimento.
Ripara la Chiesa
In alcuni picchi di questa azione tale ruolo è stato più manifesto, a cominciare dalla prima sera quando Francesco si mostrò al balcone privo della mozzetta rossa che aveva tramandato lungo i secoli l’immagine di un potere imperiale simbolicamente passato dalle spalle di Cesare a quelle di Pietro. Poteva sembrare un gesto di puro valore formale, antiretorico, quasi obbligato per un papa che per la prima volta osava chiamarsi Francesco. Ma poi si è visto quanto quel gesto fosse programmatico, quando il papa ha cominciato a fare i conti con l’Europa nei suoi incontri con i capi e con i rappresentanti dell’Unione. Proprio in confronto con l’Europa la Chiesa doveva ridefinire se stessa perché di quella Chiesa temporalista che rivendicava il potere terreno, distribuiva regni ed imperi, incoronava e deponeva sovrani, l’Europa era stata la culla e il dominio. Col pontificato di papa Francesco la Chiesa, che già si era rallegrata con Paolo VI della fine del potere temporale dello Stato pontificio, prendeva atto della fine dell’intera età costantiniana e proclamava l’uscita dalla “cristianità”, cioè da quel modello di Chiesa e di società unite in un unico impasto di religione, politica, cultura, identità e potere; quando i leaders europei vennero a Roma a portare al papa il “Premio Carlo Magno”, Francesco non si riprese la corona che un suo lontano predecessore aveva messo sulla testa dell’Imperatore e non rivendicò le radici cristiane di quello “Stato totalitario europeo” che da quell’evento, secondo lo storico austriaco Friedrich Heer, aveva preso inizio. Piuttosto il papa rimetteva quella corona al popolo sovrano, all’autonomia della politica e alla regola del diritto e celebrava l’uscita dalla cristianità perché potesse rifulgere il cristianesimo.
Tutto ciò significa “riparare la Chiesa”, perché essa stessa possa “uscire”, possa essere quella ministra della misericordia mandata a tutta l’umanità sofferente, che viene raccontata da Bergoglio, quell’ospedale da campo che prima di tutto cura le urgenze e i codici rossi, quella missionaria del Vangelo che, come ha detto il cardinale Bassetti nel suo primo discorso alla Conferenza della CEI, è “al servizio di un’umanità ferita”.
Del resto ha detto più volte il papa stesso: “La Chiesa ha sempre bisogno di essere riformata, riparata”; in essa infatti “non mancano le crepe”; e nessuna pietra è inutile, dalla più piccola alla più grande, per risanarla. Appartengono a questo lavoro di restauro la rivalutazione di don Mazzolari e don Milani, la rivendicazione del magistero di Lercaro, ma anche il chiudere l’epoca della “cristianità”, anche il mettere il discernimento spirituale dove c’era solo la legge dei precetti, e ancor più il dire ai Gesuiti della Colombia, nel suo viaggio laggiù, che un teologo che non prega sarà pure “il volume del Denzinger fatto persona, saprà tutte le dottrine esistenti e possibili, ma non farà teologia”, perché “oggi la questione è come esprimi Dio, come esprimi chi è Dio”[1]. Ed è in questa linea che si inserisce la novità introdotta da papa Francesco con la “Amoris laetitia. Che cosa ci sarebbe stato di più di semplice, dopo il gran parlare che si era fatto in due Sinodi di amore e matrimonio, che mantenere condanne e casistiche, confermare l’impotenza delle risorse ecclesiali dinnanzi alle condizioni “oggettive” di peccato, rassegnarsi all’insanabilità di condizioni di vita “irregolari” di famiglie e di persone? Molto meno indolore è stata la scelta fatta con l’ “Amoris laetitia”. Ben più intrepido, più evangelico e più misericordioso è stato l’aprire la strada stretta del discernimento personale ed ecclesiale, tra la Scilla di una mera casistica univoca e astorica, e il Cariddi di una morale relativistica “di situazione”. Ma così facendo papa Francesco, sulla scia della buona teologia di Tommaso e di Ignazio, ha riaperto le sorgenti della grazia atte ad inondare la vita dei cristiani che una Chiesa, trasformata in dogana, aveva chiuso lanciando contro la vita delle persone, “come se fossero pietre” norme generali che “nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari” (A:L., 304-305). E se non piovono pietre, non sarà che le chiese tornino a riempirsi e i fonti battesimali a irrorare acqua viva?
Annuncia le meraviglie di Dio
Dunque, “riparare la Chiesa” è un compito, ma la vera questione che lo precede e lo condiziona, è “come oggi esprimere Dio”, come annunciare oggi chi è Dio. E proprio questa appare la vocazione di questo pontificato, per questo Bergoglio è stato chiamato, per questo è venuto: per riaprire a beneficio di un’umanità che la stava archiviando, la questione di Dio.
Si spiega così il messaggio, la “buona notizia” che tutte le altre sovrasta: la notizia di Dio come misericordia, che papa Francesco ha messo al centro del suo servizio petrino. Ha cominciato a farlo appena eletto papa, già dal primo Angelus, già dalla prima messa nella Chiesa di S. Anna in Vaticano, quando parlò del Padre come del Dio della misericordia.
Certo, non diceva niente di nuovo, sempre Dio è stato celebrato come misericordia. La novità era che Dio fosse solo misericordia, fosse un Dio che perdona sempre, un Dio che arriva sempre per primo nell’amore, che “primerea” (è un suo neologismo in spagnolo).
E se “primerea”, se arriva prima, vuol dire che non è il Dio del contraccambio, della reciprocità, il Dio che deve essere risarcito, che deve ricevere soddisfazione, e la giustizia di Dio non è la giustizia “di una pesata eguale”, come già diceva Isacco di Ninive, non è la giustizia dei vecchi libri penitenziali, che a tanto di peccato facevano corrispondere tanto di punizione.
E se Dio è misericordia, e solo misericordia, quello che Francesco è venuto a fare è di “misericordiare” (altro neologismo, questa volta in italiano): una citazione della misericordia – “miserando et eligendo” – che Bergoglio ha preso da Beda il Venerabile, un monaco inglese del VII-VIII secolo, e ha messo nel suo stemma prima episcopale e ora papale.
Non si tratta solo di una devozione più accentuata per uno degli attributi di Dio, per uno dei “bei nomi di Dio”, il “misericordioso”. È un cambio di prospettiva.
E proprio in tale prospettiva, un mondo che giace nella violenza ha ricevuto la rivelazione di un Dio nonviolento. Anche questo non è nuovo. Sempre Dio è stato non violento. Solo che gli uomini non l’avevano capito, e spesso nemmeno gli scrittori biblici che ci hanno lasciato pagine “che rimangono anche per noi credenti molto impressionanti e molto difficili da decifrare”, come sta scritto in un documento dedicato al “monoteismo cristiano contro la violenza” pubblicato nel 2014 dalla Commissione Teologica Internazionale presieduta dal cardinale Muller.
Il Dio predicato da papa Francesco è per l’appunto un Dio nonviolento. E questa è la rivoluzione più grande. Perché con questo Dio la guerra e la violenza perdono ogni loro pretesto o legittimazione morale, come già aveva asserito Giovanni XXIII, perdono ogni loro privilegio o immunità sacrale, sono private del loro alleato o condottiero più potente, e diventano del tutto storiche, relative, oppugnabili e spurie. E, più di tutte le altre, la violenza e le guerre religiose sono tacciabili come aliene da ogni ragione. Per questo motivo papa Bergoglio si è sempre rifiutato di nominare l’Islam come ingrediente dell’estremismo jiahdista, e ha sbarrato la strada ad ogni pulsione volta a far precipitare in guerra santa la “guerra mondiale a pezzi” che oggi è in corso.
Il definitivo congedo dal Dio violento, a cui tutte le religioni e le culture sono oggi chiamate, per la Chiesa cattolica è avvenuto col Concilio Vaticano II, ed è da lì che papa Francesco è partito.
È talmente importante questo congedo dall’idea di un Dio violento che, secondo il citato documento della Commissione Teologica Internazionale esso è “inseparabile dal futuro del cristianesimo” e offre la reale opportunità, alle culture secolari e alle religioni del mondo, per “un ripensamento dell’idea di religione”.[2] Dunque è una rivoluzione che parte dal cristianesimo, ma investe l’idea stessa di religione.
Del resto si è visto in tutta la storia della salvezza che la dialettica è tra Dio e la religione, perché di mezzo c’è la fede. Quello che sta facendo papa Francesco è proprio questo, egli sta presentando al mondo – e prima ancora alla Chiesa – una nuova, più amabile, più paterna, irresistibile immagine di Dio, sta dicendo al mondo e alla Chiesa il “chi è” di Dio. In questo senso il suo ruolo è tipicamente gesuano (non per niente il papa è gesuita), vale a dire che egli cerca di fare quello che faceva Gesù, cioè far vedere il volto di Dio, manifestare i segreti di Dio, correggere le false immagini di Dio.
E per questo egli è sotto attacco: perché da questa inedita “esegesi” di Dio derivano straordinarie conseguenze nel giudizio sullo stato dell’Europa e del mondo, sulle ideologie religiose e politiche, sulle cause della povertà e della negata dignità dell’uomo, sull’economia che uccide, senza scopo né volto veramente umano.
In questa visione i poveri non sono solo quelli che soffrono l’ingiustizia, ma “sono quelli che lottano contro l’ingiustizia”. Ha detto Francesco ai movimenti popolari ricevuti in Vaticano il 28 ottobre 2014: “Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di ONG, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare”.
A sentir questo, il mondo pensa: ma la religione non doveva servire a far star buoni i poveri?
E allora, per fermarlo, lo attaccano sul suo terreno, lo accusano di citare la Bibbia in modo selettivo, di insistere sulla misericordia, la vita, la grazia e il perdono, oscurando i passi che annunciano la severità, la morte, la condanna e l’inferno. È una critica che muove da una lettura fondamentalista della Bibbia, che la Pontificia Commissione Biblica, nel 1993, definì come un’istigazione a “un suicidio del pensiero”. Ma papa Francesco nella predicazione della Scrittura privilegia quell’annuncio della salvezza che meglio interpreta la promessa messianica, e lo fa “in quel modo che la nostra età esige”, come papa Giovanni chiese di fare alla Chiesa convocata in Concilio. In tal modo egli fa esattamente quello che ha fatto Gesù nella sinagoga di Nazaret quando, leggendo con discernimento il rotolo con la profezia di Isaia, ne affermò il compimento preannunciando “l’anno di misericordia del Signore”, ma tacque la successiva minaccia del “giorno di vendetta del nostro Dio”; e non per niente fu da quel momento che cercarono di farlo morire.
Ma come si può dare di Dio un annuncio nuovo, se Dio è sempre lo stesso e in lui non c’è ombra di variazione (Giac. 1, 17)? Ciò accade perché è inesauribile la conoscenza di Dio, e c’è sempre un Dio inedito, che attende di essere pubblicato. Ci sono sempre nuove edizioni dell’unico Dio, e man mano che il Dio inedito diventa edito gli uomini progrediscono nel faccia a faccia con lui. Di edizione in edizione, non è Dio che cambia ma, come diceva papa Giovanni del Vangelo, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Dio cresce al crescere della Parola che lo dice, ma in realtà quella che cresce, quella che muta, è la nostra percezione di Dio, la nostra capacità di accogliere la sua offerta di vita. Nuova è l’edizione in cui, da un tempo all’altro, egli viene conosciuto, rappresentato, annunciato e recepito nell’umanità e nella Chiesa.
Si può però obiettare (e per questo i dottori della legge e gli scribi sono oggi sul piede di guerra), che il ciclo delle edizioni è finito, perché c’è ormai stata l’edizione definitiva di Dio che è quella pubblicata da Gesù. E questo è verissimo.
Però è anche vero quello che disse un grande giornalista, Mario Missiroli, che fu direttore del Messaggero e del Corriere della Sera, in una sentenza che è diventata poi di uso comune: “Non c’è niente di più inedito dell’edito”.
Così anche il Dio pubblicato da Gesù, ancora dopo duemila anni, è in gran parte inedito. E lo è fin da allora, tanto è vero che a conclusione dei Vangeli, Giovanni dice che se si mettessero per iscritto tutte le cose manifestate da Gesù, il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. E se questo era vero all’inizio, lo è stato anche dopo; e anzi si deve dire che, finita la stagione fulgente dei primi quattro grandi Concili, la Chiesa è passata attraverso una tormentata ricezione del Dio di Gesù, dal Medio Evo fino al secondo millennio. E non solo per tutto ciò che di Dio era rimasto inedito, ma anche perché l’edito è stato via via gravato e ricoperto da glosse che non sempre hanno contribuito a rendere più intellegibile e fruibile l’originale. Perciò a un certo punto un cristianesimo appassionato invocò che non si aggiungessero glosse a glosse, ma si riprendesse in mano il testo edito al netto delle glosse, sine glossa, come diceva san Francesco. Ed è proprio da questo tornare al testo originale trasmesso da Gesù che l’inedito emerge, e che di nuovo irrompe nel mondo il Dio della sorpresa, il Dio che stupisce.
Apre al tempo nuovo
A mio parere questo è ciò che sta facendo papa Francesco, questa è la vera riforma e il carisma del suo pontificato; questa è la portata della sua scelta strategica di uscire dal palazzo e di vivere a Santa Marta per aprire ogni giorno il Vangelo, riportare alla luce il Dio che era stato oscurato, pubblicarne un’edizione non censurata dagli scribi, e trasmetterla a tutto il popolo.
Ma se è questo che sta accadendo, è legittimo leggere il pontificato di Francesco come il tentativo di aprire la porta a una storia nuova ovvero, dato che è un papa cristiano, a far sì che il tempo annunciato da Gesù alla Samaritana, in cui gli uomini adoreranno il Padre in spirito e verità, venga e sia questo. Ciò vorrebbe dire interpretare la svolta che stiamo vivendo come l’inizio di una nuova fase della storia della salvezza. Del resto lo dice anche il linguaggio secolare, che oggi siamo non tanto in un’epoca di cambiamenti, quanto piuttosto a un cambiamento d’epoca.
In tal caso non si tratta solo di stare a guardare ma, come diceva padre Balducci, di “forzare l’aurora a nascere”, perché l’avvento di questo tempo nuovo è una questione di vita o di morte. Infatti il mondo così non può continuare. Basta vedere il cimitero del Mediterraneo ormai guardato a vista da navi e uomini armati, per capire a che punto siamo, basta ascoltare il gemito del mondo che noi stessi abbiamo sfigurato, mentre non abbiamo né progetto né cuore per fermare la corsa al suicidio intrapresa dai capi dei popoli.
È a questo frangente della storia che si affaccia il Dio della misericordia che oggi la Chiesa è chiamata ad annunciare, il Dio che non si ferma alla giustizia (se no non sarebbe neanche un Dio), un Dio che perdona sempre, un Dio che si scambia con l’uomo, come dice Paolo, nel portarne il peccato e la croce, un Dio che non sceglie tra eletti e non eletti, ma elegge tutti oltre ogni religione e cultura, che non se ne sta dietro la porta del santuario vigilata dall’ostiario, ma esce per essere incontrato in spirito e verità, non il Dio della casistica, ma della verità, un Dio che non sta con la città sfavillante ma col barbone che muore in via Ottaviano, non sta nelle motovedette che agguantano la preda, ma nei barconi che affondano e nelle navi delle ONG che, contro le regole, corrono a salvarli.
Questo è il Dio sorprendente predicato da Francesco. Ma non è il Dio di Francesco, è il Dio dell’edizione straordinaria del Novecento. Questa lettura di Dio è cresciuta infatti nel tempo insieme alla fede del popolo di Dio, e ha fatto irruzione dopo la grande tragedia dei totalitarismi, della guerra mondiale, della Shoà, della bomba atomica. Lo stesso papa Francesco non potrebbe oggi pubblicarla se questa nuova edizione di Dio non fosse stata preparata in una Chiesa passata attraverso la grande tribolazione della modernità, dell’apostasia delle masse, del dilemma tra “essor” e “agonie” vissuto nel dopoguerra, e poi non fosse stata “pubblicata” dal Concilio Vaticano Secondo.
Ed è tutto questo che è confluito nel Dio inedito annunciato da Francesco, il cui magistero, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, ha perciò un altissimo contenuto dottrinale.
Trattiene le forze della distruzione
Però non possiamo escludere che il tempo non sia ancora venuto, che ancora resti molto della notte, che questa interpretazione gratificante del pontificato e della Chiesa di ora possa essere criticata come troppo ottimistica e cadere sotto il monito rivolto ai profeti che raccontano i loro sogni (Ger. 23, 27), che profetizzano secondo i loro desideri, che dicono pace e la pace non c’è (Ez. 13, 10).
Si può dare allora una seconda interpretazione del pontificato di Francesco, anche se più drammatica. La seconda interpretazione è che esso rappresenti piuttosto una forza frenante, l’ultima difesa prima della catastrofe, l’evento a sorpresa che impedisce che la catastrofe avvenga. C‘è un passo messianico della seconda lettera ai Tessalonicesi, in cui Paolo dice che è in atto un “mistero dell’anomia”, che Gerolamo traduce in “misterium iniquitatis”. Ma Paolo parla proprio di mistero dell’anomia, che è insieme assenza di legge, distruzione, apostasia. Ebbene, questo mistero dell’anomia viene trattenuto da una forza che lo contrasta, che Paolo chiama katékon, “colui che trattiene”. È questa forza che fa da argine al mistero dell’anomia, e trattiene quello che Paolo chiama l’“anomos”: si tratta dell’uomo senza legge che pretende mettersi al posto di Dio, di un potere che si fa potere a se stesso, sciolto da ogni legge, “legibus solutus”, dunque il potere assoluto; qualcuno l’ha chiamato l’anticristo. In una lettura fatta nel presente, questa figura dell’anomos, del “senza legge” potrebbe essere identificata nell’odierno potere globale, il potere che domina nel sistema della globalizzazione selvaggia; esso è senza legge, perché nessuna legge lo prevede, opera a un livello, quello internazionale, dove il diritto non obbliga se non i consenzienti e i patti sono stracciati uno dopo l’altro, dal protocollo di Kyoto al trattato antimissile, al patto per instaurare due Stati in Palestina, alle convenzioni sulla libertà dei mari e sul diritto dei profughi all’asilo; è un potere che governa abrogando le leggi, sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo al denaro e rendendo arbitra la guerra.
Ora, stando a quel passo della lettera di Paolo, dovrebbe ergersi una forza che lo trattiene, che dovrebbe impedirgli di portare la storia al collasso, un katékon, appunto. Ma qual è questa forza? Secondo Tertulliano era l’Impero romano, che col diritto frenava le forze della distruzione. Secondo il giurista tedesco Carl Schmitt, si tratta di “una forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo” ciò che secondo lui era stato l’Impero cristiano, la cristianità costantiniana. Secondo Cacciari “il potere che frena” è stato sempre interpretato come un potere politico. Nessuno di loro aveva ragione. Potrebbe invece essere la svolta della Chiesa di papa Francesco il vero punto di resistenza, la porta tagliafuoco che intercetta e trattiene le forze che obbediscono alla seduzione della fine. Prima che l’amore finisca, prima che la fede finisca, prima che venga meno la salvaguardia del creato, il mondo giocherebbe così ancora la sua carta fidando nella misericordia di Dio. Questo potrebbe essere il senso di questo pontificato.
Del resto se ne sono visti dei segni evidenti. Era papa da poco, e da Lampedusa Francesco tratteneva l’Italia e l’Europa dal lasciare libero corso alle stragi nel Mediterraneo e le metteva in guardia contro il genocidio incombente nei riguardi del popolo dei migranti. Era appena cominciato il pontificato, e con una inedita iniziativa di preghiera globale Francesco riusciva a fermare la corsa verso la guerra contro la Siria, che avrebbe portato all’estremo il disastro già compiuto in Medio Oriente. Infine rifiutandosi di riconoscere come riconducibile all’Islam l’estremismo terrorista, ha tolto fascine all’incendio e ha impedito che precipitassimo in una guerra di religione, che sarebbe stata la guerra della fine. In questo senso la Chiesa di Roma, in dialogo con le altre religioni e Chiese, si è posta come forza frenante rispetto alla catastrofe annunciata, come un katékon simile a quello menzionato da Paolo. E nell’esercitare questa azione frenante, papa Francesco ha fatto intravvedere le linee della terra nuova, che possiamo oggi prefigurare ma in cui ancora non possiamo entrare.
Perciò il pontificato di Francesco, propedeutico al tempo nuovo, potrebbe leggersi come katekonico, o agonico, per la lotta ingaggiata contro le forze della distruzione, per salvare il futuro storico dell’umanità amata da Dio.
Se questo è vero, e se san Paolo ha ragione, tutto ciò spiega l’accanimento con cui papa Francesco è combattuto. Perché il katékon deve essere tolto di mezzo dalle forze di distruzione, che intendono compiere la loro opera fino alla fine. Allora la riforma della Chiesa non è solo per una Chiesa in uscita; inaspettatamente la Chiesa cattolica diventa il katékon che, come diceva Carl Schmitt, “trattiene la fine del mondo”.
Ma se questa è la parte che tocca alla Chiesa romana, essa non va subita come un fato, come un destino, ma deve esplicitamente essere presa in carico da una cristianità consapevole. Se il ruolo storico è di fermare la fine, allora questo deve essere assunto come un compito. Anche da parte nostra.
Raniero La Valle
[1] Un incontro privato di Papa Francesco con i gesuiti colombiani, in Civiltà Cattolica, q. 4015, 7 / 21 ottobre 2017, p. 9.
[2] Commissione Teologica Internazionale, Il monoteismo cristiano contro la violenza, 2014, n. 18.