La morte di mons. Bettazzi

DAL CONCILIO A SARAJEVO UN VESCOVO IN USCITA

Prima Vescovo ausiliare di Bologna, poi Vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, Luigi Bettazzi ha dato la sua vita per una Chiesa protesa al servizio della pace e dei poveri. Si offrì in ostaggio per salvare Moro. Così è stato ricordato da molti che da vicino o da lontano si sono incontrati con lui

In ricordo di mons. Luigi Bettazzi pubblichiamo una testimonianza di “Noi siamo Chiesa”:

È con affetto, commozione e gratitudine che Noi siamo Chiesa saluta Luigi Bettazzi nel suo passaggio alla vita piena in Dio. Negli ultimi 60 anni il vescovo Bettazzi è stato protagonista di primissimo piano della vicenda sociale ed ecclesiale del nostro Paese e punto di riferimento episcopale del cattolicesimo progressista italiano. Costante interprete dello spirito del Concilio Vaticano II  espresso nel “Patto delle Catacombe” di fronte alle sfide del nostro tempo, egli è stato instancabile promotore della trasformazione della società in termini di giustizia e nonviolenza e del rinnovamento della Chiesa nel segno del riconoscimento della dignità degli esclusi di ogni tipo.
A fianco degli operai del territorio eporediese che difendevano il posto di lavoro, in mezzo ai pacifisti che lottavano contro l’installazione dei missili in Sicilia o per rompere l’assedio di Sarajevo, mescolato ai poveri del Sud del mondo che si impegnavano per la propria liberazione, don Luigi si è sempre schierato dalla parte degli ultimi, intavolando su questa base anche un memorabile carteggio con l’allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, su marxismo, ateismo, materialismo e laicità dello Stato, e poco tempo dopo offrendosi, insieme ai confratelli Alberto Ablondi e Clemente Riva, come ostaggio alle Brigate Rosse in cambio del rilascio di Aldo Moro, gesto da cui fu “dissuaso” da ambienti vaticani all’insegna del “è meglio che uno muoia per salvare tutti”. E nella Chiesa italiana è stato sempre testimone di libertà e apertura, manifestando spesso simpatia per le istanze del cosiddetto “dissenso” e prendendo più volte posizioni pubbliche in controtendenza rispetto alla linea conservatrice prevalente nell’episcopato, per esempio esprimendosi a favore del clero uxorato, dell’ospitalità eucaristica di persone di altre confessioni e
del riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Tutto ciò gli è valsa una sostanziale emarginazione nella Conferenza episcopale italiana, cui è però corrisposta una grande proiezione internazionale, per esempio con la guida della missione di Pax Christi per i diritti umani in America centrale nel 1981.
Bettazzi è stato, infine, uno dei pochissimi vescovi (insieme al coetaneo Giuseppe Casale, (anch’egli tornato alla casa del Padre pochi mesi fa) a mantenere sempre aperto il dialogo con Noi siamo Chiesa, anche quando l’ostracismo delle autorità ecclesiastiche nei nostri confronti era quasi totale Così accettò di scrivere la prefazione al nostro volumetto “Il posto dell’altro. Le persone omosessuali nelle Chiese cristiane”, cui fece seguito la sua postfazione a “Né Eva nemmeno Maria. L’ordinazione sacerdotale delle donne nella Chiesa cattolica”. Con la sua testimonianza ecclesiale di libertà, speranza e coraggio il vescovo Bettazzi ha contribuito a non far perdere a molti la fiducia nella Chiesa, in una Chiesa nella quale ricerca, creatività, responsabilità e sguardo positivo verso il futuro non siano visti con diffidenza e l’appartenenza ecclesiale sia fonte di gioiosa energia.

17 luglio 2023

Coordinamento Nazionale di Noi Siamo Chiesa

 

LA LETTERA A BERLINGUER

Questo è il ricordo di don Giovanni Gennari su “Avvenire”:

È morto mons. Bettazzi quasi centenario, e tutti ricordano la sua lettera a Berlinguer, sorprendente sia per l’autore che per il destinatario sui due fronti…Quella lettera procurò la risposta di Enrico Berlinguer all’allora vescovo di Ivrea, sui rapporti di quelli che allora venivano, ma in modo superficiale e distorto, ritenuti solo due fronti opposti, Chiesa e partito. Le due lettere ebbero diverse conseguenze anche personali. Il vescovo di Ivrea aveva scritto tendendo la mano accogliente ad una realtà troppo ignorata, e cioè che la maggioranza di coloro che in Italia votavano PCI non per questo cessavano di essere cattolici. Questa credo sia stata l’esperienza vissuta da tanta gente: da una parte gli uomini di Chiesa impegnati pastoralmente nella vita quotidiana delle parrocchie, e dall’altra dirigenti e militanti di quel partito in evoluzione. Per ragioni personali ho sempre avuto, e non solo nella celebrazione eucaristica, la presenza amichevole di uomini e donne che avevano vissuto e vivevano l’esperienza della Resistenza e della appartenenza a quel PCI che dal 1972 aveva come segretario Enrico Berlinguer. Alcuni di loro guidati da Franco Rodano avevano passato gli anni della minacciata scomunica continuando a partecipare alla celebrazione eucaristica, ma in obbedienza alla Chiesa, sempre la loro Chiesa, senza accostarsi alla Comunione. Per la storia ci pensò Papa Giovanni eletto da poco a incaricare p. René Arnou, gesuita, di far comunicare a Rodano e ai suoi, nella sagrestia della parrocchia della Natività, che potevano riprendere a fare la Comunione.

Torno alla Lettera. Quel 1977 aveva segnato qualche grossa novità anche in Urss, ove con l’accordo del governo il patriarcato di Mosca aveva indetto a giugno il primo grande Convegno degli uomini delle religioni di tutto il mondo. Di qui, anche di qui, la decisione di Berlinguer di rispondere al vescovo di Ivrea. Fu così che per parecchi giorni nello studio del segretario di Berlinguer Antonio Tatò si preparò il testo di risposta, che fu pubblicata e suscitò grande clamore e molti contrasti. Erano tempi difficili per la DC a Roma, sconfitta nelle elezioni comunali del ‘76, e prima ancora peggio uscita dal referendum del 1974 per l’abrogazione della legge Fortuna sul divorzio. Arriva la lettera di Berlinguer a Bettazzi. Domanda, forse

indiscreta: rose e fiori e accoglienza del dialogo da parte degli uomini di Chiesa? Tutt’altro! L’Osservatore Romano pubblicò un testo durissimo respingendo ogni aspetto dell’evento, ed evidentemente la cosa avvenne anche come rimprovero solenne per quel vescovo che aveva osato scavalcare Segreteria di Stato vaticana e interessi della DC allora in crisi. Bettazzi ne soffrì molto, non solo nella cosiddetta “carriera” ecclesiastica: è rimasto vescovo, e poi emerito per quasi 50 anni! Forse anche per questo, sapendo che avevo avuto parte nella risposta di Berlinguer, la prima volta che ci incontrammo si raccomandò che non parlassi più di lui con nessuno!

Torno alla Lettera: quella formula doppia e poi tripla per la definizione di Partito e Stato “non teista, non ateista, non antiteista” e quindi per questo rispettosi della realtà di coscienza di ciascuno fu il risultato di una lunga discussione in ricerca con lo stesso Segretario, silenzioso più di sempre, e con Tatò e Rodano. Seguì nei fatti che al 1º congresso del partito successivo nel settembre 1977 dagli Statuti del PCI – mi pare al numero 8 – fu eliminato l’obbligo dell’accoglienza della filosofia immanentista di Karl Marx: “Promissio boni viri est obligatio!”

Quanti incontri fruttuosi anche per la fede in quegli anni! L’autista della sezione di partito che ti viene a prendere per portarti a un incontro, che ti ascolta e improvvisamente ti chiede confessione e assoluzione… E tante cose diverse: a Riese Pio X per esempio con la gente in piazza suona a lungo la campana per disturbare l’incontro dei “comunisti” sempre nemici! O anche all’opposto qualche anno dopo a San Polo d’Enza lo stesso Antonio Tatò che davanti a  una piazza di migliaia di “comunisti doc” ti chiede: “Don Gianni, parlaci di Gesù!”

Qualche nostalgia di tempi diversi? No. Solo memoria del passato e coscienza del presente: “Fratelli tutti!” E non solo in paradiso. Deve diventare presenza: ora e sempre.

Giovanni Gennari

“EUCARESTIE DI DESIDERIO”

Il seguente è il ricordo di Enrico Peyretti

Oggi abbiamo pianto in molti, ma subito abbiamo sorriso, alla notizia mattutina della morte di Luigi Bettazzi, vescovo costruttore di pace, quindi beato, come dice Gesù in Matteo 5,9. Abbiamo sorriso come certamente ha fatto lui, valicando il colle dalla vita limitata alla vita piena. Sapeva unire ai problemi più gravi, anche drammatici, il sorriso serio, che alleggerisce la paura e sostiene  la speranza attiva.

Forse pochi lo conoscono da più tempo di me: dal 1956 o 57, cioè da circa 65 anni, quando era vice-assistente nazionale della Fuci, e io tra i dirigenti centrali, poco più che ventenne. Via via nei decenni, tanti hanno visto fiorire in lui le qualità che allora cominciavamo a riconoscere. Negli ultimi circa 15 anni ha sempre partecipato agli incontri annuali che una dozzina di noi, allora nella Fuci e rimasti collegati in vari impegni, abbiamo realizzato in varie parti d’Italia, da Messina a Torino, Firenze, Roma, ecc. Lo chiamiamo il gruppo “Fuci 60”. Lui veniva sempre, come uno di noi. Almeno una volta ha detto messa in una casa delle nostre. Portava sempre le sue battute, come questa: «Se arrivo a cento anni, sono un prete… secolare!». E le sue barzellette…

Gli ho fatto visita il 3 luglio scorso, dodici giorni fa, quando la sua condizione, fino ad allora buona, si fece seria e critica. Sono molto grato a chi lo assisteva con cura e amore per avermi invitato a vederlo e ascoltarlo. Era fisicamente prostrato ma lucido, comunicativo e sorridente. Mi ha ripetuto tre volte, nonostante la fatica, perché lo ricordassi bene, un punto che immagino sia nel suo ultimo libro, che dovrebbe uscire presto. Da tempo  scriveva un libro all’anno per tenersi attivo. Mi ha detto e ribadito questa osservazione: l’ultima cena di Gesù era la cena ebraica, perciò vi partecipavano non solo i dodici apostoli, ma le loro famiglie, le donne e i bambini. C’erano anche le donne, non solo gli apostoli! Voleva che ricordassi bene questa sua sottolineatura. Gli ho portato il saluto e l’affetto degli amici comuni, specialmente del piccolo gruppo che continuerà a riunirsi nella memoria di lui.

Ho un altro ricordo importante, poco noto, che non compare tra gli interventi affettuosi e caldi oggi in rete. Nel pieno della pandemia, aprile 2020, le chiese erano chiuse. Qualcuno pensò di fare “eucaristie domestiche”. Erano vere eucaristie? Io scrissi una lettera ai giornali per dire: una soluzione c’è, nell’emergenza eccezionale. Ricordando che, prima dell’invenzione del clero, «tutti i credenti … nelle case spezzavano il pane» ecc. (v. Atti degli apostoli), chiedevo che si riconoscesse ad una comunità familiare la possibilità, volendo, di compiere il «fate questo in memoria di me», come Gesù ha chiesto che facciamo, nella viva memoria di lui. Che sia definito come sacramento o no, non è decisivo: è certamente memoria reale di Gesù risorto, presente con il suo Spirito, come ci ha promesso. Non sarebbe stato un rifiuto dei ministeri riconosciuti, ma una prassi di emergenza, tutt’altro che priva di significato buono e santo. Chiedevo: si avrà il coraggio di andare alla sostanza della fede e della presenza, più che alle forme rituali e alle dottrine?

Mandai la lettera anche a Bettazzi. Fu pubblicata solo da Repubblica, edizione di Torino, il 29 aprile. Nello stesso giorno, don Luigi mi scrisse questa mail: «Carissimo, bene per la lettera. Dovremmo dirlo anche in Amazzonia. Dico sempre che queste eucaristie, impossibilitate ad avere il ministro normale, sono eucaristie  di desiderio, equivalenti come il battesimo di desiderio per chi non può avere il battesimo d’acqua. Grazie e auguri, +Luigi Bettazzi».

Tra i video di conferenze e interviste che stanno circolando di nuovo, raccomando quella in piazza ad Ivrea, in un presidio per la pace, il 7 maggio scorso (https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=staffetta+7+maggio+mons+bettazzi+ivrea#fpstate=ive&vld=cid:ad7801c1,vid:rN5PhImX1DQ), nella Staffetta per la pace. Acistampa fornisce il testo trascritto.

16 luglio

 Enrico Peyretti

ALLA SINISTRA DI DIO CON DON TONINO

Pubblichiamo qui il ricordo di Francesco Comina:

Era un vescovo mancino e per questo gli piaceva tanto stare alla sinistra di Dio. Monsignor Luigi Bettazzi era sulla soglia dei cento anni. «Il 26 novembre – diceva a tutti scherzando – diventerò un prete secolare». I festeggiamenti erano già pronti. Nella notte fra il 15 e il 16 luglio ha deciso di abbandonarsi a quel Dio a cui ha creduto sempre con tutto se stesso. Un Dio non rinchiuso nelle nebulose della metafisica, ma “ pezzo di mondo prolungato” per dirla con le parole di un teologo che don Luigi amava tantissimo, ossia Dietrich Bonhoeffer. Un Dio che si rivela nella sua impotenza, un Dio disarmato, che salva il mondo attraverso l’unica salvezza possibile: la nonviolenza attiva e dinamica. Bettazzi ha camminato sulle strade impolverate della pace, della giustizia, dei diritti. Era il punto di riferimento della Chiesa orizzontale, ossia di una Chiesa che non punta a posizioni di vertice (lui era vescovo, ma vescovo popolare) ma una Chiesa che cammina con il popolo per dare speranza al mondo. Ecco perché monsignor Bettazzi amava la vita di un altro Monsignore, il vescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, ucciso il 24 marzo del 1980 mentre celebrava la messa nella chiesa dell’Hospidalito dentro quella fucina di violenza che è stato il Salvador ostaggio della dittatura militare. Pochi sanno che fu proprio grazie a Bettazzi che noi siamo riusciti, in Italia, a conoscere i diari di monsignor Romero, che lui ci portò dopo un viaggio che fece nel Paese sudamericano. Quei diari che raccontano gli ultimi anni di vista di Romero vennero pubblicati dalla casa editrice di riferimento di Pax Christi, “la meridiana”.

Fu proprio in questo movimento cattolico per la pace, che Bettazzi ha speso gli anni più floridi della sua vita. Fu grazie a lui che Pax Christi si fece conoscere in Italia. Erano gli anni del dopoguerra e si sentiva fortemente l’urgenza di radicare il vangelo nell’orizzonte di una speranza possibile di salvezza del mondo, dopo le distruzioni della guerra e l’accadimento funesto di Hiroshima e Nagasaky. Bettazzi era stata ordinato vescovo da Paolo VI nel 1963, dunque negli anni ancora caldi del Concilio (era l’ultimo vescovo ancora vivo ad aver partecipato al Concilio Vaticano II) e aveva respirato la grande rivoluzione di rinnovamento operata da Papa Giovanni con l’enciclica “Pacem in Terris”,  dove si liquidava finalmente la vecchia cultura della guerra possibile, e si diceva con forza che la guerra non solo non è più possibile ma addirittura non è più pensabile (“bellum alienum a ratione”). Ecco, allora che un movimento ecclesiale incentrato sulla pace di Cristo, poteva servire per annunciare finalmente la natura nonviolenta del messaggio cristiano. Bettazzi diventa presidente di Pax Christi Italia nel 1968 e nel 1978 presidente internazionale. E quando si affaccia sullo scenario ecclesiale don Tonino Bello, egli capisce immediatamente che qualcosa di straordinario sta avvenendo dentro la Chiesa italiana. E inizia una condivisione profetica di valori e di progetti fra i due che non solo irradiano di elementi nuovi e profondi la cultura della pace in ambito ecclesiale, ma in generale pongono l’Italia fra i Paesi più avanzati sul piano della promozione dei valori di pace e giustizia a livello globale. Il passaggio di consegne (e di vita) fra don Tonino in punto di morte (una morte tropoo precoce!) con Bettazzi a cui affida i simboli della “Chiesa del grembiule” (ossia del servizio), rimane come uno dei passaggi più commoventi della storia ecclesiale dal basso.

Bettazzi ha svolto anche un ruolo importante nel dialogo fra credenti e non credenti e in particolar modo con un ricco scambio epistolare con il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer alla fine degli anni Settanta. Nel 1978 don Luigi intervenne anche nei giorni terribili del sequestro Moro offrendosi come prigioniero al posto del segretario democristiano. Ma la curia romana rifiutò la proposta.

Bettazzi aveva un attivismo insonne. Scriveva libri, partecipava ad incontri pubblici, dibattiti televisivi, riunioni su tutto il territorio nazionale e anche in vari Paesi dell’Europa (negli ultimi anni soprattutto in Germania e Austria). Non aveva mai mancato alle marce per la pace di fine anno organizzate da Pax Christi e questo era un suo piccolo vanto. Molti ricordano la sua ironia e il suo humor. Definiva il sistema neoliberista con questa immagine: “Libera volpe in un libero pollaio. Tutti liberi!”. Era un barzellettiere fantastico. Forse era il suo modo per creare empatia e per superare i momenti più tristi e faticosi della vita. Lo ricordo una notte a Bolzano, in via Gutenberg. Stavamo aspettando un amico che lo avrebbe ospitato a casa sua. Era mezzanotte. L’amico non arrivava ed eravamo un po’ preoccupati. Bettazzi iniziò a raccontare barzellette, una dietro l’altra, per almeno un’ora. Avevamo le lacrime agli occhi dalle risate. Alla fine l’amico arrivò. Si era dimenticato dell’ospite. Ridemmo e chiudemmo così la nottata.

Ora Bettazzi sarà salito alla sinistra di Dio e ci aiuterà da lì a risolvere quello che qui noi umani (troppo umani!) non riusciamo a risolvere. Ossia la guerra, su cui si era battuto fino all’ultimo don Luigi. Fino all’ultimo aveva invocato la pace in Ucraina, aveva criticato l’invio di armi e aveva chiesto a gran voce una Conferenza di pace internazionale seguendo con grande interesse l’azione di mediazione che Francesco ha affidato al cardinale Zuppi. Perché questa è la strada della pace se vogliamo guardala con occhi di un vescovo mancino che si è seduto alla sinistra di Dio.

Francesco Comina

 

LA CHIESA DI BETTAZZI

E questa è la newsletter di Chiesa di tutti chiesa dei poveri:

Il bello di una lunga vita è che molti, in tempi e in luoghi diversi, ne godono i frutti, quando quella vita è ricca di valori civili, di ispirazioni religiose e traboccante di amore. Così è stato della vita di Luigi Bettazzi, che è stato davvero un vescovo della Chiesa di tutti, e della Chiesa dei poveri, e soprattutto dei pacifici e degli assetati di giustizia. E così egli ha seminato e lasciato ricordi straordinari in tanti e in molte occasioni per quasi 100 anni.

C’è chi lo ricorda, giovane e anche bello, fraterno e accogliente, maestro ed amico, come Assistente ecclesiastico della FUCI, la Federazione degli universitari cattolici italiani, famosa per aver formato personalità straordinarie e preziosi protagonisti della prima Italia repubblicana, a cominciare da Moro.

C’è chi lo ricorda come vescovo ausiliare di Bologna  in quel tempo magico che visse la Chiesa bolognese, la Chiesa del cardinale Lercaro, di don Dossetti, dell’ “Avvenire d’Italia”, del   Centro di studi religiosi di Pino Alberigo e Paolo Prodi. A quel titolo fu tra i più giovani vescovi del Vaticano II: e lì parlò per la pace, ed ebbe il coraggio di levarsi in san Pietro per chiedere ai Padri conciliari, contro ogni prudenza ecclesiastica, di procedere alla canonizzazione conciliare di papa Giovanni XXIII, e farlo santo per acclamazione, senza miracoli e senza processi canonici, perché un papa così ancora non si era mai visto, e proprio quel Concilio ne era il lascito più prezioso per la Chiesa e per il mondo.

Finito  il Concilio mons. Bettazzi fu ancora accanto a Lercaro, prima che l’arcivescovo bolognese fosse deposto per aver rivendicato la profezia della Chiesa, piuttosto che la neutralità, contro la guerra del Vietnam.

E poi fu vescovo di Ivrea, dove fu mandato per i suoi meriti, ma anche per lasciare il posto a Bologna al cardinale Poma incaricato di normalizzare la Chiesa italiana dopo gli ardimenti del Concilio.

E chi, tra i compagni che furono con lui e con don Albino Bizzotto in quella sorta di staffetta per la pace che fu fatta nel 1992 per rompere l’assedio di Sarajevo durante la guerra jugoslava, non lo ricorda a proclamare  che era possibile la pace tra serbi e bosniaci, , musulmani e cristiani, cattolici e ortodossi?

È stato un vescovo dei poveri e dei pacifici, degli intellettuali e dei piccoli, presidente di Pax Christi e militante di base quando c’era da lottare e testimoniare per la pace: e l’ultima volta lo ricordiamo a dire, rispondendo all’appello di Michele Santoro, che non è contro l’aggressione chi alla violenza oppone un’altra violenza, e che dalla guerra di Ucraina si doveva uscire con la diplomazia e mettendosi in mezzo ai contendenti per farli riconciliare nella pace.

Questo ricordo ci consola all’ora della sua morte.

Be the first to comment “DAL CONCILIO A SARAJEVO UN VESCOVO IN USCITA”