IL PERDONO, LA POLITICA
Newsletter n. 147 del 27 aprile 2019
IL PERDONO, LA POLITICA
Care amiche ed amici,
nel nostro sito pubblichiamo tre testi fondamentali della nostra assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”: la relazione di Mariarosaria Guglielmi su “Ciò che ci sta succedendo”, quella di Daniela Turato su “Il grido del volto e l’uomo artificiale”, e quella di Luigi Ferrajoli sul diritto di migrare come potere costituente di un nuovo ordine mondiale fondato sull’effettiva eguaglianza di tutti gli esseri umani. Anzi, data l’importanza di questa proposta, oltre all’intervento pronunziato in aula e da noi trascritto, pubblichiamo in coda una più ampia elaborazione scritta del tema.
Ciò ci riporta ai contenuti della nostra assemblea e a chiederci come potrà avvenire che questa comunità umana universale, questo “messia che rimane”, come l’abbiamo chiamata, possa salvare il creato e costruire quel “nuovo ordine di rapporti umani” già preannunziato, contro i profeti di sventura, da papa Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II.
A stare alle suggestioni emerse dall’ assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” due sono le risorse, ambedue umanissime, da mettere in campo: il perdono e la politica.
Il perdono (che non va oltraggiato come “perdonismo”) discende da quella “teologia dello scambio” e da quel “ministero dello scambio” in cui consiste, come ha spiegato Giuseppe Ruggieri in quell’ incontro romano, “l’essere messianico”: Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto addirittura peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e noi stessi abbiamo ricevuto la missione dello scambio, cioè della sostituzione nel portare il peso gli uni degli altri. È ciò che dice Paolo nella seconda lettera ai Corinti (5, 17-21), stando a una traduzione più fedele della parola “riconciliazione” (nel greco “katallagé”) come “scambio”. È lo scambio che redime.
Questo scambio tra Dio e l’uomo significa che Dio fa le cose dell’uomo (fino a farsi peccato!) e l’uomo fa le cose di Dio. Ora il primo oggetto di questo scambio, che Gesù offre ai discepoli la sera stessa di Pasqua, nel Cenacolo, è il perdono. Il perdono è la cosa divina per eccellenza, ed ecco che Gesù lo consegna agli uomini, insieme al soffio dello Spirito: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”; è un regalo impegnativo, perché ci sono molte cose che sono difficili da perdonare. Ma, trasferito nelle mani degli uomini il perdono, in quanto divino, non ha limiti. Si può perdonare senza misura, l’iniziativa è nelle nostre mani, qui siamo noi che giungiamo per primi: è per il fatto che noi perdoniamo gli altri, che Dio perdona noi, come chiediamo nel “Padre nostro”.
In questo perdono, risiede la pace. Niente perdono, niente pace. Certo, la pace è opera della giustizia, come dicevano i profeti, la pace è fondata sui quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà, come scriveva papa Giovanni; ma per come essa è stata data agli uomini da Gesù appena risorto, come suo primo lascito, (“Pace a voi!”, Gv. 20, 19) è il perdono. In quanto scambiato con quello divino, il perdono dell’uomo si può dilatare a tal punto che se ci fosse un Dio da perdonare, potrebbe perdonare anche Dio. Molte volte, nella tragica esperienza umana, si alza il grido di chi dice di non poter perdonare Dio per i dolori patiti, un figlio perduto, un amore tradito, e magari uno tsunami, come se il male, e tanto più quanto più incomprensibile, avesse origine in Dio. È l’angoscia irrisolta del libro di Giobbe; ma non tutti sono come Giobbe, capaci di non attribuire a Dio nulla di ingiusto, capaci di dire: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. E, quanto meno, si mette in conto a Dio di aver permesso il male, tanto che dopo Auschwitz è apparsa l’alternativa dalla risposta impossibile, che o Dio è buono ma non onnipotente, o Dio è onnipotente ma non è buono. Ma questo è un pensiero umano su Dio, causa di tante separazioni da Lui. Ebbene, in questo pensiero umano di fronte al male incomprensibile potrebbe pure fiorire l’idea che anche Dio va perdonato. Non dice la Bibbia che “Dio si pentì del male che aveva deciso di fare a Ninive, e non lo fece”? Se si pentì, vuol dire anche che si perdonò. E se il perdono si dilatasse a tal punto che anche l’uomo perdoni Dio di ciò che ancora non capisce o non gli è stato rivelato di Lui?
Nella veglia pasquale, quando si legge la storia del sacrificio di Isacco, uno potrebbe dire: come si fa a perdonare Dio del male che in suo nome è fatto ad Isacco, nella falsa esecuzione inscenata contro di lui, quando il padre stesso ha portato il figlio al macello, lo ha innalzato sull’altare dell’olocausto, ha armato la sua mano contro di lui per ucciderlo? E tutto questo per dire che a Dio si deve un’obbedienza assoluta e preferirlo ad ogni altro amore. “Ma che cosa avete capito?” sembra dire Dio nel seguito della storia della salvezza. “Per farmi perdonare il male che non ho commesso ecco che io consegno il Figlio sulla croce, lo scambio con Isacco, perché sappiate che mai più devono esserci vittime, mai più sacrifici millantati a mio nome”. Questa è l’ampiezza l’altezza e la profondità del perdono che Dio ha messo nelle mani dell’uomo, perché faccia la pace sulla terra.
Perché questo perdono sia possibile, la sofferenza umana è stata portata dentro Dio stesso, “Unus de Trinitate passus est”, uno della Trinità ha patito, come dice il Concilio costantinopolitano nel VI secolo. È per questo che rispondere all’attuale emergenza messianica vuol dire partecipare al dolore dell’altro, comprendere e gestire la realtà a partire dal bisogno e dalla distretta dell’altro, persone o popoli che siano, non da se stessi. Condizione ne è il perdonarsi a vicenda, e perciò accogliersi e scambiarsi nel reciproco bene, senza limiti, e questa è la pace.
La seconda risorsa è la politica, che non si può licenziare o astrarsene aspettandone una migliore. La politica è qui ed ora, ed è la dimensione pubblica della vita degli uomini insieme. Per renderla degna bisogna venire alla verità della politica. Purtroppo, da una lunga esperienza storica abbiamo appreso che il potere e la verità non viaggiano insieme, sono in conflitto ed estranei tra loro, e perciò il potere è spesso omicida. Ma il paradosso, o il dover essere, è quello che irrompe nella risposta di Gesù a Pilato: il re è colui che rende testimonianza alla verità. Chi l’avrebbe mai detto? Ma è per questo che Gesù dice “io sono re” e annuncia un mondo in cui il regno sia invece secondo verità. Ma che cos’è la verità?
Nella recente assemblea romana, dovendosi dare un nome alle cose che accadono, è emerso un problema di verità. E ha detto Giuseppe Ruggieri, citando il vangelo di Giovanni (Giov. 8, 43-44) che la menzogna, radice di ogni violenza, è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro. L’ultima prova è il nome che abbiamo dato a quei migranti che hanno costretto il capitano della nave a non riportarli in Libia ma a portarli verso un porto sicuro. Li abbiamo chiamati “pirati”. Ecco la menzogna. Invece il vero nome delle attuali politiche securitarie è “reati”.
Allora la politica è secondo verità se parte dagli altri, se assume la sofferenza umana a partire da quelli che nelle Beatitudini sono chiamati beati: i poveri, gli oppressi, i piangenti, gli stranieri, i perseguitati, i curvati. Ciò non si può fare tra gli osanna (i consensi, i sondaggi…). La politica invece è offrirsi in sacrificio per gli altri. Come dice René Girard, in ogni intronizzazione c’è in qualche modo la premonizione di un sacrificio. Per molti è stato così. Per Moro è stato così. Per Allende è stato così, e così è stato per Romero, per gli uccisi di tutte le Resistenze.
Nella rilettura messianica, nella speranza aperta sul domani, pertanto, la politica è quella per cui milioni di uomini e di donne, dal più piccolo al più grande, prenderanno su di sé la sofferenza di tutti e, ognuno con le sue bandiere, con i suoi compagni di strada, i suoi ciclostili e gli altri strumenti di lotta, appronteranno i rimedi a questa sofferenza, elaboreranno il pensiero della nuova società e costruiranno pietra su pietra la nuova agognata casa comune in cui abiti la giustizia e di cui sia custode la pace.
Con i più cordiali saluti
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