DOPO LA SCONFITTA
La tragedia dei “Refugees in Libya “. Quando i migranti riescono a scappare vengono catturati e riportati nei lager dagli stessi aguzzini con i soldi di Italia e Malta e spesso su coordinamento di “Frontex”. Ma l’ENI e i ministri vanno e vengono
Mattia Ferrari
Qualcosa che non ha precedenti nella storia.
“Non sapete distinguere i segni dei tempi?” (Mt 16,4).
“… e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza.” (Os 2,17)
Ricorderò sempre quello che è successo venerdì 8 ottobre 2021: mentre mi trovavo nell’Oratorio di Nonantola insieme a quelli che in questi tre anni erano stati i miei comparrocchiani a completare il trasloco, prendendo le ultime cose da portare a Roma. Sul telefono mi compare una videochiamata su WhatsApp in entrata. Dal prefisso si capisce che viene dalla Libia. Che fare? Ho guardato i miei ormai ex-compagni dell’Oratorio di Nonantola: “Rispondiamo?”. Come sempre, i miei indugi sono stati superati dai compagni. Così abbiamo risposto ed ecco allora che è comparso davanti ai nostri occhi, attraverso lo schermo del cellulare, ciò che mai ci saremmo immaginati: una selva umana, una folla immensa di persone migranti riunite a Tripoli, davanti al Community Day Center di UNHCR Libya (l’agenzia dell’ONU). Abbiamo iniziato a parlare con loro, per capire cosa fosse quella folla, cosa stesse succedendo. Ci hanno spiegato che, dopo le retate fatte dalla Polizia libica il 1 ottobre nel quartiere di Gargaresc a Tripoli, quando erano state catturate e deportate nei lager più di 5000 persone migranti, molti migranti, consapevoli che probabilmente era solo questione di tempo prima che anche loro venissero arrestati e deportati, avevano capito che era il momento di alzarsi, di prendere in mano la propria lotta, di farsi protagonisti per gridare apertamente verso il mondo il loro desiderio di salvezza e di fraternità universale. Si erano così radunati davanti al Community Day Center di UNHCR Libya, ritenendo che fosse al contempo il posto più sicuro e quello più idoneo per gridare verso il mondo, per essere sentiti al di fuori della Libia. Lì avevano costituito una comunità autorganizzata, in cui, pur provenendo da molte nazionalità diverse, si prendevano cura gli uni degli altri, e come collettivo si erano chiamati Refugees in Libya. Alcuni buoni samaritani libici avevano iniziato a fornire loro cibo. Ma nei primi giorni del presidio nessuno fuori dalla Libia si era accorto di loro, nessuno sapeva cosa stesse succedendo, così quel venerdì 8 ottobre avevano deciso di chiamare don Mattia Ferrari di Mediterranea Saving Humans perché sapevano che Mediterranea avrebbe ascoltato il loro grido. Infatti subito dopo la loro videochiamata ho avvertito i miei compagni di Mediterranea, le altre realtà della “civil fleet” e attivisti europei con l’aiuto di Carola Rackete. Tutti hanno risposto prontamente e hanno iniziato a farsi eco del grido di Refugees in Libya, condividendo sui propri profili social le loro pagine Twitter, organizzando conferenze stampa online con loro, trasmettendo alle istituzioni religiose e politiche i loro appelli. Quello che è successo dal 2 ottobre scorso è qualcosa che non aveva precedenti nella storia. Per la prima volta le persone migranti che bussano ai nostri confini e che vengono respinte si sono autorganizzate dal basso, costituite in una soggettività e hanno iniziato ad essere protagoniste dal basso, inverando così l’auspicio della “Fratelli tutti”, che afferma senza mezzi termini che i migranti devono essere “protagonisti del proprio riscatto” (n. 39). Questi migranti, giovani, donne e bambini, hanno manifestato una grandissima competenza e statura umana e politica, anche nei comunicati e negli appelli pubblici che hanno prodotto. Le loro richieste erano molto semplici: essere riconosciuti come soggetti, come protagonisti, come interlocutori, come veri e propri fratelli e sorelle, ed essere messi in salvo. A loro andava bene essere evacuati verso qualsiasi Paese sicuro, anche in Africa, non necessariamente in Europa, ma chiedevano espressamente l’intervento dell’Italia e dell’Europa per assisterli nell’evacuazione, in quanto tutti loro erano stati deportati nei lager, dove avevano sofferto orrori indicibili (e visto loro amici e parenti venire uccisi) in seguito alla cattura operata in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica, finanziata e addestrata dall’Italia e spesso coordinata da Frontex. Quindi dicevano: poiché l’Italia e l’Europa sono responsabili dirette delle atroci sofferenze che abbiamo subito, in quanto i respingimenti vengono operati su loro mandato, chiediamo che ci aiutino nella nostra richiesta di essere salvati dall’inferno libico. Evidentemente però c’è qualcosa che non ha funzionato. Il grido dei Refugees in Libya è stato accolto per primi dai movimenti popolari, che li hanno invitati, come movimento popolare, a partecipare al quarto incontro mondiale dei movimenti su zoom. La settimana seguente papa Francesco ha risposto al loro appello all’Angelus, con parole che hanno centrato la loro richiesta di essere riconosciuti come soggetti, come protagonisti, come interlocutori, come veri fratelli e sorelle. Dopo il Papa sono intervenute tramite comunicati alcune istituzioni religiose. Poi? Poi basta. A parte il racconto dei soliti giornali coraggiosi, Avvenire e Il Manifesto, e il tweet di qualche politico in gamba, silenzio assoluto. Così nel corso delle settimane ci sono state al presidio tre vittime, tre giovani ragazzi uccisi, uno da uomini armati riconducibili alle milizie libiche e due uccisi in incidenti in circostanze misteriose da automobili che passando davanti al presidio li hanno investiti. Poi, la notte del 10 gennaio, la fine: le forze del Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione illegale, capitanate dal famigerato Al Khoja, sono intervenute in modo massiccio, distruggendo gli accampamenti e catturando e deportando le persone migranti nella prigione di Ain Zara. Tre dei portavoce sono scampati alla cattura e sono ricercati dalle milizie, che il giorno successivo hanno mandato uomini mascherati a provare a estorcere informazioni dai migranti catturati su dove si trovassero i tre portavoce scampati. Così è finito il presidio di Refugees in Libya, la prima esperienza di autorganizzazione dal basso delle persone migranti in Libia, il primo caso nella storia in cui le persone migranti si sono rese soggetto e hanno cercato di essere riconosciute come veri fratelli e sorelle.
La nostra, e la mia, responsabilità
Ora, come sempre dopo le sconfitte, bisogna riflettere su cosa ha portato a questo risultato e sulle responsabilità. Dobbiamo riconoscerlo chiaramente: le persone migranti avevano chiesto a noi, a me don Mattia, a Mediterranea Saving Humans, agli attivisti europei, di farsi loro prossimi e di affiancarli in questo loro grido, quindi se la loro lotta è fallita dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità. Abbiamo fallito, io ho fallito. Non siamo stati, e non sono stato, all’altezza del compito che i nostri amici migranti ci avevano chiesto. Davanti a Dio e davanti alla storia portiamo, e porto, il rimorso di non avere forse fatto tutto quello che potevamo, e potevo fare. Per molti miei compagni, e per me, è probabilmente la sconfitta più grande della nostra vita, di cui porteremo sempre il rimorso. C’è qualcosa che non torna: il mistero Libia, il più grande scandalo dei nostri tempi. “Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto.” (Mt. 12,9).
Ammesse le nostre responsabilità, ci permettiamo però di allargare un po’ l’orizzonte e di dire chiaro che c’è qualcosa che non funziona. Ci sono domande che devono trovare risposta, perché certi misteri sono troppo grandi, soprattutto sulla Libia, che, va detto, è in questo momento l’inferno sulla terra, dove le persone migranti, costrette a lasciare le terre di origine per colpa dell’ingiustizia globale, vengono stuprate, torturate e uccise con le modalità che si usavano ad Auschwitz e Birkenau e quando riescono a scappare e a prendere il mare vengono catturate e riportate nei lager dagli stessi aguzzini, su finanziamento di Italia e Malta e spesso su coordinamento di Frontex. Non quadra il fatto che la Libia sia un argomento intoccabile, che chiunque lo tocchi rimanga scottato. Perché tutti i nostri tentativi di portare l’attenzione vengono puntualmente deviati? Perché a noi viene fatto credere che sia impossibile andare in Libia, mentre vediamo che i ministri e l’ENI vanno in Libia continuamente? Cosa c’è sotto? Cosa è successo nel 2017 e negli anni seguenti, quando l’Italia e Malta, d’intesa con l’Europa, hanno fatto i famigerati accordi con la Libia? Perché quando Nello Scavo, con enorme coraggio evangelico, ha dimostrato che tali accordi erano stati fatti con il coinvolgimento diretto della mafia libica, in particolare con il ricercato per crimini contro l’umanità Bija, è finito improvvisamente sotto protezione, e lo è tuttora, mentre in più di quattro anni non ci sono state risposte alle sue inchieste, e anzi gli accordi che giustamente sono stati ribattezzati “accordi Italia-mafia libica” vengono riconfermati ogni anno? Perché non si riesce a fare chiarezza sull’assassinio di Daphne Caruana Galizia e a ricostruire le ultime tappe delle sue inchieste, che guarda caso riguardavano proprio i traffici di idrocarburi? Perché la mafia libica ha un account su Twitter, che non viene chiuso nonostante le segnalazioni, e questo account, oltre a pubblicare foto delle milizie e della mafia libica, pubblica materiale proveniente direttamente da bordo di velivoli militari europei, mostrando un chiaro legame con i Servizi segreti di diversi Paesi europei? Perché questo account può permettersi di attaccare e minacciare pubblicamente e senza motivo persone, tra cui il sottoscritto, come avvenuto il 31 maggio scorso, senza che le autorità rispondano, al punto che le interrogazioni che sono state presentate in Parlamento al Ministro degli Interni e al Ministro degli Esteri sono ancora senza risposta? E com’è possibile che, dati di oggi, in Libia nel 2021 siano sparite nel nulla 20.000 persone migranti, i nuovi desaparecidos? Cosa c’è dietro alla Libia? Neanche se in Libia ci fosse la base aliena degli UFO sulla terra si capirebbe una così pervicace ostinazione degli Stati nel cercare di tenere coperto il mistero Libia. Neanche l’Area 51 è così impenetrabile. Quello che è certo è che in Libia c’è il massimo della criminalità e della violenza su questo pianeta, che gli ultimi patiscono orrori indicibili e vengono fatti sparire, e che le persone europee che provano a toccare la questione libica vengono scottate in modo pericoloso, mentre gli Stati e l’ENI riescono ad andare lì quando vogliono.
La Chiesa davanti a tutto questo
“… e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie” (Gl. 3,1). Infine, la domanda cui non possiamo sfuggire: come Chiesa, come stiamo corrispondendo alla chiamata che Dio ci sta rivolgendo attraverso il grido dei poveri che sale dalla Libia? Quando ero studente in seminario, nel corso di cristologia mi capitò di imbattermi in un passo molto bello del libro di Bruno Forte “Gesù di Nazareth, storia di Dio, Dio della storia”. Parlando del messianesimo profetico, Bruno Forte (che mi perdonerà se cito a memoria e non sono preciso) spiega che il carisma profetico è la capacità, conferita dallo Spirito di Dio, di portare la Parola di Dio nelle vicende umane, orientandole verso il Regno di Dio. La profezia, portando la Parola di Dio nelle imperfette vicende umane, è sempre sovversiva, essa porta la sovversione nelle ingiustizie per costruire la giustizia, porta la sovversione nelle disperazioni per far rinascere la speranza, e via dicendo. Ora, il carisma profetico, che è uno dei tratti del messianesimo di Gesù, lo Spirito Santo lo perpetua nella Chiesa, popolo di Dio, popolo profetico, in cui ogni credente è profeta in virtù del Battesimo. A nostro avviso, una delle urgenze di questo nostro momento storico è che la Chiesa riscopra sempre di più il suo carisma profetico. Solo questa profezia può risollevare il mondo dalle spirali di ingiustizia e di abominio in cui siamo finiti e di cui la Libia è l’emblema.
Dalla sconfitta le piste per la vittoria
“… e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza.” (Os 2,17). Anche se abbiamo perso, ci sembra che la vicenda dei Refugees in Libya mostri chiaramente quelle che sono le uniche possibili vie per uscire dalla crisi migratoria attuale, che ricapitoliamo in tre punti chiave.
Protagonismo degli ultimi. La vicenda di Refugees in Libya mostra chiaramente che i migranti possono e devono essere protagonisti del loro riscatto e che anzi questa è l’unica via per trovare, insieme, le vie per uscire dalla crisi. Finché i poveri rimangono nella posizione di oggetto, non si troveranno mai le soluzioni al problema. In questa vicenda io sono rimasto molto colpito da come i miei compagni di Mediterranea hanno saputo farsi prossimi a Refugees in Libya, lasciando loro come protagonisti, come veri soggetti, e facendosi semplicemente loro fratelli e sorelle: hanno dato un’incredibile lezione di umiltà, di chi sa lasciare il posto in prima fila. Il protagonismo dei poveri, la loro soggettività, è fondamentale perché è l’unica via percorribile per realizzare davvero la fraternità: solo tra soggetti alla pari ci può essere fraternità. Questo vale per la questione migratoria in Libia come per tutti i fronti della povertà. Ed è il presupposto per i passaggi successivi.
Giustizia e riconciliazione. La migrazione è un fatto epocale e come tale richiede soluzioni epocali. La crisi migratoria odierna, lo ripetiamo spesso, è in realtà una crisi della giustizia globale. Sono le ingiustizie globali che abbiamo costruito da cinque secoli a questa parte e che tuttora perpetuiamo con il neocolonialismo a costringere le persone a migrare. La questione migratoria mette in discussione il nostro sistema socioeconomico globale, su cui, dobbiamo riconoscerlo, si fonda il nostro benessere. I passi per farlo sono riconoscere chi ha subito e subisce queste sperequazioni come soggetto, come protagonista, come abbiamo detto, cioè come vero fratello e sorella, e a quel punto insieme operare una vera riconciliazione. Ma la riconciliazione prevede necessariamente che noi, che abbiamo goduto e godiamo del benessere grondante del loro sangue e abbiamo respinto e respingiamo quanti di loro provano a venire qui, accettiamo di mettere in discussione il nostro benessere. Qui sta il punto: in realtà, noi occidentali non vogliamo farlo, perché il nostro egoismo ci blocca. La peste del cuore ci domina. C’è solo una via per superarla, cioè per convertirci. Compassione viscerale. Tra le cose che i miei compagni di classe e io stiamo imparando nello studio di scienze sociali alla Gregoriana è che i maestri della sociologia, anche di orientamenti diversi tra loro, concordano sul fatto che solo i sentimenti sono in grado di cambiare la società. August Comte, il padre della sociologia, afferma che l’uomo non agisce mai per l’intelligenza, cioè il pensiero astratto non determina mai in lui l’azione e che gli uomini non saranno mai mossi da altro che dai sentimenti. Il vero scopo consiste nel fatto che gli uomini siano mossi sempre più da sentimenti disinteressati e non più da istinti egoistici. Colpisce notare che un altro dei maestri della sociologia, Vilfredo Pareto, di orientamento diverso da Comte, sembi però concordare con lui su questo punto, quando analizzando le azioni umane e i meccanismi sociali ed economici afferma che le discussioni teoriche non sono molto utili per modificare gli atti e le adozioni concrete di una pratica: per ottenere questo, bisogna invece modificare gli stati d’animo, che risultano in gran parte dagli interessi economici, politici, sociali degli individui e dalle circostanze nelle quali vivono, e per modificare gli stati d’animo bisogna ricorrere molto più ai sentimenti che alla logica e ai risultati dell’esperienza. Per sintetizzare ciò, dice Pareto, si può quasi dire, anche se in forma non corretta, che i ragionamenti, per agire sugli uomini, hanno bisogno di trasformarsi in sentimenti. In effetti, le statistiche, terribili, sui naufragi e i respingimenti, non hanno mai convertito nessuno. Così come non hanno mai convertito nessuno ragionamenti astratti sui diritti umani. Come ci insegnano questi illustri sociologi, solo i sentimenti, intesi nella loro accezione più profonda, possono mutare i comportamenti degli uomini. Curiosamente, è la stessa cosa che affermano gli scienziati sull’emergenza ambientale: forniamo dati schiaccianti, ma la società non cambia, perché i ragionamenti non bastano, le persone hanno bisogno di motivazioni più profonde, che tocchino il cuore.
Ed ecco che torna l’importanza della Chiesa: la Chiesa nel patrimonio che Gesù le ha affidato, che è il Vangelo, ha la chiave di tutto questo. Si tratta di quel verbo misterioso, così spesso trascurato eppure così centrale, che è così caro a Mediterranea, da quando l’arcivescovo Lorefice lo ha insegnato a Luca Casarini: è lo splagchnizomai, la compassione viscerale, la misericordia nel senso più profondo. Il cuore del Vangelo. Dio ha compassione viscerale del mondo, per questo manda Suo figlio Gesù. Egli ha compassione viscerale dell’umanità, in particolare dei poveri, degli scartati, dei peccatori. E mostra a tutti noi che la via per avere la vita eterna, la vita piena, è aprire il nostro cuore a questa compassione viscerale, che è presente come scintilla nel cuore di ogni persona. La Chiesa è chiamata a fare risplendere questo splagchnizomai, a insegnare alle persone a non avere paura di aprire il proprio cuore a questa scintilla e a mostrare loro che è questa la via della santità, come ci mostra don Bosco, santo che oggi si celebra. È la mistica dei movimenti popolari, descritta così bene da papa Francesco nel loro secondo incontro mondiale, in Bolivia. L’ultima cosa che resta. Il presidio di Refugees in Libya a Tripoli non c’è più: le persone sono state catturate e deportate nella prigione di Ain Zara dalle forze libiche capitanate dal famigerato Al Khoja, tenute prigioniere per la sola colpa di essere migranti. I portavoce sopravvissuti alla cattura sono ricercati dalle milizie, li stiamo nascondendo e stiamo provando a evacuarli. Ma proprio dalla prigione di Ain Zara ci arrivano foto che sembrano un segno celeste. Rappresentano un Crocifisso, con alcune immagini sacre dipinte sulla parete dai migranti stessi, tra cui si nota il Sacro Cuore di Gesù e la Vergine Maria con Gesù bambino. Sono state realizzate direttamente dai migranti nel lager e sono l’unica presenza che tiene loro compagnia nel lager. Si capisce chiaramente cosa significa: questi ultimi del mondo ripongono la loro speranza unicamente in Dio. Sono “i suoi eletti, che giorno e notte gridano a lui” (Mt. 18,7). Il Vangelo dice che “Dio farà loro giustizia prontamente” (Mt. 18,8), però aggiunge: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?” (Mt. 18,8). E proprio questo è il punto: poiché “Dio ama sempre tramite qualcuno” (Beato Padre Pino Puglisi), dalla nostra fede in Gesù che viene a noi attraverso di loro dipende la risposta di Dio al loro grido. Dio vuole agire attraverso di noi. Che non accada che non rispondiamo alla chiamata che Dio ci sta rivolgendo. Per questo come Mediterranea abbiamo scelto di continuare a pubblicare ogni giorno aggiornamenti dai migranti in Libia continuando a contare i giorni dal 2 ottobre scorso, cioè dalla nascita del presidio, perché resti chiaro che quello è stato un punto di svolta da cui non si torna indietro: quel giorno i migranti sono diventati protagonisti del loro riscatto e tali devono rimanere. Nella prigione di Ain Zara, nell’abominio della desolazione, nell’abisso della devastazione, dove tutto è finito, è rimasta solo una cosa: la Croce del Cristo. Questo ci ricorda ancora una volta che l’unico che può salvarci tutti è lui, di cui tutti noi in vari modi siamo innamorati: Gesù. E ci ricorda che con il Suo amore anche noi possiamo amare fino alla fine. Nel buio dell’umanità, questa è la luce che continua a risplendere. E l’ultima parola che resta di tutta questa vicenda è dunque il nome santissimo e soave del nostro amato Divin Redentore: Gesù.
don Mattia Ferrari
31 gennaio 2022, Festa di San Giovanni Bosco
LE PAROLE DEL PAPA ALL’ANGELUS DEL 24 OTTOBRE
Cari fratelli e sorelle,
esprimo la mia vicinanza alle migliaia di migranti, rifugiati e altri bisognosi di protezione in Libia: non vi dimentico mai; sento le vostre grida e prego per voi. Tanti di questi uomini, donne e bambini sono sottoposti a una violenza disumana. Ancora una volta chiedo alla comunità internazionale di mantenere le promesse di cercare soluzioni comuni, concrete e durevoli per la gestione dei flussi migratori in Libia e in tutto il Mediterraneo. E quanto soffrono coloro che sono respinti! Ci sono dei veri lager lì. Occorre porre fine al ritorno dei migranti in Paesi non sicuri e dare priorità al soccorso di vite umane in mare con dispositivi di salvataggio e di sbarco prevedibile, garantire loro condizioni di vita degne, alternative alla detenzione, percorsi regolari di migrazione e accesso alle procedure di asilo. Sentiamoci tutti responsabili di questi nostri fratelli e sorelle, che da troppi anni sono vittime di questa gravissima situazione. Preghiamo insieme per loro in silenzio.