DAL ‘68 ALLA NONVIOLENZA
DAL ’68 ALLA NONVIOLENZA
Dal Concilio alla società, dalla società al Concilio. L’esperienza di una generazione cristiana, la mia esperienza. Ma che cosa è, veramente, il Vangelo?
Enrico Peyretti
1 – Sappiamo che la memoria elabora e trasforma i ricordi. Il presente assimila a sé il passato, come il corpo assimila il cibo. Il passato è qui, in noi, come siamo ora, fatti di quello e di questo. La prospettiva va da oggi verso ieri, ma non siamo più là, vediamo con gli occhi di oggi.
2 – La contestazione, per noi, andò dal Concilio alla società e dalla società al Concilio e ai suoi sviluppi. Ma era venuta anche da tutta la fase di incubazione delle novità del Concilio, nella nuova teologia fino allora emarginata, e nelle esperienze dei cristiani. Fu chiamato prudentemente “aggiornamento” quello che fu una vera riforma evangelica della Chiesa, anche se soltanto avviata. Vedo, per i cristiani, una circolarità: contestazione-Concilio-contestazione. Coglievamo lo spirito del tempo (i “segni dei tempi”) scoprendo la storicità di tutto, non più il fissismo delle forme e dei contenuti, sia nella Chiesa, sia nella società. Imparavamo ad essere nella condizione (il kairòs, il momento dato da decidere e da vivere). Era ancora guerra fredda, ma distensione dopo la crisi di Cuba 1962: papa Giovanni, Kennedy, Kruscev erano raffigurati insieme nei piatti di ceramica. Troppo ottimismo? Anche nella Gaudium et Spes conciliare? L’ottimista ottimizza, il pessimista pessimizza. Non era stupido né ingenuo: era volitivo, vedeva motivi di speranza attiva.
Contestazione, contestare, è linguaggio giudiziario: comunicare a qualcuno l’accusa di colpa o di reato: al minimo criticare, al massimo condannare. Era un processo allo stato di cose, al “sistema”.
Il dato comune al movimento nella Chiesa e nella società fu la “presa di parola” dei silenziati e sottomessi. La parola, se è sincera, è coscienza, è l’inizio dell’azione. Un vescovo africano in Concilio disse a mons. Costa, assistente della Fuci, amico personale di Montini: «Dica al papa che siamo noi vescovi la chiesa del silenzio». Figuriamoci i laici. (Chiesa del silenzio erano dette le chiese nei Paesi comunisti). Dal Concilio Vaticano I (1870) il papa era tutto, i vescovi niente. Figuriamoci i laici.
3 – Erano anche tempi attesi. Il Sessantotto fu imprevisto, ma era anche latente nel terreno. Come il passato è presente in noi, così anche l’atteso: siamo protesi all’ “ad-venire” (avvenire è termine che preferisco a “futuro”, semplice voce del verbo essere, di ciò che è ora). Penso alla Fuci prima del Concilio: nell’ Azione Cattolica di Gedda e di Pio XII era una specie di pecora nera. Qualche aneddoto curioso. Quando scoppiò il caso Mario Rossi, 1953-4, don Gosso (assistente della Fuci di Torino) usò l’espressione “tumefazione vaticana” nella Chiesa. C’era un’aria liberante, nella Fuci, un sano ironico anticlericalismo: una canzone fucina diceva «il Vaticano brucerà con dentro i preti…». Si voleva bene ai preti, non al clericalismo. Sul distintivo, in polemica con l’intransigentismo cattolico del primo 900 , era scritto “Fede Scienza Patria”, e noi leggevamo “Facciamo Senza Preti”. Erano licenze poetiche, non ribellioni. Ma era scherzare coi santi, non solo coi fanti. Solo nella Fuci ragazzi e ragazze formavano un’unica associazione. Quando noi dirigenti andammo in udienza da Pio XII, nel febbraio 58, la notizia sull’Osservatore Romano provvide a separarci. Quando uno dei nostri assistenti fu nominato monsignore, cioè “cameriere segreto di Sua Santità”, Ricerca, il mensile della Fuci, pubblicò la notizia, dicendo che, caduto il segreto, restava il cameriere. Arrivò il rimbrotto vaticano: «Non si scherza su queste cose!». La Radio vaticana mi chiamò a registrare un messaggio per un congresso della Fuci (o Torino 1959, o Bari 1961), poi mi chiamò di nuovo per rifare la registrazione sostituendo la parola “compagni” (di studi) con la parola “colleghi”, perché “compagni” non piaceva a qualche cardinale. (Forse oggi i giovani non sanno che si chiamavano tra loro “compagni” i comunisti).
4 – Nel 68 studentesco i cattolici erano come tutti gli altri, forse più di altri si sentivano in mezzo tra il senso di liberazione e la vigilanza sull’ambiguità: nei cortei, a braccetto dei miei alunni (come si usava per fare testuggine), contestavo gli slogan violenti. La violenza verbale sembrava innocente, ma era il seme della degenerazione.
Nella Chiesa non si disconosceva l’autorità ecclesiastica, ma si contestava l’autoritarismo. E si prendeva l’iniziativa, per esempio, di consigliare a Pellegrino di ritirare la lettera, ancora non pubblicata, che in sostanza condannava il movimento degli studenti (Marta Margotti ha i documenti). Con una lettera a Il Nostro Tempo, chiesi che Paolo VI (che aveva detto a Cagliari «La Chiesa non è ricca») pubblicasse i bilanci. In una udienza agli ex-alunni del Collegio Lombardo, nel 1970, riuscii a consegnargli in mano una lettera nella quale interpretavo il fenomeno del dissenso, compreso il Vandalino. Mi disse: “Sia buono”, e per qualche tempo a Torino mi portai il soprannome “Sia buono”.
5 – Un problema era questo: il vangelo è contestazione (denuncia, condanna) del mondo malvagio, oppure è salvezza-trasformazione? È arroccamento severo (ci diceva il cardinal Siri: «La Chiesa è roccia contro cui si infrange la tempesta del mondo»), oppure è fermento immerso nella carne del mondo? Vangelo è trascendenza o incarnazione? Spiritualismo o terrestrismo? (leggevamo Thils, Teologia delle realtà terrestri, Alfaro Teologia del progresso, Mazzolari parlava di “rivoluzione cristiana”). Oggi gli oppositori a Francesco insistono su spiritualismo, estetica liturgica, tradizione come continuismo sacro.
Il Vangelo è seme/fermento immerso nel mondo, ma come? Col comandare-guidare (Gedda, Generale Franco, legislazione statale cristiana), oppure col servire (penso ai preti operai, alla testimonianza laicale nella società di tutti).
Per noi più vecchi (avevo 30 anni nel ’65) era un bel passaggio: dall’educazione catechistica, la purezza (ovviamente sessuale) come massima virtù, la messa domenicale come obbligo e grave dovere, la paura del peccato, … da tutto ciò arrivavamo alla lettura diretta della Scrittura, alla spiritualità interiore, alla critica evangelica del mondo e della Chiesa stessa: critica per amore (“Ribelli per amore”, come il partigiano Teresio Olivelli); appartenenza alla Chiesa reale e utopia evangelica; dentro e sulla soglia; realtà e profezia. Fu la tensione feconda della nostra generazione.
6 – Dico qualcosa sulle scelte personali. Avevo sempre votato la sinistra DC, ora, dopo il 68, prima l’MPL (1972) di Labor e Migone, poi sempre PCI.
Si fecero scelte che ci divisero: alcuni conservavano la fede e ritenevano di approfondirla, altri la abbandonavano. Alcuni stavano nella Chiesa, altri non più, o si sentivano “cristiani senza chiesa” (come diceva Silone di sé, nel 1968); oppure formavano gruppi di chiesa fraterna, non sacerdotale, con una fede essenziale (è un cammino ancora in corso).
Le difficoltà nella Chiesa toccavano specialmente chi era prete. Io sono stato prete dal 1964 al 1974, negli anni più caldi. Si discuteva tra preti, ci si riuniva in gruppi affini, per scambi e dibattiti. Operammo una riduzione all’essenziale, più forte delle diverse forme. Vedo scelte e sbocchi differenti, tra i preti (a parte i conservatori spaventati e severi, choccati): alcuni restavano nel ministero rinnovato in spirito evangelico (i preti operai; uno per tutti Carlevaris; ho conosciuto di più Carlo Demichelis, prete popolare, non clericale, lo ricorderemo il prossimo 12 gennaio, a dieci anni dalla morte). Altri lasciarono sia la Chiesa sia la fede (di questi ne conosco pochissimi). Altri sono i preti sposati, con la nostalgia del sacerdozio, sono un clero coniugato e sospeso, e avrebbero ripreso servizio se ne avessero avuta la possibilità. Altri ancora sono tornati laici nel popolo cristiano: hanno contestato la clericalizzazione sacra, la sacralità dei ministeri ecclesiali, col Concilio che aveva riscoperto nel vangelo il sacerdozio universale di tutti i discepoli, pur con carismi vari. Io mi sono riconosciuto in questa posizione.
L’abbandono del ministero fu “lacerante”? No, devo dire per me. Fu solo faticoso, impegnativo, bisognoso di riflessione e di maestri. Ebbi il dispiacere di far dispiacere a Pellegrino e a papa Montini. Non ho sentito a Torino né giudizi, né condanne.
7 – Come cristiani, in quel tempo parlavamo di Cristo “liberatore”; facevamo attenzione alla Teologia della Liberazione; ripensavamo le espressioni della fede (tentativi di nuove formulazioni del Credo sono in corso anche oggi sul quindicinale di Assisi, Rocca).
In sintesi, credo di dover esprimere sul 68 un giudizio positivo: fu un fatto di liberazione; ma è un giudizio non semplificatore. Il 68 degenerò anche nell’etica non più sociale, ma individualistica, e nella violenza del terrorismo. Ma non si può ridurre a questi esiti tutto il significato di quell’evento. Cause di quelle cadute furono: una debolezza morale del movimento; le teorie rivoluzionarie non ancora istruite dalla cultura nonviolenta; la mancanza di ascolto e interpretazione da parte del mondo autorevole, offeso più che attento.
La Chiesa faticò davanti al 68 (come già detto, aiutammo Pellegrino ad evitare di sconfessarlo): liberava l’immaginazione; conteneva la rivoluzione sessuale; scuoteva le gerarchie. Fu più facile per la Chiesa sostenere le lotte operaie. Pellegrino su questo piano ebbe collaboratori migliori. Vorrei ritrovare la foto dell’arcivescovo alla “tenda rossa”, in piazza Carlo Felice (nel 1973?).
Sentii, sentimmo intransigenza sul terrorismo: il “non uccidere” valeva del tutto. Non poteva nascere giustizia dalla violenza. Facemmo crescente attenzione alla forza nonviolenta, leggevamo Martin Luther King e Gandhi, più tardi Capitini, e autori e protagonisti di altri paesi. Ci ponevamo il problema della violenza: Che Guevara ucciso nell’ottobre 1967, Martin Luther King il 4 aprile 1968, riflettevamo sulla scelta di Camilo Torres. Paolo VI nella Populorum Progressio ipotizzava casi estremi di violenza necessaria per la giustizia. Silvano Girotto, detto “Frate Mitra”, venne anche a casa mia: una sua lunga intervista uscì su il foglio.
Nel ’73 (golpe in Cile) la scelta era già chiara. Eravamo contrari a “armi al Cile”. Più che una condanna, la nostra era una maturazione. “Credere, disobbedire, combattere” era il titolo di prima pagina su il foglio n. 25, settembre 1973. Scrivevamo che «la violenza infetta più del colera… e riproduce l’oppressione». Così su Resistenza italiana, armata e non armata: ricordo una discussione leale con Gianni Alasia, capo partigiano, poi di recente con De Luna storico (Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta, De Luna, Bravo, e altri, in
8 – Per me, queste furono le maggiori lezioni di quella lunga stagione: mi sono messo alla scuola della nonviolenza attiva (storia, cultura, politica). L’impegno evangelico ha colto anche la dimensione dell’universalismo, della pluralità delle vie (il pensiero di Raimon Panikkar, Pier Cesare Bori, Gandhi stesso).
Aldo Moro (raccontava Guido Bodrato), da Piazza del Gesù (sede della DC) vedeva sfilare un corteo di studenti, nel 68, e chiedeva : «Da adulti saranno coerenti?». Lo siamo? Vorrei essere: radicale, non estremista. Noi vecchi siamo nati pompieri (autorità, moderazione, ubbidienza), siamo invecchiati “incendiari”? Di un fuoco non distruttivo, ma passione ideale esigente, secondo quelle parole: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Luca 12,49). Ognuno badi a se stesso, facendo l’esame di coscienza sul cammino che ci è richiesto.
Enrico Peyretti