Come uscire dalla “fase finale” dell’attuazione del neoliberismo
Il prevalere del pensiero economico liberista su quello keynesiano, che permise la ricostruzione del dopoguerra, ha provocato la finanziarizzazione dei mercati che ha separato il denaro dalla produzione dei beni reali: è stata la vera vittoria del “capitale”
Paolo Maddalena (2)
Abbiamo pubblicato il 10 maggio scorso nella sezione “Dice la storia” di questo sito la prima parte di un saggio di Paolo Maddalena, già vice-presidente della Corte Costituzionale, sull’ “uscita dalla crisi attuando la Costituzione”; la parte già pubblicata aveva il titolo: “Popolo territorio proprietà moneta dalle origini alla sovranità del mercato”. Pubblichiamo ora la seconda e penultima parte.
1. – Il “sistema economico finanziario”. Il pensiero neoliberista e quello Keynesiano. Il meccanismo per l’attuazione del pensiero neoliberista e la finanziarizzazione dei mercati.
Il “sistema economico” perfettamente aderente al descritto concetto di “Comunità politica”, nella quale svolgono un ruolo rilevantissimo le “risorse della terra” e il “lavoro dell’uomo”, è, come agevolmente si nota, un “sistema economico reale”, che implica uno stretto legame tra “beni reali” e “moneta”. Questo sistema, che definiremmo “naturale”, a seguito di una tenace, lunga ed attendista campagna del pensiero neoliberista, si è tragicamente alterato, a partire dagli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, facendo venir meno l’idea valoriale dei fattori della produzione, e, di conseguenza, anche quell’indispensabile “equilibrio” tra merci e danaro circolante. Si è verificata così, da un lato la tendenziale svalutazione del concetto stesso di Stato nazionale o federale, e dall’altro lato si è concesso ampio spazio alla “finanziarizzazione” dei mercati, e cioè a un processo di trasformazione del “sistema economico” nel quale gli aspetti “produttivi” sono trascurati a favore di quelli “finanziari”. In realtà si è guardato al “capitale”, non più come a un insieme di “beni reali”, ma come ad un “accumulo di danaro”, non importa se “reale” o se “fittizio”, che consente in ogni tempo, ed in virtù di apposite disposizioni di legge, di acquistare altri beni reali o fittizi che siano. Si tratta di un macroscopico stravolgimento, che, pone in primo piano la “speculazione finanziaria”, pienamente ammessa nel libero mercato, e che, da un lato porta all’arricchimento di pochi, e dall’altro all’impoverimento di tutti. Sul piano strettamente monetario, ne è scaturito che il “danaro” non è, nella sua più intima essenza, semplicemente un mezzo di scambio, ma, come afferma Gallino , “la promessa di un valore”, una sorta di “diritto di prelievo” dalla ricchezza esistente. Si è così passati, ed è triste sottolinearlo, da un “sistema economico produttivo” ad un “sistema economico predatorio”, che non produce più ricchezza per tutti (si produce sempre meno), ma miseria per molti.
Scardinare il pensiero unico
Tutto questo, come si accennava, è conseguenza dell’affermazione del pensiero “neoliberista”, divenuto il “pensiero unico dominante”, come per primo ha affermato Ignacio Ramonet.
Scardinare questo pensiero, al fine di ricostruire un sistema economico produttivo di stampo keynesiano, fondato sui dati della realtà, non è cosa facile, poiché i detentori attuali dei grandi capitali, e quindi del potere, hanno il monopolio delle comunicazioni ed è molto arduo pensare di poter penetrare nell’immaginario collettivo prescindendo dai mezzi di comunicazione di massa. Ciò nonostante, non è dubbio che la “verità” va accertata e proclamata, poiché, come è noto, le idee, prima o poi, riescono comunque a diffondersi tra la gente.
Quello che deve essere chiaro è, comunque, che prima dell’azione, come affermava, Mazzini, c’è sempre un pensiero, e che in economia ci sono due pensieri fondamentali che si contendono il campo: il pensiero di Jon Maynard Keynes, espresso principalmente nella sua opera “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936, e quello dei cosiddetti neoliberisti, che hanno avuto i loro più spinti sostenitori in Friedrich Hayek e in Milton Friedman, la cui opera, “Storia della moneta americana dal 1867 al 1960”, uscita nel 1958, ha fatto colpo su Pinochet, il quale ha privatizzato il Cile, rendendolo un Paese poverissimo, la Thatcher, che ha privatizzato il Regno Unito, Reagan, e subito dopo Clinton, che hanno privatizzato gli Stati Uniti, tutti perseguendo l’effetto altamente pregiudizievole per l’economia reale di arricchire chi è già ricco, aumentando drasticamente il divario tra ricchi e poveri.
Secondo Keynes, per superare la crisi, è necessario un “intervento statale” (e cioè del Popolo considerato nel suo complesso) che si concreti nella realizzazione di opere di pubblica utilità, che non producano merci da collocare sul mercato, in modo che, distribuendo danaro su una vasta platea di lavoratori, questi possano recarsi ai negozi per acquistare merci, i negozi siano spinti a chiedere prodotti alle imprese e queste ultime trovino conveniente assumere lavoratori per produrre le merci richieste, dando così luogo a un circolo virtuoso capace effettivamente di far muovere l’economia. “Intervento statale” (e cioè del Popolo) e “redistribuzione della ricchezza” appaiono, dunque, come i capisaldi di questa teoria.
Gli Stati devono scegliere tra mercati e popolo
I neoliberisti, al contrario, sostengono la necessità dell’”accentramento della ricchezza” nelle mani di pochi, “annientando del tutto l’intervento dello Stato nell’economia”. A loro avviso, “il popolo”, cioè l’insieme dei cittadini considerati come una unità organica, non ha alcun rilievo, come non ha rilievo, e lo si è già accennato, la stessa “Comunità politica”, ed occorre far leva “sull’individuo”, che deve essere “autoimprenditore”, altrimenti diventa “merce”, il cui costo deve essere il minimo possibile. Gli Stati nazionali e le Federazioni di Stati non devono più occuparsi degli interessi del Popolo, ma eseguire le leggi imposte dalla “sovranità dei mercati”, prima fra tutte la “libertà di impresa” unitamente alla “forte competitività” (alla quale fa esplicito riferimento il Trattato di Lisbona).
L’idea di fondo del neoliberismo è che esiste nel mercato “una mano invisibile” in virtù della quale tutto trova automaticamente il suo equilibrio. Altro postulato del neoliberismo è la fede assoluta nella “crescita infinita” (dato clamorosamente smentito dal fatto che il mondo è “finito”, come rileva Papa Francesco), mentre, d’altro canto, molta importanza riveste ”l’accumulo del danaro”, cui poco sopra si accennava, il quale, peraltro, può essere prodotto, non solo dalla crescita economica, ma (ed è questo l’assurdo) dal danaro stesso.
La storia del secondo dopoguerra ha dimostrato con i fatti quanto sia valida e conforme a natura la prima teoria e quanto sia illogica e contro natura la seconda.
Se, solo per un momento, si guarda all’Italia nei primi trenta anni del secondo dopoguerra, si nota agevolmente che “l’intervento dello Stato” nell’economia, insieme con l’”iniziativa privata”, è stata la molla che ha prodotto il cosiddetto “miracolo economico italiano”, divenendo l’Italia la quinta potenza economica mondiale. Viceversa, il cambio di marcia, ispirato dalle idee neoliberiste (le stesse che avevano dato origine al processo di globalizzazione), verificatosi a seguito della lettera in data 12 febbraio 1981, con la quale Andreatta (con l’intento di frenare l’inflazione dovuta alla stampa di moneta eccessiva) scrisse a Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, che quest’ultima era sollevata dall’obbligo di acquistare i buoni del Tesoro rimasti invenduti, ha provocato i seguenti dannosissimi effetti: ha costretto a rivolgersi al mercato generale e a porsi nelle mani della speculazione finanziaria (il che ha prodotto un aumento vertiginoso dei tassi di interesse), ha provocato un fortissimo aumento del debito pubblico (con picchi mai verificatisi in passato) e ha posto le premesse per una spirale recessiva strutturale dell’intera economia, che perdura ancor oggi e che ha pessime prospettive per il futuro anche molto prossimo.
La globalizzazione, e cioè la fusione a livello mondiale di capitali e di imprese (si pensi alle multinazionali e alle grandi banche), e l’espansione generalizzata della “disoccupazione”, hanno fatto il resto, e ci troviamo ora in quella che può definirsi “la fase finale” dell’attuazione del neoliberismo.
Si può affermare, tenendo presente quanto è effettivamente accaduto, che il pensiero neoliberista ha inventato, per raggiungere i suoi scopi, un vero e proprio “meccanismo” economico-finanziario, il quale prevede alcuni strumenti fondamentali, tra i quali spiccano: la creazione del danaro dal nulla da parte di soggetti privati ed organismi internazionali, le privatizzazioni unitamente alle liberalizzazioni e infine le svendite.
La creazione del denaro dal nulla
Dopo aver influenzato l’immaginario collettivo con la falsa idea della “crescita infinita”, idea, come si è visto, di per sé inaccettabile, poiché le risorse della Terra sono “finite”, e dopo aver spinto le popolazioni al consumismo e all’indebitamento, la finanza ha avuto un primo “colpo di genio”, come lo definisce Gallino : ha inventato la “creazione del danaro dal nulla”. Si sa che da tempo le banche, concedendo crediti, di fatto “creano danaro”. Questo fenomeno, se contenuto nei limiti temporali e quantitativi fondati sulla fiducia che i clienti hanno nella singola banca, può ritenersi fisiologico ed anzi utile ai fini del commercio. Senonché oggi se ne fa un uso abnorme, col creare danaro dal nulla in una quantità tale da mettere a rischio la stabilità economica della banca stessa e la fiducia dei creditori, ed esponendo la Collettività al correlativo rischio di enormi esborsi per il suo salvataggio. Ma vediamo più da vicino di cosa si tratta. Il Sig. Bianchi che riceve un mutuo da pagare a rate per lungo tempo, viene immediatamente in possesso di una rilevante somma di danaro versata sul suo conto corrente e può immediatamente metterla in circolazione acquistando il bene di cui ha bisogno. Intanto nessuna somma di danaro esce dalla banca, perché questa, per convenzione, contabilmente segna questa stessa somma come “credito” all’”attivo” e come “deposito a vista” al “passivo”. In sostanza, la banca non presta al suo cliente danaro “depositato” da altri clienti, non svolge un’attività di intermediazione, ma semplicemente “crea” una somma di danaro immediatamente spendibile. Come può ricavarsi anche da un semplice riscontro su internet , “questi danari rimangono nella cassa della banca non tassati, perché contabilmente non è stata registrata la creazione. Insomma, la banca registra contabilmente solo “l’uscita”, in quanto non ha mai registrato l’atto di creazione di questi soldi. Questa pratica è contraria ai regolamenti di contabilità internazionale IAS, non consente di limitare o controllare la quantità di moneta emessa dalle banche e infine non permette alcun trattamento fiscale della moneta creata, semplicemente perché secondo la contabilità bancaria questa moneta non esiste.
Altro “colpo di genio” è la “cartolarizzazione dei diritti dei credito”, il fatto cioè che la banca, sulla base di quanto dispone una legge evidentemente incostituzionale, la legge n. 130 del 30 aprile 1999, trasforma il suo diritto di credito nei confronti del cliente in un “titolo commerciabile”, che non segue le regole di cui agli articoli 2003, 2008 e 2021 del codice civile, le quali, come è noto, sono poste per evitare che il titolo circoli come moneta, con effetti dannosi per la Collettività, ma una regola completamente opposta, secondo la quale, con buona pace di quanto prescritto dal codice civile, il titolo creato dalla banca può agevolmente funzionare come moneta. E la cosa sorprendente è che gli speculatori finanziari acquistano questi “titoli commerciabili”, che in realtà sono “debiti”, e li fanno salire di valore, salvo a rivenderli non appena abbiano raggiunto la cifra da essi voluta. Ed è da notare che la “cartolarizzazione dei diritti di credito” non è la sola forma di titoli commerciabili inventati dalla finanza, ci sono la “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, i “project bond” e altre amenità del genere. Tutto ciò aggiunge al sistema una massa monetaria fuori controllo e gestita da soggetti privati ed internazionali, esattamente come lo è la moneta bancaria descritta al punto precedente. Una massa monetaria che, tuttavia, ha la capacità di comprare il nostro lavoro, le nostre case, le nostre aziende, i nostri territori.
La creazione dei “derivati”
Ulteriore “colpo di genio” della finanza è stata la creazione dei “derivati”, legittimati dalla legge n. 448 del 28 dicembre 2001, finanziaria 2002. I derivati derivano da una antica usanza ottocentesca secondo la quale l’agricoltore vendeva il suo raccolto a un mercante a un dato prezzo, assicurandosi in tal modo dall’eventualità di un cattivo raccolto. Se il raccolto andava bene guadagnava il mercante, se andava male guadagnava l’agricoltore. Il fatto importante, tuttavia, è che si trattava di fatti reali: dietro, per così dire, la scommessa, c’era, come sottostante, il raccolto. C’era insomma un aggancio con la realtà. La maggior parte dei nostri “derivati”, viceversa, non hanno sottostante, sono delle semplici “scommesse” che possono riguardare qualsiasi cosa: una gara di calcio, un evento atmosferico o qualsiasi altro evento, e la cosa grave è che queste “scommesse” sono fatte valere con fictio iuris come “danaro contante”, al punto che mediante i “derivati” è stato possibile pareggiare persino i bilanci delle banche e i bilanci degli enti pubblici. Questa, evidentemente, è pura pazzia. Rimettere al caso il pareggio di un bilancio è certamente un atto truffaldino. Eppure si tratta di una legge tuttora in vigore, che ancora non è stata portata al vaglio della Corte costituzionale e che continua a produrre danni. Né può sfuggire, comunque, che i “derivati” sono dannosi sotto un duplice profilo: per un verso consentono a soggetti privati ed organismi internazionali di creare danaro dal nulla, immettendo nel sistema economico liquidità alla quale non corrispondono beni reali, e per altro verso espongono la collettività a pagare le perdite per salvare dal fallimento enti pubblici e banche, contribuendo così anche alla inevitabile crescita del debito pubblico.
Il danaro creato dal nulla, e cioè “il danaro fittizio” è arrivato, secondo una statistica del 2010, a 1,2 quadrilioni di dollari, venti volte il PIL di tutti gli Stati del mondo . E questo la dice lunga, sia sulla quantità e qualità del “capitale” che agisce sul mercato, stabilendo il livello dei prezzi, il tasso del cambio delle valute e i tassi di interesse sul debito pubblico, sia sul pericolo cui tutti siamo esposti di fallimenti a catena specie in campo bancario. In sostanza i mercati non seguono più la legge della domanda e dell’offerta, parametrata sul rapporto tra quantità e qualità della merce e il suo prezzo, ma agiscono con accordi fraudolenti, che mirano a lucrare danaro (non importa se reale o fittizio) facendo innalzare o abbassare il prezzo di merci e titoli in modo del tutto arbitrario e senza nessuna corrispondenza con i dati della realtà.
La rovinosa creazione del danaro dal nulla da parte di soggetti privati ed organismi internazionali è, dunque, come si è accennato, il primo strumento del meccanismo messo in atto dalla finanza speculativa. Il secondo strumento è quello del ricorso alle “privatizzazioni” e alle “liberalizzazioni”. Coerentemente all’idea di mettere da parte il Popolo e cioè la Comunità politica o Stato che dir si voglia e di puntare sull’individuo, si è a lungo ingannata l’opinione pubblica facendo credere che “privato è bello”, che conviene “più mercato e meno Stato”, che la “libertà di mercato senza regole” è un fatto molto conveniente e così via dicendo. Il dato inequivocabile è che si è distrutta l’industria pubblica italiana, la quale, tra l’altro, assicurava che i “profitti” restassero nel Paese di origine, e che, a causa dell’aggancio dell’industria stessa con il territorio, si evitassero le “delocalizzazioni” e si tutelasse, quindi, l’occupazione.
La ventata di “privatizzazioni” alla quale si è prima fatto cenno, ha interessato l’intero mondo economico. Basti pensare che, a livello mondiale, tutte le Istituzioni finanziarie (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione internazionale del commercio, e così via dicendo) sono in mano di banche private o di singoli soggetti. C’è poi da sottolineare che l’Italia è stata “campione” delle “privatizzazioni”. Si è cominciato con la legge delega Amato-Ciampi del 30 luglio 1990, n. 218 e il conseguente decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, ad avviare e a favorire la privatizzazione di tutte le banche pubbliche, privatizzazione che si è poi attuata negli anni successivi. Con il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333 (art. 15), convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sono stati privatizzati tutti i gioielli di famiglia: l’INA, l’ENEL, l’ENI e l’IRI. Inoltre, con il citato decreto legislativo n. 85 del 2010 sono stati privatizzati, cioè resi alienabili: il demanio idrico, il demanio marittimo, il demanio minerario, il demanio culturale (cioè gli immobili artistici e storici appartenenti allo Stato o altri Enti pubblici). E lungo sarebbe l’elenco delle privatizzazioni che sono continuate a tutt’oggi, e che continueranno ancora nel prossimo futuro, come si rileva da dichiarazioni di fonte governativa. Tuttavia, non si può chiudere su questo punto senza ricordare il decreto legge del Governo Monti n. 1 del 24 gennaio 2012, convertito nella legge n. 27 del 24 marzo 2012, sulle liberalizzazioni, con il quale appare evidente che detto governo ha voluto far prevalere la libertà d’impresa e il principio della concorrenza contro le precise prescrizioni dell’art. 41 e 42 della Costituzione, che, giustamente, sanzionano la assoluta predominanza del principio dell’utilità sociale. Si tratta, dunque, di disposizioni legislative costituzionalmente illegittime, che, prima o poi, dovranno essere abrogate dalla Corte costituzionale.
Il punto di arrivo del sopra detto “meccanismo” è costituito dalle “svendite”. Basti pensare che non abbiamo più l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) al quale appartenevano: il settore delle autostrade, Alitalia, la Banca commerciale italiana, il Banco di Roma, il Credito italiano, Fincantieri, Finelettrica, Finmare, Finmeccanica, Finsider, Finsiel, Italstat, Rai, Sme (e tutte le industrie alimentari connesse) e Stet. In pratica intorno all’IRI erano rappresentati gli interessi fondamentali dello Stato italiano: il settore alimentare, il settore aerospaziale, il settore delle auto, quello delle costruzioni navali, della chimica, dell’editoria, della finanza, dell’informatica, della microelettronica, della metallurgia, delle telecomunicazioni e dei trasporti. Per “pareggiare i bilanci”, i nostri governi succedutisi dagli anni novanta in poi, e specialmente i governi Prodi (cui si deve la svendita del Credito Italiano, della Banca commerciale italiana, dell’IMI, della SME e delle varie industrie alimentari da questa possedute, delle vetrerie Siv, dell’Efim, del Nuovo Pignone dell’Eni, della Dalmine, degli Acciai speciali Terni, dell’Ilva laminati piani, di Italimpianti e di molte altre ancora), non hanno saputo far di meglio che “svendere” le nostre industrie pubbliche, le nostre banche pubbliche, i nostri servizi pubblici essenziali, le nostre coste, le nostre isole, i nostri immobili artistici e storici (settore nel quale si sono distinti i governi Berlusconi), i nostri più importanti beni culturali e paesaggistici . D’altro canto, numerose sono state le “delocalizzazioni” di imprese private (non abbiamo più l’industria automobilistica), nonché la svendita di “industrie private” e di “servizi pubblici essenziali” e persino dei nostri migliori alberghi. Soltanto a Roma sono stati svenduti il Grand Hotel ai Cinesi, l’Excelsior agli Arabi, l’Hotel Flora ai Francesi. Possiamo tristemente osservare che tutte le nostre “fonti di produzione”: industrie, terreni agricoli, servizi pubblici essenziali e di altro genere, reti autostradali, ferroviarie e di telecomunicazioni sono passati e stanno passando in mano straniera. Si tratta di vere e proprie pompe aspiranti della ricchezza nazionale, dimenticando che anche i Trattati europei parlano di “libera circolazione” delle “merci”, e non delle fonti di produzione delle merci stesse. Ed è da rimarcare al riguardo che sovente le nostre stesse imprese, d’accordo con le banche, anziché ricapitalizzarsi o fondersi con altre imprese, preferiscono fallire (non sono rari i casi di bancarotta fraudolenta, come quello della Ginori, per citarne almeno una), e investire, magari, in “prodotti finanziari” quanto resta del loro capitale. E il discorso, lo si creda, potrebbe continuare a lungo.
Paolo Maddalena
2 – continua