DOSSIER MIGRANTI
La critica alle politiche genocide nei confronti del popolo dei migranti e dei profughi in numerosi interventi dopo la decisione italiana di affidare il lavoro repressivo alla Libia
Se li “salva” la Libia
Domenico Gallo
(18 agosto 2017)
Nella tradizionale conferenza di ferragosto il ministro dell’Interno ha fatto il punto sulla situazione degli sbarchi, annunciando che il problema della pressione migratoria sul nostro Paese certamente non si è risolto ma, grazie agli ultimi provvedimenti, adesso si vede la luce al fondo del tunnel. Probabilmente la luce cui fa riferimento il ministro è l’obiettivo “sbarchi zero” che i suoi competitori politici, sul fronte della Lega e su quello dei 5 Stelle, agitano come un traguardo fondamentale da raggiungere per il benessere del nostro Paese. Indubbiamente la comunicazione del ministro è stata caratterizzata da sobrietà e modestia, perché la diminuzione degli sbarchi del 4,5% su base annua, non è un dato significativo dal momento che nei primi 15 giorni di agosto si è verificato un vero e proprio crollo degli arrivi, che sono passati da 6.564 (2016) a 1.572. Il merito non è del tanto discusso “codice Minniti”, un provvedimento che ostacola ma non impedisce l’azione di soccorso in alto mare compiuta dalle navi delle ONG. In realtà il governo italiano non avrebbe potuto interdire il soccorso in alto mare, né lo sbarco nei porti italiani dei profughi salvati dal naufragio, né le conseguenti richieste di protezione internazionale, per una serie di impicci legati alle convenzioni internazionali sui diritti umani e sul diritto del mare.
Però quello che noi non possiamo fare perché ce lo impedisce il diritto e la morale, possono sempre farlo gli altri.
La vera svolta sul fronte del “governo dei flussi”, non è il tanto osannato e glorificato dall’Unione Europea codice di condotta imposto alle ONG, ma il risveglio della Libia che, solo qualche giorno dopo il varo del codice Minniti, si è appropriata di un pezzo di Mediterraneo, istituendo una zona SAR che si estende fino a 180 km dalle sue coste, ed attribuendo alla sua Marina la responsabilità per le operazione di Ricerca e Soccorso. La c.d. Marina militare libica ha subito interpretato questo ruolo, interdicendo, con la minaccia delle armi, le operazioni di soccorso alle navi delle ONG. E’ anche intervenuta per “salvare” i profughi sui gommoni, catturandoli e riportandoli nei centri di detenzione in Libia, dove notoriamente sono esposti a violenze e brutalità di ogni tipo, rendendo – fra l’altro – impossibile l’esercizio del diritto d’asilo a coloro che fuggono da guerre, persecuzioni e genocidi (come nel caso dei siriani). Del resto l’attitudine al salvataggio della Marina libica è ben nota e viene descritta nell’ultimo rapporto di Amnesty International (6 luglio): «Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state “direttamente coinvolte, con l’impiego di armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo” ». Nello stesso rapporto si cita la nota ufficiale di John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa, che ha dichiarato: “Invece di agire per salvare vite e fornire protezione, i ministri degli esteri europei stanno vergognosamente dando priorità a irresponsabili accordi con la Libia nel disperato tentativo d’impedire a migranti e rifugiati di raggiungere l’Italia“.
Su istigazione dell’Europa, alla fine gli accordi con la Libia li ha fatti il governo italiano, inviando una nave officina a Tripoli per riparare le motovedette che l’Italia stessa aveva fornito alla Libia, ai tempi di Gheddafi, e metterle in condizione di effettuare le operazioni concordate per scacciare le navi delle ONG e bloccare il flusso dei migranti.
Insomma il capolavoro delle politica italiana sull’immigrazione è stato di delegare il lavoro sporco ai libici. L’Italia e l’Europa sono i mandanti, la marina libica il braccio operativo.
Nel diritto penale il mandante si considera responsabile del delitto quanto l’esecutore. In questo caso il diritto e la morale coincidono.
Domenico Gallo
(edito dal Quotidiano del Sud)
Siamo sulla strada sbagliata
Rete della pace
(17 agosto 2017)
Siamo sulla strada sbagliata. La competizione tra Italia e Francia, con Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Iran, a tessere le proprie trame per prenotare nuovi contratti e forniture o per re-installare una presenza militare nelle frontiere interne africane, è una strada sbagliata e molto pericolosa. Manca una strategia di ricomposizione del complesso tessuto comunitario e sociale libico, per ridare alla popolazione ed alle tribù locali la possibilità e la responsabilità di decidere del proprio futuro, in modo pacifico, nonviolento e dentro un quadro di legalità internazionale. Un percorso che ha bisogno di investimenti e di dialogo con le comunità locali, costruendo relazioni, rapporti di reciproca fiducia e rispetto. Strategia che di certo non passa per le stanze delle diplomazie e degli stati che vedono la Libia come un nuovo campo di battaglia, per fermare e per respingere migranti e richiedenti asilo, per accedere a nuovi contratti con supposti governi o capi-milizie sempre pronti ad accreditarsi o ad offrirsi al miglior offerente. La partita è regionale, i paesi del nord Africa sono i luoghi del transito, il Sahel e l’Africa Centrale sono il cuore della crisi, vittime di dittature, carestie, povertà endemica, guerre, sfruttamento, espropriazione e saccheggio di risorse naturali.
Una situazione che non è di oggi ma ha origini antiche, dalla schiavitù alle colonie, dal processo di indipendenza e di emancipazione mai concluso ed osteggiato dalle potenze occidentali, per ovvi interessi.
Lo stesso attacco che da mesi coinvolge le ONG che operano nell’azione umanitaria per salvare vite nel mare Mediterraneo, è figlio della stessa logica, del primato della sicurezza (di casa propria) a giustificazione dell’azione repressiva, che calpesta i principi dell’autonomia, dell’indipendenza e della neutralità riconosciuti internazionalmente ed imprescindibili per l’azione umanitaria internazionale. In pochi mesi si è passati sopra una storia di decenni di esperienze di azioni umanitarie compiute dalle organizzazioni non governative nei contesti più pericolosi e difficili: Bosnia, Kosovo, Sri Lanka, Colombia, Palestina, Sudan, Libano, Kurdistan, Afghanistan, solo per citare alcune pagine della storia recente del “nostro intervento umanitario”, per arrivare ad essere valutati e controllati dal Ministero degli Interni, situazione che se avvenisse in un paese extraeuropeo, verrebbe denunciata come una ingerenza inaccettabile. Che sia chiaro: chi opera nel campo del soccorso umanitario deve essere preparato professionalmente ed avere un comportamento trasparente e coerente con i principi sopra citati, deve sempre essere pronto a render conto a donatori ed alle autorità, ma sempre in un rapporto di autonomia ed indipendenza.
Proprio per difendere questo speciale status internazionale è interesse delle stesse organizzazioni umanitarie controllare ed isolare immediatamente chi infrange questo codice etico.
La richiesta del ministero degli interni di sottoscrivere un protocollo o codice di condotta che prevede una presenza istituzionale ed armata nell’esercizio dell’azione umanitaria, quale condizione sine qua non per poter operare nell’azione di salvataggio in mare, crea un precedente che ci interroga e ci preoccupa. Non era meglio organizzare – come si fa nelle zone di guerra, per la gestione dei campi profughi o nelle fasi di emergenza e ricostruzione – dei coordinamenti e delle cabine di regia tra tutti gli operatori ed i soggetti coinvolti, per armonizzare l’intervento nel rispetto dei compiti, del mandato e delle prerogative di ciascun attore, governativo e non governativo ? Decenni di esperienza ci indicano che, in queste situazioni di crisi umanitaria, chi non è disponibile o chi non è in grado di operare in un quadro di concertazione e di coordinamento applicando criteri e standard internazionali riconosciuti si esclude da solo, e chi sbaglia è immediatamente individuato ed isolato, senza alcuna necessità di montare una caccia alle streghe verso un’intera categoria. Non possiamo che esprimere preoccupazione e disappunto per questo orientamento, perchè questi episodi si aggiungono ad una politica italiana che continua a promuovere investimenti ed alleanze con paesi in guerra – vedi il caso eclatante dell’Arabia Saudita per le sue responsabilità dei bombardamenti di ospedali e scuole in Yemen, o mantenere un rigoroso silenzio sul black out di Gaza e sull’escalation di violenza a Gerusalemme – che, oltre alla sofferenza di milioni di persone, rappresentano gravissime minacce per ulteriori violenze nell’intera regione medio-orientale.
La strada è sbagliata perché a crisi non si risponde generando nuove crisi, a violenza non si risponde con maggiore violenza, a sofferenza non si risponde con altra sofferenza.
Siamo coscienti della complessità e della difficoltà che si debbono affrontare per promuovere una soluzione giusta e durevole delle varie situazioni di crisi nel bacino del Mediterraneo. A maggior ragione, e proprio per questo, chiediamo alle nostre istituzioni, italiane ed europee, di attivare urgentemente un tavolo di confronto con la società civile per costruire con le comunità dei paesi della sponda sud del mediterraneo soluzioni condivise, orientate alla convivenza pacifica, al rafforzamento della democrazia e delle libertà, allo sviluppo sostenibile; chiediamo che le nostre idee, come la proposta di legge per la costituzione di un Dipartimento di Difesa Civile e nonviolenta, siano oggetto di una seria discussione in Parlamento; chiediamo che la sperimentazione dei corpi civili di pace possa essere considerata come una concreta alternativa ed uno strumento di costruzione di dialogo, di ricomposizione sociale e di convivenza in quelle aree di conflitto – che oggi intrecciano la questione migratoria – non siano affrontate in una ottica militare, né tantomeno con l’azione repressiva; chiediamo investimenti ed una politica per attivare corridoi umanitari e libertà di circolazione per uomini e donne, in modo sicuro e legale; chiediamo che la cooperazione con i paesi di origine o di transito dei migranti e richiedenti asilo, che insistono sulle stesse direttrici, diventi vera cooperazione per lo sviluppo di quei paesi, per sostenere democrazia, giustizia, lavoro dignitoso e sviluppo sostenibile, non funzionale ad interessi altri o soggetta al ricatto della chiusura delle frontiere; chiediamo che il piano di ricollocazione dei migranti e richiedenti asilo, gestito con rigorosa umanità e nel rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali, diventi un obbligo, morale e materiale, per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea; chiediamo l’immediata riforma dell’accordo di Dublino per rendere più accessibile il diritto di asilo. La pace va costruita insieme, con il contributo di tutti, con coerenza e determinazione, sapendo che per costruire le condizioni del vivere in pace, occorre essere generosi, ascoltare, accogliere, aiutare l’altro per una emancipazione reciproca, con pari dignità e rispetto. Sicurezza e rispetto dei diritti umani non possono essere obiettivi limitati ai propri confini. Respingere uomini, donne e minori per rinchiuderli in lager dall’altra parte del Mediterraneo o nel deserto – senza alcuna protezione e trattamento umano – non può essere il risultato dell’azione e della politica di un paese civile, di un’Europa democratica.
La Rete della Pace
(ACLI, AGESCI, Accademia apuana della pace, Ambasciata democrazia locale, Amici della mezza luna rossa palestinese, ANSPS, AOI – associazione di cooperazione e di solidarietà internazionale, Ara pacis iniziative, Archivio disarmo, ARCI, ARCI Bassa Val di Cecina, ARCI Verona, ARCS, Arci servizio civile, Associazione Perugia Palestina, Associazione per la pace, Associazione per la pace di Modena, Assopace Palestina, AUSER, CGIL, CGIL Verona, CNCA, CTA – centro turistico ACLI PG, Comunità araba siriana in Umbria, Coordinamento comunità palestinesi, Coordinamento comasco per la pace, Coordinamento pace in comune Milano, – Encuentrarte, FIOM Cgil, FOCSIV, Fondazione Angelo Frammartino, Fondazione culturale responsabilità etica, IPRI – rete CCP, IPSIA, Lega per i diritti dei popoli, Legambiente, Link2007 cooperazione in rete, Link – coordinamento universitario, Lunaria, MIR, Movimento europeo, Movimento Nonviolento, Nexus Emilia Romagna, Per il mondo, Peacewaves, Piattaforma ONG MO, Restiamo umani con Vik Venezia, Rete degli studenti medi, Rete della conoscenza, Rete della pace umbra, Tavola della pace valle Brembana, Tavola pace val di Cecina,Tavola sarda della pace, Tavola della pace di Bergamo, U.S. Acli, UDS, UDU, UISP, Un ponte per…, Ventiquattro marzo).
Una decisione politica, si tratta di un genocidio
Raniero La Valle
(16 agosto 2017)
Avendo come mandante l’Italia e l’Europa la Marina libica si annette un pezzo di Mediterraneo e minaccia e spara, per allontanare le ONG e impedire i soccorsi. Infatti le ONG sotto la minaccia delle armi – che abbiano firmato o no il codice ministeriale – hanno interrotto le operazioni di salvataggio. Noi ripariamo, finanziamo, armiamo e aumentiamo di numero le navi militari libiche, senza neanche sapere in mano a chi andranno a finire. Il ministro Minniti è molto contento e dice di vedere la luce in fondo al tunnel.
Ma la luce, che non è più quella dei Lumi, è il buio del rifiuto che noi protetti opponiamo al diritto al movimento e alla vita di un intero popolo di molte nazioni, il popolo dei migranti, che fuggendo da molti aguzzini cerca invano il suo posto nel mondo.
L’ONU, che ragiona ancora in termini di universalità dei diritti umani, condanna l’Italia. Tutto ciò ci rende responsabili del genocidio del popolo dei migranti. .Avevamo avuto cattivi governi, ma mai un partito di maggioranza e un governo complici di genocidio.
Bisogna invadere tutti i siti e le mailing list per chiedere che l’Italia ritiri immediatamente da Tripoli la nave officina che sta rimettendo in mare le motovedette libiche, che sono una minaccia anche per noi, che cessi l’azione comune con i libici per la riconsegna dei migranti ai campi di detenzione e tortura in Libia, che Minniti sia destinato ad altro incarico finché non sia chiaro che la sua dottrina non corrisponde alla coscienza della nazione, che si avvii una procedura d’infrazione nei confronti dell’Europa che tradisce il suo spirito prima ancora che i suoi trattati, e che si attivi un grande movimento internazionale per affermare il diritto umano universale di migrare e, attraverso la procedura dei visti, permettere a tutti di accedere a qualsiasi Paese avvalendosi dei porti degli aeroporti delle ferrovie e delle strade che sono stati appunto costruiti per questo. Per l’Italia è un momento quale mai è stato vissuto prima, perché mai è stato così grande il male che stiamo facendo e che stiamo per fare; il vero referendum è questo, se vogliamo stare al mondo con gli altri, o se pretendiamo di starci da soli, difesi da muraglie e torpediniere, in compagnia di altri disperati assediati come noi.
da Facebook
La relatrice Onu: “Con il codice di condotta si rischiano più morti in mare”
(15 agosto 2017).
L’esperta indipendente delle Nazioni Unite Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, avverte del rischio che ci possano essere più morti nel Mediterraneo con il codice di condotta proposto dall’Italia alle ong e con le restrizioni imposte dalla Libia per le operazioni di ricerca e salvataggio.
“L’Italia e l’Ue impongono procedure che potrebbero ridurre la capacità delle ong di effettuare attività di salvataggio di vite. Questo potrebbe portare a più morti in mare, e la perdita di vite, essendo prevedibile ed evitabile, costituirebbe una violazione degli obblighi dell’Italia in materia di diritti umani”, afferma l’esperta Onu. Secondo Callamard, inoltre, questo “suggerisce che l’Italia, la Commissione Ue e i Paesi dell’Ue considerano il rischio e la realtà delle morti in mare un prezzo da pagare per dissuadere i migranti e rifugiati” dal compiere la traversata dalla Libia all’Italia.
La relatrice Onu, poi, avverte che il finanziamento di 46 milioni di euro dalla Commissione europea alla Libia per appoggiare la sua guardia costiera e le sue operazioni di ricerca e salvataggio possono esporre i migranti e i rifugiati che vengono riportati in Libia a “più violenze abominevoli”. “Alcuni vengono assassinati deliberatamente, altri muoiono in conseguenza di tortura, malnutrizione e negligenza medica”, avverte Callamard, aggiungendo che ci sono informazioni di violazioni del diritto alla vita da parte della guardia costiera libica, secondo le quali gli agenti hanno sparato contro imbarcazioni di migranti o impiegato tecniche di individuazione pericolose.
La relatrice dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani segnala inoltre che il numero di immigrati e rifugiati riportati in Libia pare superi il numero di persone che risultano registrate nei centri di detenzione per immigrati, il che indica che alcuni vengono portati in strutture “non ufficiali e luoghi in cui possono essere privati della libertà e a rischio di gravi abusi, morte compresa”. Callamard ha ammesso che la guardia costiera libica ha bisogno di migliorare il suo lavoro, ma questo appoggio da parte dell’Ue “non si può fornire senza garanzie dimostrabili che i diritti dei migranti intercettati vengano rispettati e che i migranti stessi vengano protetti da violazioni e abusi da parte di agenti statali, milizie armate e trafficanti”, conclude l’esperta, che ha chiesto chiarimenti a Ue, Italia e Libia su tutte queste questioni.
La Stampa
Ong nel mirino per sporcare tutto
Luigi Manconi
(1 agosto 2017)
La controversia tra le ONG e il governo italiano intorno al codice di regolamentazione dell’attività di
salvataggio in mare è questione di grande importanza. Guai a pensare che in discussione sia la maggiore o minore severità dei controlli e la tassatività delle regole di ingaggio o la trasparenza di questo o quel finanziamento.
Fosse così, col buonsenso di tutti i soggetti, le contraddizioni si risolverebbero in breve. Ma non è affatto così: e il motivo è che la posta in gioco è rappresentata dalla stessa categoria di salvataggio.
Per questa ragione, il rifiuto da parte di un’organizzazione autorevole come Medici senza frontiere (premio Nobel per la Pace nel 1999) di sottoscrivere quel codice elaborato dal governo italiano, è un fatto estremamente serio. E male farebbe una persona esperta come il ministro dell’interno Minniti a sottovalutarlo.
Ma come si è arrivati a questo esito?
Nei primi mesi del 2017, Frontex – agenzia europea della guardia di frontiera – solleva alcuni dubbi sull’operato delle organizzazioni non governative che partecipano all’attività di soccorso nel mare Mediterraneo. Si accende, così, una polemica sulle presunte relazioni tra le stesse Ong e le strutture criminali che gestiscono il traffico di migranti; e sui finanziamenti che alcune di quelle Ong riceverebbero da sostenitori sospetti perché interessati a «destabilizzare il quadro economico del nostro Paese».
Come affermato dal capo della Procura di Catania, Carmelo Zuccaro. La Commissione Difesa del Senato decide, in base a ciò, di avviare un’indagine conoscitiva, conclusa da un documento che deve riconoscere come tutte le accuse nei confronti delle Ong non reggano alla verifica dei fatti.
In quella sede, i più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, escludono che siano mai emerse prove di rapporti tra Ong e trafficanti, sottolineando la piena collaborazione in quel tratto di mare tra organismi di coordinamento, imbarcazioni statuali e navi delle associazioni umanitarie. Anche la magistratura siciliana, nel corso delle audizioni, riconosce la sostanziale correttezza delle Ong.
Il procuratore capo di Catania, Zuccaro, sostiene di non disporre di «alcun fondamento probatorio» che suffraghi le proprie ipotesi accusatorie. E tuttavia, nonostante la fermezza della Guardia costiera nel ribadire di avere il pieno controllo di quanto avviene nelle operazioni SAR (Search And Rescue), le conclusioni della Commissione Difesa insistono sulla necessità di un «coordinamento permanente» per razionalizzare «l’attività disordinata» in quel tratto di mare, che sarebbe dovuta alla presenza delle ONG. Se ne conclude che sarebbe necessaria «una contestuale riduzione delle relative imbarcazioni nell’area».
Va detto che, nel corso di questa polemica, sono emersi umori assai pericolosi. In primo luogo, quella velenosa tendenza a «sporcare tutto», che è tanto più irresistibile quanto più il bersaglio del fango da gettare appare lindo, immune da brutture, privo di zone grigie e di ombre sospette. È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito (un muro, un’immagine, una reputazione), a degradare tutto e tutti al livello più basso, a omologare nell’infamia, a confondere nel disgusto universale. Se tutto è miserabile, la mia miseria risulta in qualche misura riscattata o, comunque, attenuata.
Ma c’è anche dell’altro. In quei meccanismi di degradazione, risultano sfigurate, e comunque intaccate, anche quelle categorie che potevano considerarsi intangibili. Indurre a sospettare che il bene possibile, rappresentato da un’attività umanitaria, possa rivelarsi un male contagioso – i soccorritori alleati ai carnefici – contribuisce potentemente a ridurre in macerie principi fondamentali. Le insinuazioni, e la diffidenza che ne consegue, non solo sfregiano le Ong e ne deturpano il prestigio, ma ottengono l’effetto di erodere i valori cui si ispirano. La violenta polemica, pur conclusasi con un pugno di mosche, ma con una persistente ombra di diffidenza da cui nasce anche questa proposta di codice di regolamentazione, mette in discussione quelle categorie di soccorso, salvataggio e aiuto umanitario che rappresentano il fondamento stesso dell’identità umana. Soccorso e salvataggio, infatti, costituiscono il cuore della vita nel momento essenziale in cui quella stessa vita è messa a repentaglio.
Gli uomini riconoscono di essere uniti da una obbligazione etica e sociale quando – innanzitutto quando – è dal rapporto di reciprocità che dipende la loro sopravvivenza. E il fatto che si evochi, in occasione dei salvataggi nel Mediterraneo, la cosiddetta legge del mare sottolinea l’ineludibilità di quel rapporto perché lo colloca geograficamente laddove lo spazio sembra raggiungere la sua assolutezza: il mare, appunto.
È questo che può spiegare i connotati perenni e imprescindibili di quell’obbligo-diritto-dovere al soccorso e al salvataggio come valore irrinunciabile. Non una vocazione utopica né una tentazione profetica nell’affermare tutto ciò. Piuttosto l’esatto contrario: la volontà umile e ostinata di ritrovare– nel fondamento materiale di una mutua necessità – il senso della qualità umana.
Il manifesto