Contro la società e la legittimazione teologica del sacrificio

 

Per il papa emerito Benedetto XVI la teologia anselmiana del sacrificio richiesto per la “soddisfazione” del Padre è “incomprensibile oggi e in sè del tutto errata”

di Felice Scalia 

     Che viviamo in una “società sacrificale” lo sappiamo tutti anche se l’espressione non è comune.

Perché il Nuovo Mondo fosse proprietà dei “padri pellegrini” venuti dall’Europa bisognava sterminare gli indios e poi importare carne umana dall’Africa. Anche il buon Las Casas ne era convinto.

Perché l’Occidente viva nella prosperità, da secoli pagano i popoli deboli. Ed ora per la sicurezza della pingue Unione Europea si devono condannare alla fame, al macello, popolazioni in cerca di vita, dato che la loro terra è funestata dai nostri latrocini e dagli affari assicurati dalle nostre guerre. Il barone Von Hayek, diversi decenni fa, lo aveva detto: politica è decidere chi deve vivere e chi deve morire. Stessa mentalità presso i grandi banchieri del Globo: non dipende da noi se per un “salvato” bisogna preventivare anche 100 “sommersi”. Questa è la vita: “mors tua vita mea”! Da modificare però in “mors vestra vita mea”: lacrime e sangue ai “piccoli” per salvare le banche ed i “grandi”.

Certo impressiona che la vecchia logica che ha accompagnato l’uomo fin dal suo apparire (la vita umana può essere assicurata solo dalla morte di altre creature, compresi altri uomini estranei al clan) e che ha fatto meritare all’uomo preistorico la qualifica di “homo necans”, sia ancora così viva nonostante il cammino millenario di vere o presunte grandi civiltà. Ma impressiona ancora di più che del fantasma e della tragica realtà del sacrificio e del sangue espiatorio di innocenti, sia pervaso anche il cristianesimo. Quel cristianesimo che tuttavia presume di rifarsi in tutto a Gesù di Nazaret, a quel “Figlio dell’uomo” e Figlio di Dio che rifiutò decisamente la stessa idea di sacrificio e ne abolì l’industria nel Tempio, affermando che il Padre vuole “misericordia e non sacrifici”[1].

Tra il popolo è comune l’idea che qualche tremendo male, le conseguenze terribili di qualche incidente stradale, siano mandati da Dio per fare “scontare” peccati commessi in gioventù. Ed oggi nella chiesa cattolica se dalla liturgia (messale, sacramentari, liturgia delle ore …) si toglie la mentalità sacrificale e la parola “sacrificio”, difficile prevedere che resta. Turba il fatto che per ricordare ogni giorno, quasi in modo ossessivo, a preti e popolo, che il dolore va accolto come grazia divina, “in penitenza dei propro ed altrui peccati”, è stato consentito di aggiungere nella messa, al momento della consacrazione, parole che Gesù non ha mai pronunziato, come “offerto in sacrificio per voi”. Non solo, ma ogni voce dissonante, ogni presa di distanza da quelle concezioni che rischiavano di ridurre la celebrazione della “Frazione del pane”, a rito sacrale per svuotare il purgatorio, ogni allarme lanciato per diffidare di quella mentalità che faceva di Dio un personaggio crudele ed incredibile, certo sideralmente  lontano dal Padre di cui ha parlato Gesù, cose come queste sono state al minimo bollate come sospette, pericolose, se non addirittura eretiche.

Come si arriva ad una maschera di  Dio

Come a partire dalla “gioia del vangelo” si sia arrivati a concepire la vita sulla terra come tempo di espiazione e di sacrifici; come si sia quasi giunti a dare a Dio il volto terribile della dea Kalì (dea sopra gli déi, manifestazione del volto autentico del cosmo), o quello tremendo delle divinità mesopotamiche, è oggetto di seria ricerca anche nella storia delle religioni. Bisogna partire dall’equivoco sul sacrificio di Isacco chiesto da un indistinto “Eloim” ad Abramo?[2] Non è facile sapere se l’acquiescenza popolare alla spiegazione comune del tentato sacrificio di Isacco, sia dovuta alla convinzione ovvia, arcaica, che la vita esige la morte dell’altro, anche se innocente, oppure alla credenza che Dio è padrone di ogni vita, che lui è al di sopra di ogni morale, che per mettere alla prova Abramo[3] e “vedere” fino a che punto gli era fedele, poteva tranquillamente mettere in conto il terrore mortale di un ragazzo, lo strazio di una madre, l’affidabilità di un padre, la morte di un innocente trattato come un animale da olocausto.

Ma c’è una terza possibile ipotesi per spiegare e, in qualche modo, giustificare la pratica sacrificale nel cristianesimo. Essa è dovuta prima a San Paolo, e poi, verso il 1050, ad Anselmo d’Aosta col suo celebre dialogo “Cur Deus homo”.

Paolo è un ebreo-fariseo, e di fronte alla morte in croce di Gesù non sa davvero che pensare. Può il Messia atteso da secoli, promesso dal Padre, morire da “maledetto”?[4] Da uomo fallito, sconfessato dallo stesso Dio nel cui nome parlava ed il cui volto diceva di avere rivelato? Pietro che rimprovera Gesù per quel suo parlare di arresti, pene inaudite,  falgellazioni e crocifissioni, alcuni anni prima, era stato avvinghiato da questo stesso sconcerto: cose come queste che dici, Maestro, non si pensano e tanto meno si dicono, perché sono assurde.[5]

Tra gli anni 45 e 55 Paolo affronta lo “scandalo della croce” in una teologia speculativa molto lontana dalle narrazioni evangeliche che trasmettono parole e gesti di un modesto carpentiere galileo, portatore di un progetto di vita umana sotto lo sguardo benevolo di un Padre che vuole la felicità degli uomini.  Paolo del resto non ha conosciuto affatto il “Gesù secondo la carne”, cioè in carne ed ossa. Ha conosciuto il Figlio di Dio, Messia e Signore nostro[6] che è Cristo, il Risorto che “siede alla destra del Padre” in cielo. Senza dubbio, anche per Paolo il Risorto è colui che prima è stato crocifisso; solo che mentre per i vangeli la morte di Gesù fu un assassinio voluto dall’autorita religiosa e politica, dagli uomini comunque, per Paolo fu un sacrificio voluto dal Padre. Gesù di Nazareth – afferma – è il Salvatore, colui che libera l’uomo dal peccato, e non  c‘è altra strada per questo che il sacrificio di sé, perché i peccati si espiano con il sangue. Il Cristo dunque deve sopportare l’ira di Dio scatenata su tutti i peccatori[7], fare ricadere su di sé il giudizio giusto e trememdo di Dio. Proprio con la morte di Gesù, Dio condannò “il peccato nella carne[8] e Gesù di Nazareth divenne “maledizione[9] e “peccato[10] per noi. In compenso “col suo sangue, con la sua morte, Dio si è “acquistata la chiesa”[11]. Dio “col sangue di Cristo ha rappacificato gli esseri della terra e quelli del cielo.”[12]

   La “Lettera agli Ebrei” è terrificante: “senza effusione di sangue non vi è remissione[13]. Non meno terrificante questo Dio che ha avuto bisogno di tanto sangue e di tanta abiezione per rendere giusto l’uomo e perdonargli i peccati. Il film “The Passion of the Christ” di Mel Gibson del 2004 non so se abbia allontanato o avvicinato a questo tipo di Dio sanguinario per misericordia.

La maschera scambiata per mistero

Non ci meraviglia più che tanto se i fedeli cristiani hanno con facilità accettato  le prospettive sopra delineate come dogma di fede della nostra salvezza. Tanto più che il sacrificio di Gesù in croce viene trasformato in un sublime esempio di amore per noi, chiamati ad amarci ed a servirci, gli uni gli altri, nell’amore, fino all’estremo, “come lui ci ha amati”. La verità è che abbiamo dietro le spalle due millenni di predicazione basata sulla teologia paolina, e da quasi un millennio pesa anche la “versione” che di tale modo di vedere le cose ha fatto Anselmo d’Aosta, acuto, stringente, logico, brillante filosofo-teologo medievale. È sua la teoria “satisfactoria” o della “satisfactio vicaria”.

Semplificata al massimo, questa teoria consiste nella logica conseguenza di alcuni assunti.

Dio è giusto – dice il Dottore della chiesa – e per Lui bene e male, obbedienza ed infedeltà alla sua legge non sono la stessa cosa. Certamente Dio è disposto a perdonare i peccati dell’uomo, ma per farlo ha bisogno che anche la sua giustizia sia soddisfatta. Ciò vuol dire che il peccatore deve “scontare” la sua colpa, appunto “pagandone” la pena.

Si aggiunge qui il secondo assunto: la colpa dell’uomo è inespiabile dall’uomo, dato che la gravità della colpa si misura non da chi offende ma dalla dignità dell’offeso. Peccando, l’uomo offende un Dio infinito, mentre pur volendo riparare per il peccato commesso, sa che qualunque cosa faccia o dia a Dio, è sconsolatamente “finita”. La conseguenza è che Dio non ha scelta: se vuole salvare l’uomo e perdonare il peccato, l’espiazione deve venire da “uno” in comunione con l’uomo-finito ed anche in connaturalità col Dio-infinito, cioè da un uomo-Dio capace di offrire alla giustizia divina una realtà finita ma dalla valenza infinita.

Putroppo non si tratta di gioco di parole. E se da un verso ne viene fuori un Dio che ci tiene immensamene all’uomo, dall’altro, questo Dio è tanto lontano dai racconti evangelici che non si può non rimanere perplessi. Un Dio che vuole la sofferenza, che la rende salvifica, non ha molto da spartire con un Padre che ha in orrore la sofferenza dei suoi figli e che, per vincerla, “lavora sempre”, anche di sabato, ed opera miracoli per togliere il dolore dal mondo, per annunciare che vuole una umanità unita nella gioia e nel reciproco aiuto, proprio per uscire dalla sofferenza.[14] Questo ha insegnato Gesù. Questo ha fatto in  tutta la sua vita.

La “Lettera di Giacomo” – non a caso spesso divergente rispetto a Paolo –  rompe ogni indugio: “Questa è la religione[15] pura e senza macchia agli occhi di Dio Padre: visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, custodire se stessi immuni dal contagio del mondo”. Che vuol dire: Il culto divino gradito a Dio, ciò che veramente vi salva come umani e figli del Padre-Misericordia, è che voi diventiate come Lui, usando misericordia tra voi, vivendo della stessa bontà generosa del Figlio suo. E se facendo questo sarete scomunicati dai cultori di una religione cultuale che cerca di placare l’ira di Dio o di ottenerne i favori offrendo in sacrificio sofferenza e morte, se questo succede, siate beati perché così, prima di voi, hanno trattato Gesù di Nazareth, assassinato in croce “fuori le mura”.

Le cose non diventano più plausibili se si afferma che il debito dell’uomo peccatore era col diavolo. Allontanatasi da Dio, l’umanità in solido è divenuta possesso del diavolo di cui è schiava per sempre. Se qualcuno vuole strappare l’uomo a questo indebito tiranno, bisogna che paghi il dovuto riscatto. In pratica ci vuole sempre il sangue dell’uomo-Dio.

Qualche teologo, di fronte a questo prevalere della teologia paolina (anche rivisitata  da Sant’Anselmo) sulla teologia dei vangeli, ha parlato di teologia “disarticolata e sgangherata”, aggiugendo che questo porta ad una chiesa “ugualmente disarticolata e sgangherata”, sempre oscillante tra l’annuncio di una salvezza nella sofferenza (perfino nel lavacro di sangue della guerra invocato da De Maistre per purificare il mondo) e l’annuncio di una salvezza nella pace, nella gioia, in una vita vissuta per divenire creature di amore misericordioso verso tutto e tutti.

Dogma superato o teologia illusoria?

Legittimamente ci si può chiedere se la centralità del sacrificio nella dottrina cattolica, sicuramente nella liturgia, sia un dogma di fede, o non piuttosto una teoria piuttosto ambigua prodotta da qualche soteriologia  sbrigativa e miope, vissuta però dal popolo di Dio acriticamente, come parte essenziale della sua fede.

In realtà si tratta di rispettabili dati biblici paolini, comunque pesantemente marcati dalla mentalità sacrificale della religiosità ebraica (infiltratasi nel cristianesimo per mezzo della pseudopaolina “Lettera agli ebrei”) e di una teoria teologica millenaria, ritenuta dunque quasi indiscutibile. Nella storia della chiesa non è questo il primo caso di “assolutizzazione” di qualcosa di contingente sacralizzato dal passare del tempo, quasi sia verità ciò che per secoli si trasmette al popolo come tale.[16]

In realtà sulla “satisfactio vicaria” si discute da sempre, anche oggi, ma quello che meraviglia è la posizione del papa emerito Benedetto XVI, esternata recentemente in una intervista rilasciata a Jacques Servais S.J., e che l’Osservatore Romano del 13 marzo scorso ha fatto conoscere al grande pubblico.

Nel corso della conversazione l’intervistatore pone il problema senza mezzi termini:

   “Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno. Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare su Dio un’immagine di un Dio di collera, afferrato, dinanzi al peccato dell’uomo, da sentimenti di violenza e di aggressività paragonabili a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?”

Ed ecco la sorprendente risposta del papa emerito:

  “La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. È nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi.

   Per parte mia formulo tre punti di vista su questo punto:

  1. a) La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinsecouna sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio”.
  2. b) Ma allora perché mai la croce e l’espiazione? Per rispondere il papa emerito afferma che l’incredibile sporca quantità di male e di crudeltà che rovina il mondo poteva trovare un antidoto solo nell’amore immenso del Cristo e di quanti si associano a questo sofferente amore divino.
  3. c) Per confermare quanto detto Ratzinger riporta un passo di De Lubac su Origene. Preso da una sconfinata passione di amore per l’uomo infelice, il Redentore ha subito, ha preso su di sé la nostra sofferenza, ha sofferto con noi e per noi.

Ed il papa emerito conclude: “Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che, in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore”.

 Un lungo cammino da fare

Lasciamo al lettore ed a quanti sono affascinti dal modo sottile di argomentare del papa emerito, queste righe dense di cultura teologica, spiritualità e sofferenza di fronte al male nel nostro mondo. A noi interessa fare notare che uno dei pilastri della teologia corrente, quella sensibilità aprioristica che faceva saltare dalla sedia chi sentiva solo avanzare qualche dubbio sulla sensatezza della satisfactio vicaria anselmiana, tutto questo oggi è messo in discussione. Ma se negli studi teologici, nel chiuso delle cattedre, un suo superamento è stato intrapreso, dobbiamo renderci conto che molto resta da fare perché l’uomo della strada, il cristiano comune, respiri la nuova prospettiva.

Abbiamo assoluto bisogno di una soteriologia nuova, di una teologia meno mitica e più concreta sul concetto di salvezza (e, precedentemente, sul “peccato”) perché l’uomo esca dalla mentalità di essere nato per soffrire, espiare e salvarsi in paradiso, dimenticando che il Regno di Dio annunziato da Gesù è regno di amore, giustizia e pace, fin da ora e per sempre. Il credente deve uscire da una mistica del dolore per entrare in quella della gioia. Il “devoto” delle nostre novene deve poter percepire che accanto alla “riparazione” per gli sputi, i flagelli del Cristo storico, oggi abbiamo il compito di tenere compagnia al Cristo dolorante nei barconi carichi della disperazione degli immigrati, nei “richiedenti-asilo” stipati in campi di fortuna o di fronte a muri invalicabili e fili spinati, negli innumerevoli giovani divenuti “scarto” senza futuro alcuno, derubati di ogni diritto.

Stare accanto all’”homo patiens”, smetterla di essere “homo necans”, diventare come il Padre ricco di compassione e tenerezza, considerare blasfemo pensare che non si possa vivere se non sulla morte degli altri, aprirsi al progetto di Dio che vuole la gioia dei suoi figli, è quello che ci viene richiesto dalla storia della salvezza oggi. E la via per tutto ciò passa da una lenta educazione al nuovo che una revisione radicale della liturgia potrebbe fare.

Benedetto XVI non ha paura di affermare che “in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma.” Ciò che il dogma ci voleva trasmettere rimane attualissimo e fecondo, il modo come lo tramandava era relativo e discutibile. Non possiamo fare a meno di constatare che il  Gesù di Nazaret dei vangeli ed il Cristo di Paolo sono una unica ed identica persona. Ora lui “era ed è per tutti” – osserva il papa emerito. E continua: “i cristiani, suo corpo in questo mondo, partecipano di tale ‘essere per’. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo.”

 Concludendo

Probabilmente l’avere accennato – si può dire – ad una delle tante questioni aperte della teologia cattolica, in qualche lettore avrà suscitato un senso di estraneità. Che c’entra questo con i nostri problemi reali, con la fame ed i bombardamenti sugli innocenti, con l’attentato alla Costituzione, con la corruzione che dilaga, con questa classe politica tanto mediocre quanto avida e spregiudicata?

Ma per rendersi conto di quanto le questioni teologiche più astratte abbiano una ricaduta notevole nella vita di tutti, basti pensare al modo i cui è stata retta l’Europa per due millenni. Se ci santifica, se ci “rende giusti” il dolore, se un po’ di felicità è concessa agli umani solo dopo la morte, se insegnarci a sopportare le disgrazie della vita è stato l’unico insegnamento morale di Gesù di Nazareth, se il debole è nato per subire ed il forte per comandare ed anche – se necessario – opprimere, allora pazienza, ubbidienza, attesa della morte, disponibilità a morire per le guerre dei forti, sono l’unica realtà concreta. Uomo vero è il sofferente, tanto più uomo quanto più dolente e vessato dall’ingiustizia. Sarebbe disumano chi crede nella gioia della vita, nella sua libertà e dignità, nella giustizia. Anzi costui dovrebbe vestire i panni del corruttore e sovversivo. In questo orizzonte, parafrasando Proust, tutti siamo costretti, per rendere sopportabile la realtà, a tenere viva una qualche piccola o grande illusione, sia un sogno folle o una religione consolatoria. Solo che non conosciamo affatto un Gesù/valium. Lui ci vuole “consacrati nella verità”.[17]

Detto in altri termini, il cristianesimo nato in Galilea come uscita da un Dio minaccioso, crudele, amico dei potenti, adirato con gli umili da sempre inadempienti e disperati, quello stesso cristianesimo diviene appoggio ai potenti che a loro volta si mostrano segno e plenipotenziari del Dio onnipotente (“pantocrator” – come dice il simbolo Niceno che così attribuisce a Dio un titolo puramente pagano), saggio legislatore e giudice inflessibile di tutti gli erranti, sensibile all’ordine imposto, impassibile di fronte al dolore ed alle sventure umane.

Una visione simile non è tramontata. Se ieri “principati e potestà” erano gli imperatori, i capi delle nazioni, oggi “potenti” sono altri: i banchieri, i G8, i magnati del Fondo Monetario Internazionale, i signori della guerra, gli speculatori della finanza, i dittatorelli di cui il potere economico si serve per dominare il mondo, i boss dell’industria della mafia, del riciclaggio di denaro sporco, della malavita transnazionale. Questa gente vuole e finanzia una religione della sopportazione e del sacrificio. A questa gente la religione in genere, anche quella cristiana, deve solo offrire il supporto di coscienze popolari abituate a sopportare ed a contentarsi di vivere da miserabili, senza dignità alcuna. Come carne umana venduta al migliore offerente. Guardando al fenomeno-cristianesimo del loro tempo, né Nietzsche aveva torto a definirlo “religione dei deboli”, né Marx a parlare di “oppio del popolo”.

Se non recuperiamo la centralità di un Dio che “vuole amore e non sacrifici”, che ha a cuore la nostra gioia, la dignità di ogni vita, la libertà dei suoi figli, se non riusciamo a comprendere che siamo stati creati per la felicità e la relazione benevola fin da ora, e che vivere e far vivere è il sogno di Dio e l’unica nostra prospettiva di futuro, ogni riforma della chiesa sarà impossibile, ogni nuovo ordine mondiale servirà a rafforzare i potenti[18], e la parola speranza servirà solo a procrastinare i tempi della più amara delle delusioni: nessun dio ci salva perché il nostro destino di povera gente in balia della violenza più cinica è solo la morte nel nulla.

Felice Scalia

[1] Mt. 9,13

[2] Si è fatto notare che, stando al testo ebraico, a chiedere il sacrificio è un “Eloim”, una “divinità” indistinta; a bloccare la mano di Abramo è Yhwh, il Dio che si rivelerà secoli dopo a Mosè col suo nome. Problemi legati alla redazione scritta del testo? Indicazione che il Dio di Israele non aveva chiesto nessun sacrificio, ma si era rivelato al contrario come   chi ha in esecrazione sacrifici umani? Sulla complessa questione cfr Karl-Joseph Kuschel, “La controversia di Abramo”, Queriniana, Brescia, 1996; Silvia Geraci, “L’ultimo degli ebrei”, Mimesis, Milano, 2010.

[3] Cfr. Gn 22

[4] Deut. 21,22; Gal 3,13

[5] Mt. 16,21-23

[6] Rm. 1,4

[7] Rm. 3, 19-20. 25

[8] Rm. 8, 3

[9] Gal. 3,13

[10] 2Cor. 5,21

[11] At. 20,28

[12] Col. 1,20

[13] Eb. 9,22

[14] Cfr José Maria Castillo, “Il Dio di Gesù” in “La laicità del Vangelo”, La Meridiana, Molfetta ,2016, pp. 87-91

[15] In greco “treskeia”, culto religioso

[16] Gesù non crede a questo “tempo che giustifica”, che rende vere le cose. Lui contesta certo non la religione ebraica (era un pio, praticante e fervente ebreo), ma il modo come per moltissimi secoli era stata vissuta. Parla di vino nuovo che manda in malora gli otri vecchi.

[17] Gv. 17,19

[18] Cfr Rapporto Oxfam, reso noto il 18.01.2016: “Una economia a servizio dell’1%”  

 

 

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  • Marzo 26, 2017at8:01 PM

    Carissimo Padre Felice,
    vedo solo ora il tuo articolo pubblicato su questo sito. Non so se è stato pubblicato altrove.
    (Tra parentesi ricordo Il 13 marzo della pubblicazione dell’intervista al Papa emerito è dell’anno scorso, 2016).
    Credo sia necessario distinguere tra l’espiazione biblica, che è un atto divino di offerta di perdono (un atto discendente della sua misericordia) e la soddisfazione di cui parla la teologia anselmiana che è un atto ascendente (l’uomo soddisfa).
    Nello Yom kippur ancora oggi gli ebrei invocano l’espiazione divina cioè la sua misericordia. Anche il Catechismo della CEI “La verità vi farà liberi” (1995) scriveva che l’espiazione è “da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo. L’amore di Dio ha fatto di Cristo lo strumento di espiazione (cfr Rom 3,25; 1 Gv 4,10) cioè di purificazione dei nostri peccati, di riconciliazione dei peccatori e di restaurazione dell’alleanza” (“La verità vi farà liberi”, n. 256).
    Per fedeltà biblica non dovremmo mettere in continuità i due concetti di espiazione e di soddisfazione. Anselmo aveva studiato Diritto a Padova e ragionava da giurista e non solo da teologo. per ora mi fermo qui. Non so se questo messaggio ti arriva.

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