GIULIANA, NESSUNO ESCLUSO
GIULIANA, NESSUNO ESCLUSO
Il bambino handicappato o povero o nomade o straniero messo al centro della classe è tra le più alte offerte formative che una scuola può dare, ed è il simbolo e la caparra di una società non selettiva e di un mondo senza scarti né esuberi in cui avere asilo non sia un privilegio di pochi
Raniero La Valle
Il testo che segue è tratto da un capitolo intitolato “Giuliana, nessuno escluso” di un libro del 2003, “Prima che l’amore finisca”, di Raniero La Valle, utile per comprendere da quali vicende si giunge all’attuale società della selezione e degli scarti, a cominciare dalla selezione scolastica oggi reintrodotta in Italia.
Una storia da raccontare è quella di Giuliana. Essa ci riporta ai tempi delle grandi lotte che si fecero nella scuola italiana, dopo il ’68, per l’integrazione nelle classi comuni dei bambini handicappati (o disabili, come ora si preferisce dire; ma a me pare che proprio questa sia la parola che fa loro più torto). Fino ad allora, i bambini in questione erano stati tenuti nascosti, o separati in istituti speciali e in classi differenziali. L’idea era che la loro presenza nella comunità scolastica dei sani, avrebbe rallentato e addirittura limitato o impedito l’apprendimento di tutti gli scolari, e soprattutto i più bravi (le “eccellenze” tanto care alle scuole dei ricchi) ne sarebbero stati danneggiati. Tuttavia la scuola e la società stessa non erano allora così competitive e selettive come ora le si vogliono, per cui questo argomento poteva essere combattuto, e denunciato come un pregiudizio; tanto più se alle classi che integravano i bambini handicappati si fossero forniti insegnanti di sostegno, proprio quelli che oggi, nel nuovo clima, vengono inesorabilmente tagliati.
In ogni caso la battaglia non era affatto facile; e all’estero ancora meno che in Italia; sicché quando in Italia la sperimentazione era ormai avviata con successo, nel resto d’Europa ancora si pensava che fosse una pazzia; e i maestri e le maestre che in Italia ne erano stati i pionieri, andavano dappertutto a sostenerne le ragioni; in Francia, dove si tennero i convegni più appassionati e combattuti, i colleghi d’oltralpe accusavano i novatori italiani di fare un’ “integrazione selvaggia” e di abbassare il livello di tutta la scuola; finché l’integrazione prese piede anche là.
Tra questi italiani, c’era anche una maestra, Agata, che sarebbe poi divenuta la moglie dei miei anni più tardi e compagna dell’ultimo tratto del cammino; e a lei devo la storia di Giuliana, una storia di cui molte volte si è parlato, come di un paradigma, in alcuni di quei convegni di pedagoghi e di insegnanti.
Giuliana era una bambina molto malata. Quando è arrivata in classe non proferiva nessuna parola. Stava in carrozzella, aveva la testa tutta piegata all’indietro, sbavava, gli altri bambini d’istinto la considerarono estranea. E così avrebbe potuto restare, se le esperienze già compiute nella pratica e nella cultura dell’integrazione non avessero fatto capire alla maestra qual è il segreto, qual è la mossa necessaria, da cui tutto il resto dipende: e il segreto è che o il bambino handicappato sta al centro – al centro della classe, al centro dell’attenzione, al centro dell’apprendimento – oppure non sta da nessuna parte; o lo metti in mezzo o te lo dimentichi.
Era già avvenuto con altri bambini; con Luigi, per esempio, il primo bambino handicappato accolto nella scuola romana di San Basilio. Luigi, quando era arrivato in prima elementare, parlava in modo tale che nessuno capiva quello che diceva. Entrava in classe, per venti minuti pronunziava velocemente le sue incomprensibili parole, e poi scappava. Erano parole che gettavano scompiglio nella classe; ma lui le diceva tranquillamente, perché erano le sue parole. Allora si era cominciato a prenderle sul serio, quelle parole, invece di provare subito a sostituirle con quelle giuste; gli altri bambini cercavano di coglierle, così com’erano, cercavano di trovarvi un senso, di trascriverle sulla lavagna; forse era più facile per loro, perché loro stessi da poco avevano cominciato a parlare, e avevano memoria di quei suoni inarticolati. Così attraverso quelle parole, cercando di raggiungere Luigi dove lui si trovava, i bambini e l’insegnante stabilirono un rapporto con lui, e piano piano Luigi si trovò al centro della classe, e quello divenne il modo di apprendimento non solo suo, ma della classe intera.
E non si lavorò solo sulle parole, ma anche sui segni, sugli scarabocchi che Luigi faceva. Mentre i quaderni degli altri bambini già si riempivano di disegni, di parole, di frasi, di pensieri, di storie, su quello di Luigi compariva sempre un rombo nero, che ripetendosi si arricchiva di segni sempre nuovi, però altrettanto indecifrabili. E quella era la sua scrittura. Che significato aveva tutto ciò? Forse che il bambino non aveva pensieri? O non poteva scriverli? Non aveva una sua percezione del mondo? O non era vero quanto ci ha detto Heinz Von Foerster, che prima del linguaggio, che serve a denotare le cose e a parlarne con gli altri, c’è la rappresentazione mentale delle cose? E che è proprio quella rappresentazione che poi diventa linguaggio?[1] Dunque per far emergere il linguaggio bisogna prendere sul serio quelle rappresentazioni. Luigi aveva le sue rappresentazioni. E infatti, nella gara a cui tutti partecipavano per decifrare la sua scrittura, un po’ per volta vennero fuori le parole che vi erano imprigionate e Luigi cominciò a scriverle, e anche le sue parole parlate vennero sdoganate dai suoni in cui a lungo erano rimaste nascoste. C’erano voluti due anni, e la scuola era a tempo pieno.
Ma con Giuliana era più difficile, perché non parlava. E se le si parlava, lei non rispondeva. Ma le si parlava, anzi ogni mattina la prima mezz’ora di scuola consisteva nel parlare “con” Giuliana. Lei non raccontava niente di sé, ma gli altri bambini raccontavano di loro, e delle cose che riguardavano anche lei: “Ieri ti ho visto con tua nonna, stavi al negozio di alimentari…”; “Tua nonna ha comprato le castagne, ha comprato le lenticchie”. Giuliana non rispondeva, ma sapeva che era vero; dopo alcuni mesi ha cominciato ad alzare la testa, a controllare i muscoli della bocca così che non sbavava più, e lei poteva mostrare il suo viso. Poi ha cominciato a dire alcune informi parole, che la maestra e i bambini capivano. Erano solo poche parole, si contavano sulle dita di una mano, ma intanto con quelle faceva un ottimo lavoro, e riusciva a dire molte cose, per il fatto che gli altri, dal contesto, dalla situazione, dall’espressione del viso, riuscivano a riconoscerle. Al secondo anno, dopo le vacanze di Pasqua, non tornò. Era morta. Un bambino, deluso, disse: “Abbiamo fatto tanta fatica, per un anno e mezzo, e poi è morta!”, come a dire che forse non ne era valsa la pena. Ma un altro bambino, Andrea, disse: “A maé (in romanesco), ma così almeno noi l’abbiamo conosciuta!”. Giuliana non aveva vissuto invano, perché erano riusciti a conoscerla; e questo rimaneva di lei.
Questo apologo racchiude appunto “il segreto”. Ciò che è minimo, che è povero, che non ha neanche le parole, che è pronto ad essere scartato perché gli altri si affermino, anche se è accettato, perché i diritti sono universali, ma è messo da un canto, si perde. Al contrario va messo al centro di tutto, va “conosciuto”, perché tutti si salvino. È un buon segreto per questa fine della modernità.
Se non sta al centro, anche Dio si perde
Fa capire per esempio, perché è fallita la formula della modernità, né credente né atea, incapace di prendere sul serio Dio ma anche di fare un mondo alla misura dell’uomo. Quella formula che Grozio e Pufendorf avevano coniato dicendo: “facciamo come se Dio non ci fosse”, non ha funzionato perché non ha fondato una vera laicità, ha solo sostituito Dio con una copia, ha fatto della storia dell’Occidente una sorta di storia profana della Chiesa, ha costruito concetti ed istituzioni politiche come concetti teologici dissimulati e istituzioni divine secolarizzate operandone, come dice Ivan Illich, una “pessima corruzione”: corruptio optimi pessima. Insomma, ha perduto Dio e non ha trovato il mondo. Ha pensato che, senza togliere di mezzo Dio, lo potesse mettere più in là, metterne a tacere la sofferenza messianica (“il dramma di Dio, infelice per la nostra sorte”, come ha scritto Turoldo) e lasciarlo sopravvivere, se ci riusciva, senza nuocere ma ancora utile all’occorrenza.
Questo compromesso non ha funzionato, perché se Dio non sta al centro, non sta da nessuna parte; e se Dio non sta nel punto cruciale in cui è giudicato e svuotato ogni potere e sono innalzati gli umili, allora non può neanche fornire alla società una morale, assicurarne il buoncostume e prestare un’anima all’Europa e all’Occidente.
Si può, naturalmente, fare la scelta di uscire dal compromesso dal lato della negazione, chiudendo infine i conti con Dio; e almeno Bush non lo potrebbe invocare per santificare le sue guerre, e non ci sarebbe una teocrazia americana, e nessun’altra teocrazia. O al contrario se ne può uscire mettendolo al centro, che non vuol dire metterlo nel luogo del potere, o sul pinnacolo del tempio, ma nel luogo in cui si decide della propria vita, e insieme si decide della sorte dei poveri, dei piagati, e si decide della sopravvivenza del mondo. Il Dio della parola inerme ma svelata, tirata fuori dal nascondiglio dei suoni fuorvianti in cui è stata irretita, un Dio inquietante, che non sbava. Chissà per quale misteriosa intuizione proprio Luigi, l’ultimo tra tutti, quando una volta la classe mise in scena la rappresentazione del Natale, si andò a mettere nella mangiatoia, al posto del bambino Gesù.
Se non li mettiamo al centro, anche noi ci perdiamo
Sul versante della storia politica e laica del mondo mettere al centro i non ammessi, i non cooptati, gli iscritti nella lista degli “altri”, i popoli esclusi, è il solo modo per vederli, per conoscerli, è l’antidoto alla distruzione, è la mossa necessaria perché il mondo continui.
Nel documento del settembre 2002 in cui è formulata la nuova dottrina della sicurezza strategica degli Stati Uniti, risuona invece un messaggio apocalittico: la scure è posta alla radice dell’albero, c’è un solo modello per popoli, regimi e Stati degni di vivere, ed è “libertà, democrazia e libera impresa”, c’è una sola ricetta per il mondo che va in pezzi, ed è “libero commercio e libero mercato”, c’è una sola potenza che non permetterà a nessuno di superarla o di esserle eguale, e sono gli Stati Uniti, c’è un solo modo per neutralizzare i nemici, ed è debellarli prima che nuocciano, c’è una sola politica ed è la guerra come governo del mondo, e c’è una sola sicurezza ed è quella espressa con una formula quanto mai allarmante: “la migliore difesa è una buona offesa”.
Non è solo un documento, è un evento; infatti esso opera un rovesciamento proprio in ciò che sta all’origine del cristianesimo ed ha permesso il suo inserimento nella storia, gli ha fatto generare l’Occidente ed ha influito su tutto il corso delle cose. È il rovesciamento del messaggio antiapocalittico di Gesù che, separandosi dal radicalismo punitivo di Giovanni il Battista e dall’apocalittica giudaica dei due mondi, aveva detto: lasciate che il grano e la zizzania crescano insieme, non tocca a voi estirpare l’erba cattiva. Il rovesciamento sta in ciò, che la nuova America di Bush pensa che si possa estirpare il male, e rivendica a sé – anche da sola – la missione di farlo.
E perfino nell’uso delle parole e delle immagini, che riprendono e ribaltano le parole antiche, quel documento della leadership americana mostra che proprio di questo si tratta: introduce infatti formalmente una nuova categoria di Stati – gli “Stati canaglia” – che non è una categoria politica o una categoria giuridica, anzi non è per nulla una categoria, perché non è dato nessun criterio per dire quale Stato sia una canaglia, fino a quando non sia dichiarato come tale dalla Casa Bianca. Non è una categoria di Stati, ma è una figura della fine.
La parola che si usa, per dire “Stati canaglia”, è infatti rogue States; ma rogue è l’erba malnata, sono le piante devianti dal loro standard normale, è la gramigna da togliere; è appunto la zizzania della parabola evangelica, che nel campo non si può distinguere dal grano, e ne dovrà essere separata solo alla mietitura, che, spiega Gesù, “rappresenta la fine del mondo” (Mat., 13, 39). Questo era detto da lui per rispondere alla domanda cosa fosse il “regno di Dio”: esso sta prima della fine, e consiste nel fatto che la zizzania non sia tolta, non per indulgenza alla zizzania, ma per amore del grano, che esso stesso non è poi così distinguibile e così puro. Farsi invece giudici tra il grano e la zizzania e pretendere di toglierla ora, vuol dire stabilire il proprio regno e pensare già nella situazione della fine.
…
Certo non tutta l’America è così. C’è un’altra America che amiamo e che oggi si tiene nascosta. L’America di un altro futuro. Ma quella che si esprime nel nuovo pensiero politico elaborato dopo la rimozione del muro di Berlino è un’America che vede solo se stessa e vede il mondo come suo giardino; mentre ciò che sta fuori del giardino, o che nel giardino non dà i frutti voluti, è destinato alla falce, alle ruspe o all’abbandono.
Dunque per un’altra via si torna al disegno complessivo di un mondo diviso, di una Grande Selezione, attuata in più modi, per mano di eserciti, di mercati, di potentati finanziari o di organizzazioni economiche internazionali. Qualcuno dice che questo non è vero, che invece si sta affermando la logica di un Impero buono, senza centro e senza periferia, che coincidendo ormai con il pianeta, tenderebbe a includere tutti in una vera e propria integrazione universalistica, sotto l’egemonia degli Stati Uniti come “potenza ordinatrice”[2]. In realtà il sistema imperiale globale è nello stesso tempo inclusivo ed escludente, con la novità, rispetto ai grandi Imperi del passato, che l’esclusione non cade all’esterno, ma discrimina ed espelle all’interno dello stesso universo territorialmente incluso.
Per l’Europa, che pure è stata partecipe finora di questa governance del mondo, è una tragedia. Perché esplode la contraddizione tra i valori che proclama e la politica a cui è associata, e che un giorno potrebbe ritorcersi anche contro di lei ….
Ma non solo l’Europa; per tutto l’Occidente è una catastrofe morale. Perché gli si apre una contraddizione tra i diritti che è giunto, benché assai di recente, ad affermare, e la “realtà effettuale” che ne esclude la realizzazione per tutti. Dopo secoli in cui ha praticato e anche teorizzato la diseguaglianza tra gli uomini (da Aristotile a Hegel a Croce a Gobineau) e in cui il suo universalismo non giungeva a comprendere il negro, l’indio, l’ebreo, i “popoli della natura”, l’Occidente aveva alfine affermato l’eguaglianza di tutti gli esseri umani e di tutte le nazioni “grandi e piccole”, ed era arrivato a dire, nella Dichiarazione universale dei diritti umani (perciò accusata di occidentalismo) che o i diritti dell’uomo, “uguali e inalienabili”, sono riconosciuti e protetti dagli ordinamenti e dalle leggi, oppure l’uomo è “costretto”, e perciò legittimato, alla ribellione. Mezzo secolo dopo, all’età della globalizzazione, l’Occidente presiede, presidia e governa un mondo in cui il vaglio della selezione, la spada della divisione cade precisamente sul crinale dei diritti, tra chi ne può godere e chi no, tra coloro a cui sono incrementati e coloro a cui sono tolti, tra gli eletti e gli esclusi, sia dentro che fuori i propri confini e i propri litorali. E se gli uni sono “costretti” alla ribellione (e perfino al terrorismo), gli altri sono “costretti” a difendersi. La guerra è lo strumento necessario per mantenere quest’ordine, per amministrare questa disperazione; una guerra che è ormai guerra civile mondiale.
L’umano è di tutti
Questo è il dramma dell’Occidente. Stabilire che l’eguaglianza è impossibile, che il mondo non è più uno e la sua pace non è più indivisibile, come si voleva facendo l’ONU, ma che esso è spaccato e l’uno all’altro nemico. Non c’è più l’unità del mondo, altro che l’“uomo planetario” sognato da padre Balducci!
Ma dietro la sua forza apparente (e quella militare è invincibile) l’Occidente sente la sua debolezza, stretto dal dilemma che gli è posto dai suoi stessi valori; e il dilemma è che o si crede alla comunità internazionale, all’ONU, all’eguaglianza e ai diritti umani, e si rinunzia a salvare solo se stessi, oppure si difendono a tutti i costi i propri privilegi, si allarga la forbice tra la soddisfazione dei pochi e i bisogni dei più, e allora si entra in conflitto non con alcuni Stati canaglia ma col mondo, e con il meglio della propria stessa identità.
Se si riconosce questo dilemma, diventa esplicito che l’alternativa è tra l’unità e la scissione del mondo, tra una società di eguaglianza tra tutti gli esseri umani e una società di selezione e di discriminazione, anche se la lista degli eletti e dei respinti è tenuta dalla Mano Invisibile del Mercato, e che la guerra è una guerra di secessione dal mondo. Non si tratta solo di sfruttamento e di dominio, come nelle vecchie guerre; la vera questione è quella della rottura, sovranamente decisa, della stessa unità umana.
Su questa divisione il mondo è perduto. Perciò non bastano piccoli rimedi, e neanche i piccoli aggiustamenti della politica consueta. Occorre una grande operazione culturale e antropologica, e perciò istituzionale e politica, simile a quella fatta da Paolo di Tarso all’inizio della nostra era dinanzi alla crisi del popolo ebreo e a quella, che già si annunziava, di tutto il mondo antico. Per gli ebrei, e perciò per Paolo, l’umanità si divideva in ebrei e gentili, ma accanto a questa divisione c’era anche la divisione tra cives e non cives (cittadini e non cittadini), tra romani e barbari, tra liberi e schiavi. Tutti i primi termini di queste coppie di opposti erano i beneficiari di una elezione, erano pars sancta, eletti non a causa delle loro opere ma per nascita: si nasce giudei, si nasce cives, si nasce liberi. Il mondo è scisso, è frantumato fin dalla sua radice.
Paolo si pone questo compito enorme, di rompere la elezione, di estenderla a tutti. Certo, secondo la legge, le sorti sono fissate, ma Paolo dice: Meno male che non c’è solo la legge, perché solo con la legge (che giudica ma non giustifica), solo col nomos (che fonda la schiavitù e il signore) solo con la lex (che divide tra romani e barbari) per quelli che sono fuori non c’è salvezza. Ma per fortuna c’è un’altra cosa, che Paolo identifica nella fede, cioè c’è un altro ordine rispetto a quello della legge e delle sue opere, un ordine che include, che riconosce, che fonda l’unità tra tutti, un altro ordine che non è il semplice sviluppo del mondo dato, che non è una semplice glossa, sia pure migliorativa, della pagina già edita, ma è un’altra pagina, contiene una novità, apre ad un mondo altro, ad un altro possibile mondo, nel quale tutti i popoli e anche tutto Israele (pás Israel) sono chiamati ad entrare. È questa la cifra del tempo messianico, che già ha fatto irruzione nella storia: non ci sono scarti, non ci sono esuberi, non ci sono deboli, malriusciti e nemmeno peccatori e incirconcisi che siano esclusi dall’elezione, perché tutti sono conosciuti da Dio, tutti predestinati, tutti chiamati, tutti giustificati, tutti glorificati (Rom., 8, 28 seg.). Perciò Paolo scrive ai romani: senza essere circoncisi, voi siete eletti. Ma ciò voleva anche dire: senza accettare la legge dell’Impero, si è cives romani, si è cittadini del mondo, tutti sono una cosa sola, romani e greci, barbari e sciti, ebrei e gentili, uomini e donne, servi e signori.
Questo afferma Paolo, e per questo Nietzsche (il filosofo che, come dice J. B. Metz, “oggi si respira nell’aria”) non lo può soffrire, perché questa pretesa di eguaglianza scuote dalle fondamenta la società della selezione e secondo lui sarebbe stata all’origine della décadence, della caduta dalla potenza alla debolezza in cui sarebbe incorsa la società occidentale: “Il veleno della dottrina dei diritti eguali per tutti è stato diffuso dal cristianesimo nel modo più sistematico”, scrive Nietzsche nell’Anticristo, e nei Frammenti postumi spiega che l’eguaglianza porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza e ad una generale plebeizzazione; a sopprimere “la selezione” e a rovinare la specie.
…
Ma oggi questa antropologia è venuta alla luce, è stata assunta dal diritto e sta scritta nei grandi testi normativi del Novecento, dalla Carta dell’ONU alla grande codificazione del diritto internazionale e costituzionale postbellico. Contro la sua realizzazione politica si erge ora il pensiero apocalittico con i suoi fantasmi della fine, “fine della storia”, “scontro di civiltà”, “Stati zizzania”, la guerra per gli ultimi pozzi di petrolio, il muro di Israele per tenere fuori il male e la giustizia infinita di Bush per estirparlo, il free trade, comprare e vendere, come inarrestabile attività e unica risorsa disponibile sul Titanic che affonda.
Per resistere a questa deriva apocalittica, l’antidoto è stabilire il primato dei beni messianici: la giustizia e il diritto sulla terra, la pace che abita nel giardino, nessuno che turbi chi “siederà sotto la sua vite e sotto il suo fico”; la venuta del giorno in cui i popoli “trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci, disimpareranno a fare la guerra”, e le nazioni a camminare insieme, e “ogni popolo a camminare nel nome del suo dio”, come dice Michea; e dunque l’unità dei popoli nel pluralismo delle culture e delle fedi, e gli ultimi, i poveri, i curvati, come Giuliana, messi al centro di tutto.
Ciò comporta … un messianismo senza catastrofe, quella catastrofe che la politica, la grande politica, è chiamata a scongiurare; il messianismo di una vita vissuta non nel differimento, ma nell’anticipazione dei beni sperati, di cui è nostra responsabilità promuovere la realizzazione anche politica.
E se il massimo di tali beni è la ricomposizione dell’unità della famiglia umana, la rivoluzione politica comporta molte cose: la rifondazione degli istituti che la realizzino, la rimozione delle cause che impediscono di fatto l’eguaglianza, l’abolizione o la trasformazione delle strutture che costringono all’inimicizia, come sono tutte quelle che hanno il loro modello nel conflitto: il paradigma economico della concorrenza selvaggia, i sistemi politici seccamente bipolari e maggioritari, lo spoils system, chi vince vince tutto, chi perde perde tutto, le nomenclature uscite dalle urne padrone della società e dello Stato. Se la cultura della inclusione, dell’accoglienza, dell’eguaglianza, della universale dignità e unità umana prevale, e se questa cultura trova le vie della sua traduzione istituzionale e politica, allora l’Impero, e il Mercato, non possono discriminare nessuno, e la guerra per la società degli eletti non si può fare.
Raniero La Valle
[1] Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld, Come ci si si inventa, Odradek, Roma, 2001, pp. 164-165.
[2] Michael Hardt, Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002, pp. 55 seg.