IL DIO INEDITO
Alla fine di questo libro l’Autore scrive: “se ti regalo – o ti propongo – un libro, non vorrei obbligarti ma certo ti suggerisco un discorso che mi pare importante, interessante. È come se io ti parlassi, nella nostra conversazione”. E aspettandosi di essere ascoltato, non perché ci sia una legge che l’impone ma per “quell’obbligo dolce dell’amicizia”, entro il quale avviene lo scambio, invita il lettore a non fermarsi alla superficie, a entrare nella parola, ascoltarne gli echi. Questo invito è tanto più persuasivo se il libro non solo Enrico Peyretti ce lo regala, ma è lui che lo ha scritto, con l’idea che queste parole non muoiano sulla carta, ma rinascano nel lettore.
Dunque non è un libro qualsiasi, e leggerlo diventa un’operazione importante, impegnativa, e qui allora si apre una domanda: che senso ha questo libro, che cosa ci vuol dire?
L’interrogativo è sempre fecondo, più delle risposte, sostiene Peyretti; ma qui la risposta è difficile perché ciò che è in gioco in queste pagine è il segreto della vita, il suo mistero, il suo significato.
Anzitutto è in causa la vita dell’Autore, interrogata lungo tutto il suo arco, dall’infanzia alla vecchiaia. Né potrebbe essere diversamente. Come egli può dimenticare quando, da bambino, vide dalla finestra tre uomini passare vivi e tornare morti, “ingiustamente fucilati”, su un carro trainato da un asino? Infatti “ha imparato per sempre”, e per questo ha lottato tutta la vita contro la guerra (lui direbbe “lavorato tutta la vita” come un operaio mai staccato dal suo lavoro), e non solo ha lottato contro la guerra, ma contro la pace armata che, detto con Kant, è “guerra pronta”, contro la pace atomica (falsa pace!), contro la pace di dominio, contro la violenza, non solo quella personale di Caino, ma quella “omicida, organizzata, istituita, comandata, giustificata” dagli Stati, contro la violenza disumanizzata del potere, contro la violenza politica, contro la violenza religiosa (che consiste anche solo nel minacciare l’inferno per ottenere sottomissione e dominio). E come egli può ignorare, da vecchio, quando si tratta di “diminuire consentendo”, che quello che conta è “essere vivo, vivo e null’altro vivo e null’altro sino alla fine”, come dice Pasternàk, e che “non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi», come ha scritto Pintor, e che allo scemare delle forze non per questo viene meno il desiderio, senza presunzione, di “dare qualcosa di vivo a chi cresce dopo di noi”?
In secondo luogo è qui messa in gioco la vita di chi legge, perché tutti sono chiamati in causa dalle realtà significate dalle parole del vocabolario in cui l’Autore ha fatto precipitare il combinato disposto della sua esperienza e della sua riflessione sapienziale. In esse è racchiuso quel “qualcosa di vivo” che egli vuol trasmettere, parole che aprono a nuove letture delle idee che ci guidano e dei fatti che accadono nella vita e nella storia.
Molti sono i temi su cui può essere vitale incrociare il percorso e la ricerca di Enrico Peyretti, questo “operaio del leggere e scrivere” che protesta di non aver “scoperto nuove terre” ma sa bene di aver distribuito a piene mani buoni frutti. Ma un tema su tutti conviene fin dall’inizio evocare, presente com’è, nascosto o palese, in tutte queste pagine, e presupposto di tutti i significati, ed è il discorso su Dio. Conviene metterlo innanzi non solo per la fede dell’Autore, che non è una fede in dogmi o altre certezze religiose, ma è il sapere che un amore indefettibile sostiene ogni cosa, e la eccede fino al culmine dell’amore dei nemici, ma anche per un’urgenza che preme, quando il nuovo baratro aperto sul cammino della modernità non è più la negazione di Dio, ma la domanda demolitrice se valga ancora la pena parlare di lui.
Sarebbe infatti questa, secondo l’ultimo grido, l’età del post-teismo, non ci sarebbe alcuna contemporaneità di Dio; quell’ ‘”Oggetto Immenso”, se pure fosse sensato occuparsene, sarebbe oggi uscito di scena; delle religioni non sarebbe più questione se siano vere o false, vettori di salvezza o di perdizione, una sola rivelata o molte ugualmente ispirate, ma tutte sono date per finite, reperti di un immaturo passato, archeologia di preghiere, icone, culture, arti, opere, riti, dedizioni, martirii pur esistiti per secoli ma giunti a scadenza; né sarebbe questione di correggere errate rappresentazioni di Dio, da cui siamo stati fuorviati, non è il software che va cambiato, dicono, è tutto il computer che va ai rottami. E nemmeno questa tabula rasa di Dio rivendica il nobile pensiero dell’ateismo, perché anzi è al cristianesimo, se non addirittura al Vangelo, che essa fa appello come a sua causa.
Questo libro invece è intriso di Lui. Non che Peyretti neghi il problema posto dai nuovi atei, è ben consapevole dell’approssimazione di ogni discorso su Dio, azzarda, con sant’Agostino che “si comprehendis, non est Deus” (se lo comprendi non è Dio, ma un idolo), ricorda che per due volte Giovanni insiste nel Nuovo Testamento che “Dio nessuno l’ha mai visto”, è disponibile ad usare altri nomi per Dio, come Luce, Amore, Vita, Origine, perché Egli ha tutti i inomi e nessuno è sufficiente, non cerca Dio nel gelo dei catechismi o nel fissismo dei dogmi, non gli allestisce altari ma mense perché non esiste un Dio che si compiace di vittime e sacrifici: tutto questo ci sta, ma l’Autore è ben fermo nel professare “il Padre rivelato da Gesù, già atteso dai profeti, un Dio che si turba e si commuove, si indigna e si intenerisce, che ama e non condanna”, un Dio che “ama i cattivi quanto i buoni; la sua giustizia è guarire il peccatore, e ammetterlo con sé insieme ai giusti; è misericordia, cioè mette il suo cuore nel nostro misero cuore di pietra e lo trasforma in un cuore di carne”. In tal modo l’Autore innalza il vangelo sopra la religione, “il vangelo che corregge e sorpassa la religione, perché questa ha insegnato buone cose, ma anche cattive, ha educato a fiducia e fratellanza, ma ha anche esercitato una ferocia assoluta, ha annunciato, ma anche schiacciato la libertà degli esseri umani”. Dio non condanna, scrive Peyretti. “È bestemmia pensare che Dio dà male per male. Se un super-Hitler facesse tutto male e niente bene che possa salvare la sua esistenza, si condannerebbe da solo. Dio piange per ogni uomo perduto, non lo caccia nel fuoco eterno: se lo facesse, sarebbe lui il super-Hitler”. E se Dio non è riconoscibile nel ricco e nel potente, lo trovi nel povero che è “l’apparizione di Dio in attesa”.
In tal modo questo libro entra nel roveto ardente in cui è in gioco la storia del nostro tempo, e cerca di conservarle la risorsa di Dio nel momento stesso in cui la Terra è minacciata dalle nostre condotte sconsiderate e perverse; Dio stesso è il custode della Terra di cui noi siamo stati cattivi custodi ed è insieme con lui che ora dobbiamo salvarla.
Non a caso il libro si conclude accomunando pace ed ambiente: “Ambiente, vita e pace sono un solo problema. È inutile che le politiche si accorgano dell’ambiente, se non aboliranno la guerra… La guerra mira ai corpi umani, per dominarli. Perciò distrugge le condizioni vitali: case, strade, campi, foreste. Tutto studiato dalla scienza militare, ben finanziata e onorata. La terra stessa che ci nutre viene avvelenata: il genio della terra ritorce nei nostri corpi il veleno che immettiamo nella vita del pianeta”; l’antidoto è l’ecologia integrale proposta da papa Francesco, il suo vincolo con la cultura della pace.
In tal modo Enrico Peyretti ripropone vitalmente il rapporto tra la Terra e Dio. Ciò non sarebbe possibile se l’attuale pontificato, riprendendo l’opera del Concilio del Novecento, non avesse riaperto la questione di Dio, facendo di questo tempo il tempo di una nuova scoperta di Lui. E questo Dio nuovamente scoperto è il Dio della misericordia. Non è che Dio sia diventato misericordioso oggi, ma è che troppe ombre ne coprivano il volto, facevano di lui il deprecato Dio descritto dagli stereotipi del teismo, e rigettato dai post-teisti, il “Rex tremendae maiestatis” cantato nel “Dies irae”, il Dio della vendetta invocato da Isaia, il Giudice inappellabile degli inferni danteschi e dei dannati della Sistina. No, non così, perché, come ha scritto papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno della misericordia, “Misericordiae vultus”, un Dio che si fermasse alla giustizia non sarebbe neanche un Dio. Il Dio presente in questo libro è invece il Dio che, come descritto da papa Francesco nel suo neologismo spagnolo, è un Dio che “primerea”, che è sempre primo nell’amore, è un Dio che perdona sempre; è un Dio che si scambia con l’uomo (Paolo) nel portarne il peccato e la croce; è un Dio che non sceglie tra eletti e non eletti, ma elegge tutti oltre ogni religione e cultura, non se ne sta dietro la porta del santuario vigilata dall’ostiario, ma esce per essere incontrato in spirito e verità, non è il Dio della casistica, ma della verità, non dell’equazione di una pesata uguale tra meriti e grazia, ma del dono senza commercio, non il Dio della guerra – che, dice Francesco, non esiste – ma il Dio della pace, un Dio nonviolento, un Dio che non sta con la città sfavillante ma col barbone che muore in via Ottaviano, non sta nelle motovedette che nel Mediterraneo agguantano la preda, ma nei barconi che affondano e nelle navi delle ONG che, contro le regole, corrono a salvarli.
Non c’è dubbio che si tratta di una nuova edizione di Dio, il Dio dell’edizione straordinaria del nuovo millennio, di quest’epoca nuova. Questa lettura di Dio è cresciuta nel tempo insieme alla fede del popolo cristiano, e ha fatto irruzione dopo la grande tragedia dei totalitarismi, della guerra mondiale, della Shoà, della bomba atomica. Lo stesso papa Francesco non potrebbe oggi pubblicare questa nuova edizione di Dio se non fosse stata preparata in una Chiesa passata attraverso la grande tribolazione della modernità, dell’apostasia delle masse, e dell’ansia per la sua agonia, espressa nella lettera del cardinale Suhard nel dopoguerra di Parigi. È la visione di Dio poi venuta alla luce col Concilio Vaticano II, con cui papa Francesco fa corpo, così che il Concilio e il suo pontificato devono essere visti non come due eventi a distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro, ma come un unico evento. Il tragitto è infatti dalla “Gaudet Mater Ecclesia” con cui papa Giovanni diede il via a quella grande assise conciliare alla “Evangelii Gaudium” con cui papa Bergoglio ha inaugurato il suo pontificatoò, dal “Lumen Christi, Lumen Gentium” del Vaticano II alla “Misericordiae vultus” del 2015 e la data simbolo che li accomuna è l’8 dicembre, fine del Concilio e inizio dell’anno della misericordia.
Perciò il Dio inedito di papa Francesco non è un Dio estemporaneo, importato a San Pietro dalla fine del mondo, come in un viaggio a ritroso delle caravelle di Colombo. E Francesco non è un papa eccentrico, apolide, venuto dal Sud, è un papa romanissimo. Il Dio che annuncia è un Dio ben piantato nella tradizione e passato attraverso tutti i vagli della Chiesa romana. Vale a dire che non manca di imprimatur questa nuova edizione di Dio.
Si può cominciare dalla “Pacem in terris”. È lì che è stato “aggiornato” il magistero dei papi dell’Ottocento, che avevano opposto un’interdizione divina alla libertà politica e alla libertà di coscienza, definite come “un delirio”; è nell’enciclica di papa Giovanni che la libertà diventa la dignità stessa dell’uomo e non può essere coartata in nome della verità. Contro ogni censura richiesta al papa dai revisori, la verità, la libertà, la giustizia e la carità non sono messe nell’enciclica in scala gerarchica ma sullo stesso piano come maestre e guide per condurre gli uomini alla pace. Perciò Dio è il Dio della libertà, non è il Dio né di Costantino né di Teodosio né dei cosiddetti prìncipi o partiti cristiani.
Poi è venuto il Concilio che come Gesù nella sinagoga di Nazaret ha taciuto di una vendetta di Dio per il peccato dell’uomo, non ha parlato di un uomo decaduto, privato dei doni divini e condannato al lavoro come pena e ai parti con dolore. Dio secondo il Concilio è il Dio dell’elezione, che non si pente di aver scelto tutti gli uomini come suoi figli, non li ha abbandonati dopo la caduta e non ha cacciato nessuno dal giardino. E nemmeno ha lasciato l’uomo in balia di se stesso, come diceva una cattiva traduzione del Siracide, ma l’ha “messo in mano al suo consiglio”, come dice la “Gaudium et Spes” al n. 17, facendo di quel passo biblico una traduzione migliore.
E poi c’è stata la svolta ecumenica del Concilio, per la quale le altre Chiese sono vere Chiese, i semi del Verbo sono sparsi dovunque, e “indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, come dice il decreto “Ad Gentes”, al n. 4.
Poi c’è stato Albino Luciani, che è stato papa giusto il tempo per dire che Dio è padre ma anche madre, cioè figura di ogni relazione di vero amore tra gli uomini. Dio è un bacio, come diceva il camaldolese padre Benedetto Calati.
Poi c’è stato Benedetto XVI con la Commissione Teologica Internazionale che ha detto come anche i bambini morti senza battesimo si possono salvare. Così è finito il Limbo, e Dio non è più pensabile come quello che tiene a bagnomaria i bambini per tutta l’eternità perché non c’è stato nessuno che ha trovato l’acqua per battezzarli, come diceva san Tommaso (perché anche san Tommaso può sbagliare), e solo così farli entrare nella Chiesa come per una porta. E se Dio ama ed accoglie i bambini non entrati nella Chiesa, è plausibile che lo faccia anche con gli adulti, sicché la Chiesa non è più rappresentabile, come si faceva a partire da sant’Ambrogio, come la casa di Raab fuori della quale si è votati allo sterminio.
Ancora Benedetto XVI ha riconosciuto una discontinuità della Chiesa nel suo rapporto con la modernità, ha abbandonato una lettura storica del mito del peccato originale, e poi da papa emerito ha riconosciuto l’evoluzione del dogma e ripudiato come “del tutto errata” la dottrina anselmiana della riparazione dovuta al Padre dal Figlio sulla croce, mentre sulla croce c’era il Padre non meno del Figlio (“unus de Trinitate passus est”!); sicché il teologo ex papa ha licenziato col suo fondamento tutta l’impalcatura dell’ideologia sacrificale che ha incrudelito per secoli il cristianesimo della misericordia.
Infine c’è stata la Commissione Teologica Internazionale che ha argomentato la più grande sorpresa sull’identità di Dio, quella del Dio nonviolento; essa, con la firma del cardinale Muller e l’avallo di Francesco, ha spiegato come anche nella Bibbia ci siano dei fraintendimenti di Dio, sicché una lettura fondamentalista della Bibbia è “un suicidio del pensiero”, e nell’“irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa” ha riconosciuto “il tratto di una svolta epocale”, “la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza” (n. 64) ed “una reale opportunità di ripensamento dell’idea di religione” (n. 18).
È tutto questo che è confluito nel Dio inedito annunciato da Francesco, è questo il Dio entrato nell’esperienza di fede rispecchiata in questo libro, ed è questo il Dio di cui Enrico Peyretti potrebbe dire oggi “Deus qui laetificat senectutem meam”. parafrasando il salmo che recitava da bambino rispondendo al vecchio “introito” della Messa tridentina, quando il Dio annunciato, professato e creduto non era così.
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Raniero La Valle