GIUSEPPE ALBERIGO: NON “RIFORMA” MA FORME SEMPRE NUOVE DELLA CHIESA
Giuseppe Alberigo: non “riforma” ma forme sempre nuove della Chiesa Il contributo del primo grande storico del Concilio Vaticano II all’attuale rinnovamento ecclesiale nella memoria fattane a Bologna a dieci anni dalla scomparsa
Giuseppe Ruggieri
Far memoria di Pino Alberigo, a 10 anni dalla sua morte (avvenuta il 15 giugno 2007), non può essere inteso alla stregua di una ricostruzione della sua vita e della sua opera volta a fissare il senso della sua figura nel passato. Per far questo basterebbe rimandare al prezioso profilo tracciato da Giovanni Miccoli per il Dizionario biografico degli Italiani.
E invece, solo a rileggere il bilancio conclusivo che egli scrisse alla fine del V volume della Storia del Concilio Vaticano II (2001), veniamo prepotentemente ricacciati nel presente. Giacché nel percorrere le sue pagine dedicate a descrivere “la portata e il significato del Vaticano II”, troviamo in realtà la descrizione di un evento ancora in atto, in quanto le opzioni e le linee portanti di quell’evento, nella lettura che ne fa Alberigo, sono ancora quelle di oggi: la sovranità del vangelo rispetto alle sue formulazioni, la fine dell’egemonia dottrinale, la lezione sempre nuova dei segni tempi, la riscoperta delle dimensioni effettive della vita cristiana, attraverso “un rovesciamento delle priorità, consistente nell’abbandono del riferimento alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro autorità e alla loro efficienza come il centro e il metro della fede della chiesa” (p. 616).
Se quindi vogliamo fare memoria di Pino Alberigo occorre che ci collochiamo spiritualmente dentro quel processo storico per il quale egli, da parte sua e con tutte le sue forze, collocò se stesso in una “spendita estrema” di tutta la sua esistenza.[1] Si tratta, va sottolineato, di un processo non ancora concluso. Voglio dire il rinnovamento della compagine ecclesiale che prende il suo avvio ufficiale con l’annuncio di un concilio ad opera di Giovanni XXIII, il 25 gennaio del 1959. E in questa collocazione spirituale occorre che al tempo stesso noi ravvisiamo i vari fattori che diedero vita a quel processo di rinnovamento e che ancora oggi ne costituiscono le arterie pulsanti: anzitutto la riscoperta del vangelo, come “sostanza viva” (papa Roncalli) che nutre la vita cristiana attraverso e al di là di ogni sua formulazione dottrinale o applicazione disciplinare; quindi la passione di uomini e donne che soffrirono a lungo per la rigidità di una restaurazione che si trascinava da più di un secolo; poi ancora la riscoperta delle correnti calde che attraverso la scrittura avevano alimentato il pensiero cristiano prima delle controversie confessionali o le polemiche dell’antimoderno; e, accanto a tutto questo, la funzione delle ricerche storico critiche che avevano permesso, a tante figure di credenti, la presa di distanza dalle strettoie concettuali dentro cui veniva umiliata la libertà dei cristiani.
Il processo che ha radici così lontane ed esplode in quel 25 gennaio 1959, lo ricordo di nuovo, non è ancora concluso, come sappiamo dalla cronaca di questi anni più vicini a noi. Dopo l’“inverno” predetto da Karl Rahner, con l’elezione di papa Francesco, una nuova primavera permette a quanti hanno sofferto dentro le stanze ad aria condizionata della stagione invernale, di aprire porte e finestre della loro abitazione spirituale e di riassaporare il gusto di una “chiesa in uscita”. Ma non mancano turbolenze: dal tentativo d’impeachement sottoscritto da 4 cardinali nel quale, in una patetica reminiscenza di antiche pratiche medievali si agita lo spauracchio di un papa a fide devius, fino ai vari tentativi, dettati semplicemente da pigrizia spirituale, di richiudere le porte e le finestre per impedire alla corrente pura della gioia del vangelo di sostituire l’aria viziata. La lezione di Pino Alberigo va colta allora tutta all’interno di questa che egli chiamava “transizione epocale” e che continua ad essere tale.
- Il progetto di vita
All’inizio del suo cammino ci fu un incontro determinante, quello con Giuseppe Dossetti. C’era già stato, a partire dal 1946, l’entusiasmo per il leader cattolico, conosciuto a un convegno ad Assisi, che sembrava aprire orizzonti innovatori nel clima della ricostruzione morale e culturale, prima ancora che politica, del secondo dopoguerra. Ma poi, proprio nella fase in cui Dossetti stava ripensando il suo impegno politico, ci fu la conoscenza più ravvicinata in una serie d’incontri, a Milano e Rossena, tra il 1951 e il 1953. Dossetti in questi incontri non soltanto sviluppava e precisava progressivamente la sua analisi della situazione politica, spirituale, ecclesiale, ma proponeva altresì un suo progetto esistenziale e totalitario. L’analisi era quella della catastroficità della situazione storica e della criticità della situazione ecclesiale. Il progetto, se aveva il suo centro materiale in un programma di ricerca e di studi, era nondimeno e con eguale intensità una scelta religiosa e morale, un indirizzo che tendenzialmente era di tutta la vita. Nel giugno del 1953 infine, da parte di Dossetti si ebbe l’invito formale ai coniugi Pino e Angelina Alberigo, di venire a Bologna per far parte attiva di questo progetto che, sul finire dello stesso anno, venne definito in questi termini:
“Una comunità di ricerca, che pur mantenendosi nei limiti propri dell’impegno di ricerca, senza contaminazioni attivistiche (e tanto meno politicistiche),
tuttavia sappia essere aperta agli impulsi della vita ecclesiale correlata attivamente e passivamente alla presente congiuntura
e soprattutto alle urgenze più gravi e universali e più insoddisfatte dell’umanità cristiana del nostro tempo;
[che] continuamente si ricordi di verificare e la propria esistenza e il proprio fine, e il proprio metodo, alla stregua di quelle esigenze,
specialmente di quanti, fra gli esclusi del vigente ordine sociale, più soffrono, consapevolmente o non, la passione e il desiderio di una ostensio spiritus et virtutis nella Chiesa, ossia sitiunt ecclesiam”.[2]
In Alberigo, a differenza dello stesso Dossetti e di altri membri di quel gruppo che ben presto maturarono un orientamento decisamente monastico della comunità, fino ad arrivare alla separazione, quella formula, in tutta la sua complessità (ricerca a tempo pieno per un verso e correlazione alla vita ecclesiale per altro verso, nel contesto delle esigenze universali dell’umanità cristiana, nonché riferimento agli esclusi), traduceva un progetto che era recepito, proprio nei termini dossettiani, come progetto “di vita”, e sarà vigorosamente fatto valere in tutte le crisi, da quella iniziale con lo stesso Dossetti fino alle successive. L’ammirazione e l’affetto per Dossetti, senza mai cessare, non si tradusse cioè in una adesione totale al suo cammino, ma fu sempre subordinata a quel progetto, nei termini in cui lo stesso Dossetti lo aveva formulato. Ma fu proprio la fedeltà a quel progetto che permise poi, soprattutto durante il concilio e nelle sue immediate vicinanze, la ripresa del lavoro comune, con un “ritorno” operativo del monastero dentro le mura dell’Istituto di via San Vitale.
Può sembrare un paradosso: è possibile coniugare ricerca rigorosa, indipendente da pregiudizi estranei alle esigenze di una ricerca in quanto tale, con l’attenzione cordiale alla vita ecclesiale autentica, vista come desiderio ultimo, ancorché inconsapevole, degli esclusi della terra? Comunque si voglia giudicare il paradosso, un fatto è certo: la vicenda umana di Pino Alberigo sta tutta dentro il campo di forze richiamate in quel progetto, giacché in lui si trattò di forze effettivamente operanti nell’equilibrio della loro vicendevole attrazione e tensione dialettica.
- L’orizzonte della ricerca: ecclesia semper reformanda
In un suo saggio su Jedin, Alberigo, sottolineando la centralità che aveva occupato nella produzione dello storico tedesco il tema della riforma, formulava l’ipotesi che si trattasse non solo di un nodo cruciale della storiografia jediniana, ma anche del “punto più alto e definitivo del suo apporto alla costruzione della storia della chiesa come disciplina storica sempre più rigorosamente critica e anche autonoma”. E fu la scelta di questo orizzonte ermeneutico preciso, quello della riforma della chiesa, che ispirò sempre Alberigo nell’individuazione dei propri oggetti di ricerca.
Già fin dall’inizio del suo lavoro, l’attenzione al Cinquecento e ai variegati tentativi di riforma della chiesa attorno alla riforma tridentina andava in questa direzione. Il frutto più cospicuo di quella ricerca fu “I vescovi italiani al concilio di Trento (1545-1547)”. Il risultato principale fu duplice: non solo quello della comprensione dell’evento conciliare nella sua differenza rispetto a quello che poi fu il tridentinismo, ma anche un preciso criterio ermeneutico che avrebbe dato i suoi frutti pieni nelle ricerche sul Vaticano II, e cioè quello della irriducibilità di un concilio alle sue decisioni finali e della necessità quindi della ricostruzione accurata dell’evento per coglierne completamente il senso. Introducendo quel volume, edito per i tipi della Sansoni nel 1959, Cantimori per un verso lo accostava ai metodi della sociologia religiosa inaugurati da Le Bras e per altro verso vi ravvisava quel “quid non propriamente definito che si chiama senso storico”.
Ma un altro aspetto della ricerca vorrei sottolineare e cioè il legame “tra fattori progettuali e apporti esperienziali nella misura in cui gli uni e gli altri si coniugano incessantemente nella realtà”. Significativa in questo senso la comprensione della Riforma protestante, nel volume edito da Garzanti sempre nel 1959, con il rilievo dato all’“esperienza della torre” di Lutero e il ravvisamento di un’analogia con le esperienze di altri personaggi del tempo in primo luogo del cattolico Contarini. Giacché egli era convinto che “esperienze come queste, vissute in purezza d’animo, spesso sono il punto di partenza per un cristianesimo realizzato con impegno personale e con una capacità di intensa fecondità storica.” Lo storico delle istituzioni, come spesso viene qualificato con una certa riduzione Alberigo, mostra qui una sua sensibilità particolare per la biografia, con l’attenzione focalizzata ogni volta sul profilo spirituale dei vari personaggi: attenzione che poi ritroverà un’applicazione forte nell’analisi del nesso tra la biografia di papa Roncalli e la convocazione del Vaticano II.
Riforma, come illustra lo splendido classico di Gerhart Ladner (The Idea of Reform, 1959), di per sé implica sempre una ripresa di antiche forme della vita della chiesa. Per Alberigo tuttavia l’aggiornamento propugnato da papa Roncalli ha ormai modificato il rapporto di ogni riforma col passato: la chiesa è chiamata, in una sostanziale fedeltà al proprio passato, ad assumere non una “forma” consacrata dalla sacralità delle origini, ma forme sempre nuove, in un ascolto dell’appello di Dio nel presente della storia.[3] La produzione storiografica di Alberigo, soprattutto a partire dal Vaticano, II corre sempre lungo questo crinale delicato, nella tensione tra le lezioni del passato e e le urgenze del presente.
Sarà ancora il motivo della riforma il filo conduttore dello Sviluppo della dottrina sui poteri nella chiesa universale (1964), opera anticipata in una sintesi manoscritta distribuita ai vescovi del Vaticano II durante le discussioni sulla collegialità. Uno scritto quindi dove l’impegno pratico si salda con la ricerca storica pura, che disseppelliva, attraverso la rivisitazione critica della trattatistica teologica, capitoli sconosciuti dell’ecclesiologia postridentina. Quello scritto fa ormai parte non solo della produzione personale di Alberigo, ma della stessa storia del Concilio se è vero, come fu esplicitamente dichiarato dall’allora assessore del Sant’Uffizio, che esso determinò un mutamento di orientamento in alcuni rappresentanti della stessa minoranza conciliare. Anche se dobbiamo aggiungere subito che esso diede origine ad un astio curiale che accompagnerà sempre la vita del nostro, dalle sue vicende concorsuali fino al letto del moribondo, con la censura dell’Osservatore Romano all’edizione del primo volume dei Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta.
Più a monte nei secoli, rispetto a Trento e al periodo postridentino, si situa la ricerca su Cardinalato e collegialità. Studi sull’ecclesiologia tra l’XI e il XIV secolo del 1969. Anche qui la scelta dell’oggetto di ricerca era condizionato dal privilegio ad uno dei grossi temi della riforma ecclesiastica, quello della forma collegiale di governo della chiesa. Ad Alberigo la costituzione del collegio cardinalizio in quanto tale, che forma un tutt’uno con il papa ed era da questi inseparabile come il papa era inseparabile dal collegio, rappresentava una forma di supplenza che, nel mutato assetto della chiesa ormai riassunta nel primato personale del vescovo di Roma, manteneva tuttavia in vita, anche se in maniera asfittica, forme più antiche di conduzione della disciplina ecclesiastica.
Diventa quindi quasi una logica necessità l’attenzione che Alberigo dedicherà alle vicende storiche del conciliarismo, dall’anno 1378 fino al concilio di Basilea: Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, 1981. Certamente nella scelta di questo tema pesavano vari fattori: l’attenzione alla tradizione conciliare che accompagna fin dagli inizi l’Istituto di Bologna, attenzione confermata e potenziata dalla celebrazione del Vaticano II; lo splendido I volume della storia del concilio di Trento di Jedin dedicato alla sua preistoria (1951) e, infine, la discussione, allora vivace, sulla portata dottrinale del decreto Haec Sancta.
L’interpretazione di Alberigo evita il dottrinarismo presente in molti protagonisti di questa discussione e si situa piuttosto nella linea tracciata sia da Tierney che da Jedin. Il richiamo alla via concilii di Costanza va infatti interpretato storicamente, come “istanza di emergenza” permanente nella chiesa che, di fronte all’insorgere del problemi più gravi (l’unità nel XV secolo, il rinnovamento della chiesa a Trento, il nuovo rapporto tra chiesa e mondo moderno nel Vaticano II), rinasce sempre di nuovo come misura necessaria.
- I tempi lunghi della storia della chiesa
Chiunque abbia per qualche tempo praticato l’Istituto bolognese, ha senz’altro conosciuto un tratto caratteristico del magistero di Alberigo, che egli cercava di inoculare come un vaccino sotto la pelle dei giovani ricercatori: la sua idiosincrasia, vorrei dire, per quegli studiosi che concentrano per tutta la vita la loro indagine su un periodo soltanto o una problematica esclusiva della vicenda ecclesiale. L’istanza che stava dietro questa idiosincrasia era semplice: lo storico della chiesa non può penetrarne adeguatamente il senso senza conoscerne l’evoluzione in tempi lunghi. Per questo l’interesse degli studiosi dell’Istituto veniva indirizzato verso gli ambiti e gli oggetti più disparati: dall’esegesi critica delle scritture cristiane fino alla contemporaneistica. E lo stesso titolo da lui voluto per la rivista dell’Istituto bolognese rimane come espressione fedele di questo suo intento: Cristianesimo nella storia. Ricerche storiche, esegetiche, teologiche.
In questa sottolineatura dell’importanza dei periodi lunghi mi sembra importante ricordare tre pubblicazioni: lo studio sui Flagellanti e due raccolte di saggi: La chiesa nella storia, uscita presso le edizioni Paideia di Brescia nel 1988, e Nostalgie di unità. Saggi di storia dell’ecumenismo, presso l’editrice Marietti di Genova nel 1999.
Nello studio sui Flagellanti l’esigenza di una considerazione dei tempi lunghi porta il nostro ad allargare considerevolmente la visuale, oltre il secolo XIV e XV. Questo allargamento si impone per la natura religiosa del fenomeno, per cui occorre riformulare i criteri metodologici secondo i quali vanno impostate le ricerche che lo riguardano, per “ridimensionare il problema storico del flagellantismo entro il quadro della storia religiosa della cristianità, e, almeno in parte delle confraternite laicali.” (Il movimento … 161). Superando quindi una prospettiva localistica, eresiologica, letteraria, il fenomeno appariva come il capitolo di una storia più vasta legata all’evoluzione della Chiesa d’Occidente, della sua storia penitenziale, della divisione tra clero e laicato, come tentativo cioè da parte dei cristiani comuni di riappropriarsi dell’esperienza del vangelo.
La Chiesa nella storia raccoglie vari saggi sull’evoluzione della Chiesa d’Occidente dopo il secolo XI. I due capitoli iniziali contengono considerazioni sintetiche sulle variazioni dell’assetto ecclesiale lungo i secoli, dalla divisione tra chierici, laici e monaci, fino alla cristianità medievale, alla chiesa postridentina, alla reviviscenza della consapevolezza laicale, ma anche una considerazione sull’evoluzione delle prassi per l’elezione dei ministri e della formazione del consenso (Questo fu uno dei temi privilegiati della ricerca di Alberigo, come documenta già il quaderno di Concilium da lui curato nel 1972, su “elezione, ricezione e consenso nell’esperienza cristiana”. E questa predilezione è quella che giustifica il colloquio dedicato a lui in questi giorni). I capitoli seguenti si concentrano invece su singoli problemi diacronicamente disposti: il regime sinodale della chiesa romana tra XI e XII secolo, l’egemonia della dimensione istituzionale nella cristianità, l’ecclesiologia tardo medievale, la discussione sui poteri episcopali a Trento, l’ecclesiologia postridentina, il magistero romano nel cattolicesimo contemporaneo, la collegialità alla luce del Vaticano II e la riscoperta attuale delle chiese locali in opposizione all’ecclesiologia universalista che aveva dominato il secondo millennio, inficiando per così dire anche le espressioni più dinamiche e vitali della vita ecclesiale, come quella del conciliarismo del XV secolo.
Non si trattava quindi di una storia continua e completa della chiesa e dell’ecclesiologia nel II millennio, ma una rivisitazione degli eventi maggiori che hanno segnato tale storia mediante la verifica “che queste grandi tappe hanno coinciso con svolte significative della storia generale o, addirittura, ne sono state l’epicentro o, al limite, l’anticipazione. La connessione e interdipendenza tra società occidentale e cristianesimo appare continua e pregnante, imponendo un’attenzione parallela a fenomeni che, pur nella rispettiva autonomia, hanno un alto grado di interdipendenza.”(ivi, 10)
Nemmeno Nostalgie di unità rappresenta una storia completa dei rapporti fra le chiese e delle loro divisioni, ma si propone semplicemente di comprendere cosa sia realmente avvenuto in alcuni momenti cruciali della vicenda cristiana.
Ma anche la raccolta di questi saggi evidenzia una preoccupazione che Alberigo riassume nei termini seguenti. “Le lacerazioni verificatesi in seno al cristianesimo costituiscono momenti rilevanti della storia generale proprio nella misura in cui le grandi divergenze teologiche o disciplinari – magari rarefatte e apparentemente indecifrabili – hanno evidenziato profondi mutamenti culturali e sociali, destinati a coinvolgere insieme all’unità della chiesa la stessa fisionomia di una civiltà.” E quindi l’approccio storico risulta essenziale, continua Alberigo, non solo “in vista di una storiografia globale”, ma anche “come fattore di qualsiasi tentativo di superamento di tale frantumazione” (ivi, 9).
- Il Vaticano II e Giovanni XXIII
La scrittrice ebrea Hannah Arendt pubblicò il 17 giugno 1965, nella prestigiosa The New York Review of Books, una recensione alla traduzione inglese dei diari spirituali de Il giornale dell’anima di Giovanni XXIII, mettendo come titolo: The christian Pope, Il papa cristiano. Era un titolo strano. C’è mai stato qualche papa che non sia stato cristiano? Ma la stranezza rivelava quella che fu l’acutezza della lettura che fece la fine osservatrice che era Hannah Arendt, non solo del Giornale dell’anima, ma altresì del pontificato di papa Roncalli: fu infatti un papa che fece della vita cristiana in quanto tale, soprattutto quella testimoniata dall’Imitazione di Cristo, il contenuto stesso del suo governo pontificale.
Degli studi di Alberigo sul Vaticano II, raccolti in Transizione epocale,[4] il più antico risale al 1970.[5] Si tratta del saggio sulle origini della formula di approvazione che Paolo VI appose ai documenti conciliari. Una cum Patribus. La formula conclusiva delle decisioni del Vaticano II (pp. 271-306). Possiamo così dire che la fatica dello storico sul concilio ultimo non ha soluzioni di continuità rispetto a quella precedente sugli altri concili.
Diversamente stanno le cose per Giovanni XXIII. Come ha documentato Galavotti nel suo studio su Giuseppe Alberigo e l’interpretazione di Giovanni III,[6] dapprima si ha come una ritrosia dello storico, basata su un senso di inadeguatezza. Nelle parole con cui Alberigo esprime questo disagio si apre uno squarcio sulla sua stessa esperienza spirituale. Nel 1966, in una conferenza alla Corsia dei Servi di Milano, egli aveva anticipato la sua interpretazione del magistero roncalliano che avrebbe riassunto 12 anni dopo nel termine “profezia”, ma lo aveva fatto in modo affatto personale, vorrei dire spirituale. Afferma infatti, commentando la famosa conferenza del card. Lercaro su Giovanni XXIII laddove si parlava della “coscienza” del neoeletto (“Giovanni all’atto della sua elezione ebbe profonda coscienza che la sua obbedienza sarebbe consistita, e lo disse il giorno stesso della sua elezione, essenzialmente nell’essere maestro e perciò da quel momento si impegnò in un supremo magistero della Chiesa e dell’umanità”): “Discernere quanto è stata abilità sua e quanto è stato misterioso disegno di Dio, è impossibile ad un povero storico come chi vi parla. Però è certo che questa simbiosi di grazia e di disposizione naturale ha dato luogo a un fatto singolarissimo (sottolineato da me) nella storia: mostrare che vi è un altro modo di fare il papa che consiste non nel rinunciare ma nell’adempiere più in fondo, più radicalmente la funzione di guida della chiesa universale e perciò nell’essere più trasparente all’autentico Signore della storia.”[7]
Il testo è complesso, giacché contiene quella tensione dialettica di cui parlavo all’inizio tra presupposto di una fede confessante e sensibilità storico-critica. Dove situare infatti quel giudizio sul carattere singolarissimo del papato di Roncalli nella storia? È noto che proprio questa convinzione del carattere profetico del magistero roncalliano è stata oggetto di critica, anche se forse non si è tenuto conto del significato esatto del termine, così come lo intendeva Alberigo. Certo è che la confessione dell’inadeguatezza dello storico a cogliere la portata di un’esperienza soprannaturale non è, già in questo testo, rinuncia a compiere il proprio mestiere, per la parte che gli spetta e che di fatto, per lo meno a partire dal 1978, con la pubblicazione di Giovanni XXIII. Profezia nella fedeltà, Alberigo svolgerà con grande acribia. Galavotti ha già analizzato i vari interventi di Alberigo su Roncalli e non mi resta che rimandare a lui. Io qui mi limiterò a due elementi che considero i più incisivi dell’interpretazione alberighiana di Roncalli.
La prima verte sulla personalizzazione del papato roncalliano, nel senso che è la persona del cristiano Roncalli a condizionare lo stile e l’esercizio dell’ufficio primaziale. Con parole mie direi che, secondo questa interpretazione, Roncalli ha fatto il papa continuando semplicemente la sua fatica quotidiana di essere un buon cristiano, secondo l’ideale della santità appreso fin dagli anni giovanili alla scuola del direttore spirituale Pitocchi. Cito la parte finale dell’intervento pronunciato al colloquio di Bologna del 2003, basato soprattutto sull’analisi delle Agende roncalliane, e pubblicato in Cristianesimo nella Storia 2004: “Ciò che è autentico, buono, vero per l’Angelino di Sotto il Monte continua ad essere tale per il Papa. L’erezione alla cattedra petrina svela ed esalta ma non modifica il Roncalli di sempre. La serena, quanto impegnativa, determinazione di lasciare coesistere l’«Angelino» di sempre – il figlio di Marianna e Batista – con il successore di Pietro, senza che questi provasse vergogna per le virtù o per i limiti del primo, anzi, di vivificare il pontificato romano con la semplice virtù cristiana ha dato al pontificato giovanneo una trasparenza capace di incantare tanti. È dotato anche di un’incisività epocale, idonea a introdurre al centro del cattolicesimo un «più» di fedeltà evangelica? Lo storico di oggi è tentato di rispondere affermativamente, ma sarebbe un’inescusabile presunzione.”
Una seconda nota caratteristica dell’interpretazione alberighiana di Roncalli si intreccia intimamente con la sua interpretazione del Vaticano II. Mi riferisco al saggio che ho già ricordato sul rapporto tra riforma e aggiornamento. Si tratta di “una di quelle dense sintesi di inquadramento generale che scandiscono sovente la sua scrittura storica” (così Miccoli a proposito dell’introduzione alla riedizione del libretto del p. Chenu, Le Saulchoir. Une ècole de théologie, in CrSt 2009, 855). L’articolo, esaminando la storia del motivo della riforma della chiesa lungo i secoli, la mette a raffronto con l’idea di aggiornamento tipica di Giovanni XXIII. Dapprima vengono riportate le diverse voci che si sono levate per auspicare una riforma della chiesa nel clima suscitato dall’annuncio del Vaticano II, notando la loro generalità inadeguata alla nuova congiuntura storica. Quindi viene precisato il senso del programma roncalliano dell’aggiornamento: “«Aggiornamento» è stato affrettatamente inteso da alcuni come sinonimo di «riforma», da altri come un espediente proprio per non usare un termine «caldo» e controverso come «riforma». Un’analisi approfondita dell’insegnamento complessivo di Giovanni XXIII consente invece di concludere che con «aggiornamento» il papa volesse indicare piuttosto disponibilità e attitudine alla ricerca di una rinnovata inculturazione della rivelazione alle nuove culture. Così il concilio veniva posto nella prospettiva della risposta cristiana alle istanze di un’umanità che ha in corso un rinnovamento epocale. «Aggiornamento» appare come l’indicazione sintetica della direzione nella quale il concilio avrebbe dovuto aprire il cammino alla chiesa. Non riforme disciplinari né modificazioni dottrinali, ma una immersione totale della tradizione finalizzata a un ringiovanimento della vita cristiana e della chiesa. Una formula nella quale la fedeltà alla Tradizione e rinnovamento profetico erano destinati a coniugarsi, la lettura del «segni dei tempi» doveva entrare in sinergia reciproca con la testimonianza dell’annuncio evangelico: La natura pastorale del concilio e l’indicazione sintetica del suo scopo nell’aggiornamento dunque si spiegano, si saldano e si arricchiscono reciprocamente. Essi indicano lo spirito e il metodo con i quali, secondo Giovanni XXIII, la chiesa cristiana può testimoniare e annunciare l’Evangelo agli uomini del nuovo millennio.” (p. 175)
C’è in questo testo ad un tempo la spiegazione del privilegio dato in chiave ermeneutica alla figura di papa Roncalli, ma anche l’orizzonte ermeneutico globale della storiografia di Giuseppe Alberigo. La scelta della riforma come orizzonte ermeneutico della ricerca sulla storia della chiesa si salda qui con la particolare “forma” che il motivo di questa riforma assume in papa Roncalli e nel concilio da lui indetto e convocato. Giovanni XXIII aveva ripetutamente collocato il Vaticano II nella scia dei grandi concili cristiani, ma caratterizzando la riforma da essi perseguita in maniera tutta sua. Con una forza sorprendente, che nessuno si aspetterebbe da un papa, ai padri conciliari egli poi affermò nel suo discorso introduttivo all’assise conciliare come il problema non fosse ormai quello di ribadire questo o quel punto dottrinale, ma quello di un balzo innanzi, di un ringiovanimento della chiesa che corrisponda alle esigenze dei tempi, introducendo così un altro criterio di ogni autentico magistero ecclesiale, quello dell’attenzione ai segni dei tempi per poter comprendere con maggior profondità le esigenze del vangelo.
Di fronte al programma giovanneo, Alberigo deve costatare tuttavia, che le sue indicazioni “pastorali” anche se accolte con entusiasmo, trovarono un concilio impreparato ad un impegno tanto inatteso. Da qui la complessità delle sue conclusioni, per cui la “proposta di rinnovamento del Vaticano II può essere colta nel suo spessore e nella sua portata innovativa solo (sottolineatura mia) se si apprezza la testimonianza di comunione dell’assemblea conciliare e si valorizza la connessione e la reciproca interazione che corre tra le sue decisioni maggiori. Dalla partecipazione attiva dei fedeli al culto alla concezione della chiesa come «mistero», distinta dal regno di Dio, dalla riscoperta del «popolo di Dio» e della «comunione» tra le chiese e i loro vescovi a tutte le tradizioni cristiane e alla valorizzazione della condizione itinerante della comunità cristiana nel mondo, il concilio ha posto le premesse (sottolineatura mia) per un superamento dell’ecclesiocentrismo e perciò per la relativizzazione della stessa ecclesiologia. Su questo sfondo il riconoscimento della sovranità della parola di Dio (Dei verbum) e dell’inalienabilità della coscienza (Dignitatis humanae) avviano (sottolineatura mia) il ricentramento della riflessione cristiana sui dati costitutivi della condizione umana posta alla luce della rivelazione evangelica. Spetta alle comunità cristiane, nell’esercizio responsabile e creativo dei loro carismi, darsi le forme di fraternità idonee a esprimere la consapevolezza evangelica di ciascuna.”
È stato più volte criticato il privilegio dato da Alberigo al concilio di Giovanni XXIII rispetto a quello di Paolo VI. Non sta a me qui entrare in questo dibattito. Noto soltanto che questo privilegio deriva a sua volta alla lezione di Giuseppe Dossetti il quale era convinto che Giovanni XXIII avesse sopravanzato il concilio stesso.[8]
Ed è in questo contesto che occorre collocare anche la sua iniziativa per impedire il progetto di una Lex ecclesiae fundamentalis, perché “determinato dalla smisurata presunzione spirituale di imporre alla chiesa una costituzione, dalla sua estraneità a tutta la tradizione…”[9]
Alberigo resterà come il primo (in ordine di tempo ovviamente) grande storico del concilio Vaticano II, dove va notato come lo storico si sia mescolato al grande manager della ricerca. La costruzione della Storia del Vaticano II fu opera veramente planetaria, dove la lucidità e la nettezza delle proprie convinzioni seppe accompagnare rispettosamente la pluralità degli approcci degli altri studiosi, restando anche in questo una forte testimonianza della humilitas che fa parte essenziale del DNA del vero studioso di storia. Solo dai capitoli finali dei singoli volumi, che Alberigo riservò a se stesso, si può comprendere il suo disegno ermeneutico complessivo e, al tempo stesso, il dialogo che egli seppe intrattenere con i vari collaboratori, come appare dal giudizio articolato su Paolo VI che egli espresse nelle conclusioni del V volume.
- L’impegno civile
Dossetti, quando alla fine della sua vita ritornò all’impegno politico diretto in difesa della Costituzione, con un verto vezzo tra l’ironico e il sincero, giustificava la sua scelta con il rimando all’esempio del monaco s. Saba, l’archimandrita degli anacoreti del deserto di Giuda, che non solo trovò necessario ed opportuno sottoscrivere a suppliche rivolte per il bene pubblico all’imperatore Anastasio, ma che per ben due volte lasciò la profondità del deserto palestinese in cui viveva, per andare alla corte di Bisanzio e parlare con lo stesso Anastasio prima e con Giustiniano dopo. Dal primo implorò primo la pace a favore delle chiese di Palestina e dal secondo la clemenza dopo la rivolta dei Samaritani.
Alberigo da parte sua fu sempre fedele, in un atteggiamento che implicava in qualche modo un’imitazione della stabilitas monastica, alla sua scelta, che si declinava, come ho ricordato nelle formule stilate da Dossetti, nel rispetto dei “limiti propri dell’impegno di ricerca, senza contaminazioni attivistiche (e tanto meno politicistiche)”. Questo spiega perché egli rifiutò sempre un impegno politico diretto. La sua ritrosia era duplice. Per un verso egli fu sempre contrario alla commistione tra fede e politica. Si spiega così non solo la sua critica al tradizionale collateralismo tra chiesa e democrazia cristiana del dopoguerra, ma anche la critica ai “Cristiani per il socialismo” nel convegno nazionale del 1973 al quale era stato invitato, nonché il rifiuto della candidatura come “indipendente di sinistra” alle elezioni del 1976, sebbene avesse mostrato inizialmente simpatia per l’iniziativa.
La passione per la città, anch’essa implicita in quella scelta, gli dettò al tempo stesso il coraggio di uscire a volte dalle mura del suo “monastero”, di assumere cioè alcuni impegni puntuali e coinvolgimenti personali di grande rilievo, anche per l’opinione pubblica. Di questi ne ricordo solo due: l’adesione all’appello dei cattolici democratici per il no all’abrogazione della legge sul divorzio proposta con il referendum del 12 maggio; l’appello ai vescovi italiani nel 2007, con il quale denunciava come sciagura un eventuale loro intervento per vietare ai parlamentari cattolici di votare la legge sui diritti delle convivenze: “Denunciamo con dolore, ma con fermezza, questo rischio e supplichiamo i Pastori di prenderne coscienza e di evitare tanta sciagura, che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia”. Qualcuno ha storto il naso davanti al verbo “supplichiamo”. Miccoli lo interpreta più finemente: “Il suo ricorso al verbo ‘supplicare’ («supplichiamo i Pastori»), così insolito nella sua scrittura e nel suo stile, dà certamente la misura della gravità con cui avvertiva la situazione, per il rischio di ricadere nuovamente in un conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino, ma voleva anche sottolineare con forza la sua piena appartenenza ecclesiale, perché era una realtà ecclesiale che intendeva in primo luogo tutelare. La frase che chiuse l’appello però suggerisce esplicitamente anche altro. Suona infatti così: «Invitiamo la Conferenza episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per tutti». La responsabilità del ‘cristiano comune’ verso la Chiesa, quando fedelmente e rigorosamente attuata, diventava nella sua ottica un atto di responsabilità verso l’intera società. Credo stia qui un aspetto centrale della sua lezione.”
- La “retractatio” finale
Il numero 1 dell’annata 2007 della rivista fondata da Alberigo, Cristianesimo nella storia, era ancora in composizione quando egli morì, il 15 giugno di quell’anno. Quel numero, le cui cianografiche arrivarono in redazione proprio mentre egli moriva, era stato curato da lui e aveva come argomento: “Sinodi e liturgia”. L’ultimo seminario di ricerca comune che infatti egli aveva proposto ai ricercatori dell’Istituto, verteva proprio su questo argomento e quel quaderno di CrSt ne raccoglie i primi contributi. Il saggio introduttivo dello stesso Alberigo precisava l’ipotesi di ricerca, mediante la trasformazione e precisazione al tempo stesso dell’indeterminata endiadi “Sinodi e liturgia”, nella più espressa identità, sia pure formulata in maniera interrogativa di: “Sinodo come liturgia?”. Anche qui mi limiterò a citare e commentare un brano di questo saggio:
“È convinzione della maggioranza degli studiosi contemporanei, soprattutto occidentali, la portata marginale – si potrebbe dire «decorativa» della liturgia nello svolgimento dei sinodi, tanto più che prevale l’orientamento a circoscrivere l’interesse per l’esperienza conciliare/sinodale all’espressione della comunione tra chiesa e tra i loro vescovi. Anche la svolta ecumenica ha posto in evidenza soprattutto l’incontro fra chiese. La sinodalità locale all’interno di una singola chiesa/comunità come evento di comunione, ha ricevuto minore attenzione e interesse, a scapito di ogni principio di sussidiarietà.
Pur avendo condiviso per alcun tempo questi orientamenti mi sembra ormai matura, anzi urgente, la dilatazione dell’orizzonte della ricerca nel senso di una valorizzazione della dimensione di comunione (koinonia) non solo tra chiese, ma anche nel suo modulo elementare e irrinunciabile, quello tra persone che condividono la fede e la medesima comunione eucaristica nello stesso luogo. È innegabile che la recente concentrazione delle ricerche sulle relazioni inter-ecclesiali trova una spiegazione sia nella egemonia della cosiddetta ecclesiologia «universalista» e di una cristologia «capitale» (cristo monismo), che nella carenza delle fonti documentarie sulle esperienze sinodali dei primi secoli dell’esperienza cristiana. Questi due fattori hanno favorito elaborazioni lussureggianti del fenomeno conciliare nella sua dimensione istituzionale giuridico-formale”: Cristianesimo nella Storia 28 (2007) 16.
Mi limito a sottolineare il carattere sintetico di questo testo che in qualche modo riassume l’impegno finale dello storico Alberigo. Vi appare anzitutto una riflessione di lungo periodo: quella che ravvisa nell’ecclesiologia del secondo millennio latino, dopo la svolta gregoriana, il capovolgimento in senso universalista della comunione delle chiese locali, della trasformazione della iniziale congregatio fidelium nella universitas fidelium piramidalmente dipendente dal papa, a cui corrisponde una teologia del Cristo capo, sviluppatasi parallelamente nei primi secoli del secondo millennio, a scapito di un’attenzione sufficiente al ruolo dello Spirito.
Ma vi appare anche l’avvertenza dello storico delle istituzioni, che ho già ricordato all’inizio: l’avvertenza a non separare la dimensione istituzionale dall’esperienza vissuta del popolo di Dio, giacché solo in questo rapporto l’istituzione va interpretata.
C’era anche il rammarico dello storico, ancora memore della tesi di Sohm sullo sviluppo del diritto a partire dall’esperienza carismatica delle prime comunità, un rammarico che Congar ha fissato nel suo famoso contributo sul Sohm che ancora ci interroga, Sohm nous interroge encore. Un rammarico che risulta insuperabile se, per una di quelle sorprese che a volte la storia riserva, non sarà colmato il buco nero delle fonti sulla pratica sinodale del II secolo.
Ma c’era anche una retractatio, resa possibile dalla sapienza accumulata in decenni di ricerca rigorosa: quella di non aver prestato a suo avviso (ma chi l’ha conosciuto può anche dubitare) sufficiente attenzione all’humus fecondo della base ecclesiale. E infine c’era soprattutto l’individuazione del luogo dove nasce ogni autentica iniziativa di riforma nella chiesa, quella riforma che da sempre aveva costituito l’orizzonte della sua ricerca.
Conclusione
Francamente debbo confessare come almeno per me, restano imprescindibili e attuali, le grandi linee della lezione di Alberigo fino a quella che ho chiamato la sua retractatio finale e che di fatto è riassuntiva di un cammino:
– il rimando alla responsabilità di tutto il popolo di Dio, che si traduce nella sinodalità di tutta la chiesa a cominciare dalle comunità parrocchiale
– il luogo originario dell’esperienza cristiana che è il vangelo vissuto e praticato nella libertà del cristiano
– il primato della coscienza
– l’aiuto insostituibile della conoscenza razionale e rigorosa della storia della tradizione della fede per la necessaria relativizzazione delle forme nelle quali la chiesa ha vissuto ogni volta la sua fedeltà al vangelo
– Il richiamo ultimo dei poveri e dei sofferenti che nella loro carne ci annunciano il vangelo di Gesù Messia.
Relazione tenuta da Giuseppe Ruggieri il 15 giugno 2017 all’Istituto di Studi Religiosi di Bologna, a dieci anni dalla morte di Giuseppe Alberigo (1926-2007).
[1] L’espressione “spendita estrema” è dossettiana e accompagna, in una endiadi ancora tipicamente dossettiana, quella di “scialo della nostra vita”: G. Dossetti, La Piccola famiglia dell’Annunziata, a cura della Piccola famiglia dell’Annunziata, Milano 2004, 305-306.
[2] Sono i termini usati dal piano di studi del Centro di documentazione, redatto da Dossetti nel dicembre 1953.
[3] L’amore alla Chiesa: dalla riforma all’aggiornamento, in «Con tutte le tue forze». I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. Alberigo, Genova 1993, 169-194.
[4] G. Alberigo, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009
[5] Ma bisogna ricordare anche i saggi pubblicati su Cultura e Scuola, 1967-68 e quello apparso sul volume curato da G. Barauna, La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze 1966: La Costituzione in rapporto al magistero globale del Concilio, ivi a pp. 172-195.
[6] Cristianesimo nella Storia 29 (2008) 761-874. In questo saggio, molto ben documentato, alla nota 1 si può leggere l’elenco di tutti gli studi e interventi dedicati da Alberigo a Giovanni XXIII.
[7] G. Alberigo, Papa Giovanni, problema di cultura, in Studi Cattolici 10 (1966)/63, 19-22, cit a p. 22. Si tratta di una pubblicazione parziale del testo registrato di una conferenza tenuta alla Corsia dei Servi di Milano il 31 gennaio del 1966.
[8] G. Dossetti, Per una «Chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II. Lezioni del 1965, a cura di G. Alberigo e G. Ruggieri, Bologna 2002, 31-32.
[9] Legge e vangelo, Brescia 1972, p. 15, nota 1.