Dal grembo dell’Europa accoglienza o fascismi

Oggi sarebbe in campo un antifascismo senza fascismo; ma l’Europa potrebbe ancora generarlo. Le politiche xenofobe e di chiusura ne sono la matrice

La redazione

L’ascesa all’Eliseo di Emmanuel Macron, con la rassicurante presenza della moglie Brigitte, chiude il caso Le Pen in Francia, avevamo detto in questo sito già il 24 aprile scorso dopo il primo turno delle elezioni presidenziali. Sorprendentemente è stato però lo stesso Macron a riaprirlo nel suo discorso d’investitura davanti al popolo raccolto in gran numero nel giardino del Louvre, quasi per un catartico ritorno alla politica. Con un atto di grande lucidità e onestà politica il presidente francese ha riconosciuto quella sera che molti voti ricevuti non erano suoi, che molti votanti per lui non hanno affatto le sue stesse idee sull’Europa, sulle banche, sulla globalizzazione, ma che lo hanno scelto tra due sole opzioni possibili per difendere la Repubblica. Ma da che cosa la Repubblica doveva essere difesa con il voto contro la Le Pen, e in che cosa consisteva l’offesa di quanti hanno votato per lei? Riaprire il caso Le Pen significa porsi questa domanda, e più specificamente chiedersi se in Francia si è votato pro o contro qualcosa che si chiama fascismo.
C’è una corrente di pensiero che dice che il movimento lepenista non è fascismo, come non lo sono altri simili a lui in altri Paesi d’Europa e d’America, sicché oggi sarebbe in campo un antifascismo senza fascismo. Esso sarebbe usato a proprio favore dagli stessi signori del sistema politico-economico vigente, per bloccare ogni vera alternativa e sterilizzare la lotta delle minoranze creative.
C’è del vero in questa tesi: non è fascismo quello che non corrisponde alla sua identità storica ben conosciuta e come tale ormai estinta. Però vale il monito di Bertolt Brecht: “I popoli lo spensero, ma il grembo da cui nacque è ancora fecondo”. L’Europa può ancora essere questo grembo: papa Francesco l’ha considerata vecchia e ormai sterile, augurandole di tornare feconda come Sara; ma la questione è di sapere quale sarebbe il frutto del suo seno.
Perciò non è il fascismo, ma la genesi dei fascismi che ci deve preoccupare. E qui c’è stata un’altra intuizione illuminante di Macron, che mostra in lui stoffa di statista: quanti hanno votato per madame Le Pen, ha detto, hanno espresso una collera, un’ansia, uno smarrimento, delle convinzioni che non vanno ignorate. Disperazione, sfiducia, scoramento, così come povertà, disoccupazione, esclusione sono in effetti ingredienti che possono entrare nella genesi dei fascismi. Ciò vale per oggi, ma vale anche per ieri. Ci sono delle pagine pubblicate in questi giorni dai “Diari” di Sergio Paronetto in cui l’esponente cattolico nel 1940 cercava di capire i moventi che avevano spinto la gioventù tedesca nelle braccia del nazismo. Paronetto, esponente di spicco dei Fucini e dei Laureati cattolici, amico di Moro e di Montini, dirigente dell’IRI, finanzierà la Resistenza romana e sarà l’ispiratore del Codice di Camaldoli, quindi non è sospettabile di indulgenze alla mitologia del fascismo. Però voleva “scrutare”, da intellettuale critico, “l’immensa sete di giustizia, sia pure obbiettivamente falsa, ma soggettivamente vestita di innocenza e di buona fede, che anima la gioventù tedesca. Di giustizia e di ordine, contro un mondo marcio, dissoluto, decadente”. E proprio nella sconfitta della Francia, umiliata dalle truppe naziste che sfilarono all’ombra della torre Eiffel, egli vide “un lamentevole e tragico esempio di dissolvimento di una civiltà nella quale gli individui si erano dimenticati di essere cittadini e membri di un corpo sociale”, il dissolvimento “di una cultura degenerata nell’individualismo”. La sconfitta francese era la dichiarazione di fallimento della democrazia e dei falsi miti di libertà e di progresso che essa aveva incarnato negli anni Trenta, “il crollo di una visione della vita i cui valori non erano, come appariva, la libertà, ma l’irresponsabilità, non la giustizia, ma l’ordine pubblico, non il perfezionamento spirituale ma l’ordinaria amministrazione, non la politica, ma l’affarismo, non l’intelligenza, ma la superficialità brillante, non il sodo e serio lavoro, ma l’improvvisazione e l’abilità speculativa”. E da qui egli arrivava al vero problema: quale alternativa c’era alla meritata sconfitta delle democrazie e all’apparente trionfo dei totalitarismi? Fu a partire da qui che si impegnò nella preparazione dell’alternativa al fascismo in Italia: non doveva essere una qualunque democrazia, ma una democrazia sostanziale, e in polemica con Gonella e con i vecchi esponenti del partito popolare che vedevano il postfascismo essenzialmente come un ritorno alle libertà politiche, egli con De Gasperi e con i nuovi leaders del movimento cattolico insistette perché si costruisse una democrazia compiuta, ricca di contenuti e di azioni pubbliche volte a rimuovere le diseguaglianze e a promuovere la vera crescita delle persone, in una nuova realtà di socializzazione, intesa come “evento irrevocabile”, tale da impedire il ritorno al passato; e per questo chiedeva un “programma organico di politica economica, definito nei principi, chiaro, realistico, avanzato nelle mete, elastico, coraggioso e tecnicamente affinato nei mezzi di attuazione”. E, forte dell’esperienza maturata all’IRI, proponeva un modello di economia mista innervata da un robusto intervento statale.
Furono queste le discussioni che attraversarono il mondo cattolico prima della Costituente, e di cui nella Carta del 1947 si trova una larga ricezione; l’idea forte era che per uscire dal fascismo e “impedire il ritorno al passato”, non bastava mettere su una qualunque democrazia elettorale e formale, ma occorreva una democrazia non solo di “regole del gioco”, ma la cui ragione e il cui obiettivo reale fosse il perseguimento e la continua realizzazione del bene comune, cioè di tutti i cittadini.
Dopo un periodo ormai troppo lungo di sonno della ragione in cui abbiamo abbandonato la custodia la manutenzione e l’arricchimento della democrazia, il problema dell’antidoto ai fascismi torna oggi negli stessi termini di allora. La democrazia o si invera, o si perde.
Con l’aggiunta intanto divenuta necessaria, che mancava però nel discorso di Macron, che nella genesi dei nuovi fascismi il fattore più scatenante e di maggior rischio è oggi l’incapacità delle democrazie a porsi come democrazie del mondo, aprendo porte porti e confini a profughi esuli e migranti, tutti cittadini del mondo, avec o sans papiers che siano. O il grembo dell’Europa partorisce il genio dell’universalità e dell’accoglienza, oppure coverà dentro di sé il germe di nuovi fascismi. E non basterà battere i Le Pen per fermarli.

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