IL SIGNIFICATO DELLA CROCE E L’EQUIVOCO DEL SACRIFICIO
IL SIGNIFICATO DELLA CROCE E L’EQUIVOCO DEL SACRIFICIO
Nella tradizione si sono depositate delle letture degli eventi salvifici che contrastano con il Dio misericordioso del Vangelo. L’espiazione biblica non è una sofferenza che dal basso sale per placare chi sta in alto ma è il perdono e la purificazione che discendono dall’alto come dono di Dio
Carlo Molari
In diversi interventi apparsi in questo sito si è discusso del significato del “sacrificio” e del patibolo della croce nella tradizione cristiana. Anche ai fini dell’approfondimento del tema “Ma viene un tempo ed è questo” che sarà oggetto di riflessione nell’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” convocata a Roma per il prossimo 2 dicembre, pubblichiamo un contributo di Carlo Molari, tratto da una relazione tenuta il 30 luglio 2009 alla Settimana di formazione ecumenica del SAE, dal titolo “Croce, salvezza religioni”[1].
Il rapporto croce- salvezza è un tema ricorrente nella riflessione teologica perché centrale per la vita di fede. Ma la connessione tra croce/salvezza e religioni è abbastanza recente perché la teologia cristiana delle religioni è nata poco più di un secolo fa e si è sviluppata solo molto recentemente in ambito cristiano.
D’altra parte, però, le spiegazioni del rapporto tra croce e salvezza sono spesso molto divergenti. La domanda è: quale incidenza ha sulla teologia delle religioni il modo di spiegare il nesso croce/salvezza? In altri termini: come cambia il giudizio sul valore e sulla funzione salvifica delle religioni al variare della teologia della croce?
Non descrivo dettagliatamente la dimensione soggettiva della croce (non parlo cioè del Crocifisso ma della croce). Non esamino quindi dettagliatamente come e quando Gesù abbia intravisto la fine della sua missione e come l’abbia interpretata. Quale senso egli abbia dato alla sua morte e come ne abbia anticipato il valore nella Cena pasquale. Non elenco le diverse opinioni in merito. Che la croce sia evento salvifico dipende certamente dagli atteggiamenti assunti da Gesù di fronte alla sua passione e morte, perché se fosse morto disperato e imprecando Dio, la sua morte non sarebbe stata un evento salvifico. Ma questi aspetti li do per scontati. Li richiamo solo sommariamente quando esamino in che senso e perché la croce è un evento di salvezza.
Un’altra premessa opportuna per evitare equivoci: la Croce non può essere colta in tutto il suo valore senza riferimento alla risurrezione. Le riflessioni quindi che propongo sul rapporto croce/salvezza devono essere intese nell’orizzonte dell’evento pasquale che rappresenta il frutto della fedeltà all’amore esercitato da Gesù “sino alla fine” (Gv. 13,1). Tuttavia la sua connessione con la risurrezione non annulla il valore autonomo della croce, che però, come vedremo, non consiste nella sofferenza ma nell’amore esercitato. La risurrezione mostra la dinamica vitale che l’amore esercitato sulla croce è stato in grado di mettere in moto, ma come tale essa non aggiunge nulla all’azione storica della croce. Anche il dono dello Spirito che è attribuito a Cristo risorto da Giovanni è già collegato alla morte in croce descritta appunto come “consegna dello spirito” (cfr. Gv. 20,30).[2] Giovanni stesso nel discorso dell’acqua viva fatto da Gesù nell’ultimo giorno della festa delle tende osserva “non c’era ancora lo Spirito perché Gesù non era stato innalzato” (Gv. 7, 39).
Qui di seguito uno sviluppo del tema in due parti in due parti: la prima illustra le diverse interpretazioni del valore salvifico della croce, ricondotte a tre modelli fondamentali; la seconda parte considera il senso delle religioni in ordine alla salvezza. Termino con due interrogativi aperti alla discussione.
- Croce evento di salvezza
Il Nuovo Testamento senza alcun dubbio presenta la croce come evento di salvezza: “la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi è potenza di Dio” (1 Cor. 1,18). Per questo San Paolo ai fedeli di Corinto, in mezzo ai quali egli aveva ritenuto “di non sapere altro che Cristo e questi crocifisso” (1 Cor 2,2), poteva asserire: “per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor. 1,24), quella “sapienza di Dio che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1 Cor, 2, 7-8).[3] Ai cristiani della Galazia, “agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Cristo crocifisso” (Gal. 3,1), poteva scrivere che nei loro confronti non intendeva avere “altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal. 6, 14), perché ciò che conta “è l’essere nuova creatura” (Gal. 6, 15). Ai cristiani di Filippi infine, “con le lacrime agli occhi”, ricordava che “molti… si comportano da nemici della croce di Cristo” (Fil. 3, 18) perché ponevano fiducia salvifica nelle opere della legge e non nella giustizia “che deriva dalla fede di Cristo”[4].
I motivi però per i quali Gesù ha potuto rendere la croce, che era condanna ingiusta, conseguente al rifiuto di accogliere la sua proposta di conversione per la venuta del Regno di Dio, sia stato evento di salvezza, non sono precisati in modo articolato e uniforme nella Scrittura. Essa offre qualche indicazione attraverso alcune metafore: agnello, prezzo, espiazione, sacrificio, riscatto.[5] Queste metafore hanno avuto sviluppi vari già nelle prime comunità cristiane,[6] e più ampiamente lungo i secoli e nella teologia recente.[7]
Le componenti della storia della salvezza sono fondamentalmente due: una discendente, costituita dall’azione divina che attraverso Cristo offre grazia e perdono all’uomo, l’altra ascendente, costituita dal cammino dell’uomo Gesù che attratto e condotto dalla grazia dello Spirito giunge alla perfezione della identità filiale (cfr “reso perfetto” Eb. 5,9) e traccia per l’uomo il cammino verso la vita eterna, offrendo nello stesso tempo la forza dello Spirito per percorrerlo. Lungo i secoli le due componenti sono state diversamente interpretate e coniugate secondo i vari paradigmi soteriologici utilizzati. In base alla loro preminenza possiamo distinguere tre modelli. Li delineo brevemente per poi trarre alcune conclusioni in ordine alla teologia delle religioni.
1.1. Modello ascendente
Il primo modello, prevalentemente ascendente, considera Gesù come il Figlio/servo che sulla croce offre a Dio riparazione per i peccati degli uomini e merita da Dio quei doni di grazia che salvano l’umanità intera dal male, giustificandola. Le metafore utilizzate nel Nuovo Testamento e i riferimenti profetici del Primo Testamento hanno provocato diverse spiegazioni sul ruolo svolto da Gesù nell’offrire a Dio il giusto compenso per i peccati degli uomini, come loro sostituto e/o rappresentante. Egli, soffrendo e morendo, secondo le varie metafore, avrebbe compiuto un sacrificio di espiazione, versato il prezzo del riscatto, offerto una soddisfazione proporzionata all’offesa ricevuta, subito la pena del peccato al posto degli uomini o come loro rappresentante. Nel tempo questo modello ha subito declinazioni anche molto violente. Alcuni sono giunti a parlare dell’ira di Dio che si riversava sul Figlio punito come peccatore al posto di tutti gli uomini (sostituzione penale). Il noto Vescovo e sommo oratore Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) giunse a scrivere del Padre: “colpì il suo Figlio innocente mentre questi lottava con la collera di Dio… quando un Dio vendicatore mosse guerra a suo Figlio, il mistero della nostra pace si compì”[8].
In tale modo Gesù “apre le chiuse di deflusso alla misericordia del Padre, in favore di tutti coloro che hanno il coraggio di abbracciare la Croce e la Vittima su di essa immolata”[9]. Una volta placato, Dio offriva il perdono attraverso la Chiesa, il corpo del Figlio, e i suoi sacramenti.
Resta in questa prospettiva una grave difficoltà già avvertita in modo generico dal Catechismo del Concilio di Trento. Dopo aver dichiarato che tutta la religione e la fede cristiana si fondano sulla efficacia salvifica della croce, esso afferma: “Se vi è una qualche cosa che fa difficoltà alla mente e alla intelligenza umana lo è certamente il mistero della croce, il più difficile fra tutti, e a stento noi possiamo concepire che la nostra salvezza dipenda dalla croce e da colui che per noi su quel legno è stato inchiodato”[10].
Praticamente la difficoltà veniva risolta con l’aggiunta di una componente discendente costituita dalle strutture ecclesiali e sacramentali, collegate alla croce, attraverso le metafore dell’acqua e del sangue scaturite dal costato di Cristo. La croce salverebbe perché muove Dio a diffondere grazia. Di fatto la salvezza diventa effettiva solo quando l’azione redentrice di Cristo trova accoglienza presso il Padre, il quale nella Sua risposta benevola introduce l’uomo in una nuova condizione di esistenza, facendolo rinascere come figlio, lo libera dai mali eventualmente provocati dal peccato e lo accoglie nel regno definitivo della vita. Tutto questo dipende dall’azione svolta da Cristo, dai meriti da Lui acquisiti, ma di fatto si compie attraverso lo Spirito effuso da Cristo risorto e quindi attraverso l’attuale azione della sua Chiesa e dei suoi sacramenti. Questo modo di pensare a livello della pietà popolare è giunto fino al Concilio Vaticano II e in alcuni ambiti ecclesiali resta tuttora.
In realtà attribuire a Dio volontà vendicativa o punitiva non si concilia con l’immagine evangelica di Dio che, come aveva promesso nei profeti (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio nel momento in cui gli uomini rifiutavano in modo violento la proposta di Gesù e non accoglievano l’offerta della Nuova Alleanza. Il Dio rivelato da Gesù offre perdono di propria iniziativa e senza porre condizioni preliminari.
1.2. Modello intermedio. Nell’ultimo secolo si è sviluppata una tendenza sempre più rilevante a mettere in luce l’importanza dell’amore di Dio nelle dinamiche della salvezza, senza annullare l’impianto della teologia precedente ma trasformandolo dal di dentro. La teologia infatti da tempo si era resa conto che il mistero della croce non poteva essere interpretato adeguatamente considerando Cristo solo come colui che offre a Dio una riparazione per conto degli uomini. Anche S. Tommaso d’Aquino alla linea ascendente dell’azione di Cristo nei confronti del Padre (merito, soddisfazione, sacrificio, redenzione, espiazione 3 S. Th. Q. 48, 1-5), aggiunge la linea discendente con la dottrina della causalità strumentale di Gesù che comunica agli uomini la grazia meritata (3 S. Th. q. 48 a. 6). In questa prospettiva a metà del secolo XX fu riscoperta la funzione salvifica della risurrezione e si cominciò a parlare della croce/risurrezione o della Pasqua come unico evento di salvezza[11]. In tale prospettiva la missione di Gesù non consiste solo nell’offrire riparazione a Dio per i peccati degli uomini ma anche, e per alcuni soprattutto, nel trasmettere agli uomini quella forza spirituale che fa fiorire novità di vita. Questa è l’opera (ergon Gv. 4,34) compiuta da Cristo per salvarci: ha donato lo Spirito (“ricevete lo Spirito Santo” Gv. 20, 22) e ha perdonato i peccati. Il passaggio alla nuova prospettiva è avvenuto lungo tutto il secolo scorso attraverso passi lenti e acquisizioni progressive, prima all’interno del modello tradizionale e in seguito con un rinnovamento profondo che alcuni hanno definito “rivoluzione copernicana” nella soteriologia. Riporto alcuni esempi.
1.2.1. Come primo esempio riassumo l’esposizione di un manuale cattolico scritto alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, il Manuale di teologia dogmatica[12] di Bernard Bartmann, molto diffuso negli anni 40/60, tradotto in italiano dal teologo Natale Bussi nel 1951 e utilizzato come manuale in molti seminari cattolici. Riassumeva la dottrina della redenzione in questi punti essenziali[13].
- Fin dall’inizio Gesù aveva la consapevolezza del suo destino di morte. Dopo aver riportato una lunga serie di testi biblici, senza particolari attenzioni ermeneutiche l’autore conclude: “Non è più possibile dubitare che Cristo fin da principio abbia considerato e annunciato la sua morte come parte essenziale della sua opera messianica… per Gesù la morte dolorosa è lo scopo della sua venuta nel mondo”.
Questa affermazione contraddice di fatto Gesù che dichiara esplicitamente di essere venuto e di essere stato mandato “per predicare e annunciare il regno di Dio” (cfr Mc. 1, 32; Lc 4, 42-43).
- Egli avrebbe dato la ragione e spiegato il motivo della sua morte. “Nei Sinottici con le profezie ispirate da Dio, in S. Giovanni con l’ordine del Padre suo”.
A ben riflettere queste ragioni non riguardano la morte bensì la decisione di salire a Gerusalemme per continuare l’annuncio del Regno e sollecitare i responsabili del popolo alla conversione.
- “Cristo dà alla sua morte un significato obiettivo, indipendente, essenzialmente distinto dall’effetto soggettivo della predicazione e del buon esempio. Il suo sangue è versato per la remissione dei peccati e la sua carne è data per la vita del mondo. Se il peccato non fosse stata una realtà, non vi sarebbe stata la passione e la morte di Cristo”.
Il problema reale è: se stando il peccato era necessaria la morte per volontà del Padre o se la redenzione poteva accadere in altro modo. Se quindi la condanna e la morte sono stati un incidente per la decisione degli uomini o se invece sono risultato di una decisione divina.
- La spiegazione di queste ragioni sarebbero state indicate con chiarezza da Paolo “l’ardente predicatore, ma non l’autore della dottrina della morte sacrificale di Cristo”. “Secondo S. Paolo gli uomini sono tutti peccatori carichi di debiti verso Dio.. sono nemici di Dio…; ma Dio, in virtù di un piano eterno, vuole redimerli.. Ed ecco come: farà del Figlio suo unico il Mediatore e il Capo dell’umanità credente. Questi divenuto uno, misticamente e realmente con l’umanità, offre a nome di essa, con un amore sublime e una obbedienza suprema al Padre suo offeso dal peccato, il sacrificio della sua volontà; con questo tolse dall’umanità la maledizione della disobbedienza che grava su di essa da Adamo, la riconciliò con Dio, e fondò sulla terra una umanità nuova, la cui vita non riposa sulla grazia sola (Protestanti), né sulla esigenza della sola giustizia (Ebrei), ma, come quella del suo capo, sulla grazia e sulla giustizia insieme”.
- “Il motivo che spinge alla redenzione è l’amore. L’amore del Padre che dà volentieri il suo Figlio unico (Gv. 3,16); l’amore del Figlio che dà altrettanto volentieri la propria vita per le sue pecore (Gv 10,11). I capitoli sulla Chiesa e i sacramenti completavano la prospettiva per l’aspetto discendente della grazia, vincolata alla Chiesa.
1.2.2. Riflessi di una simile visione si ritrovano anche in noti teologi del nostro tempo sia cattolici che protestanti. Anche la Commissione teologica Internazionale in un documento del 1980 ha parlato della “sostituzione espiatoria” di Cristo e della sua “volontà di portare per procura la pena… e il peccato del genere umano”. Si dice che Gesù non fu “punito o condannato al nostro posto” ma che tuttavia “Cristo assume veramente la condizione dei peccatori”[14].
1.2.3. Il Catechismo della Chiesa cattolica raccoglie in modo sobrio tutte queste tradizioni: «con l’obbedienza fino alla morte, Gesù ha compiuto la sostituzione del Servo sofferente che “offre se stesso in espiazione” mentre porta “il peccato di molti”, e li giustifica addossandosi “la loro iniquità”. Gesù ha riparato per i nostri errori e dato soddisfazione al Padre per i nostri peccati»[15]. Citando poi il Concilio di Trento, che sottolinea «il carattere unico del sacrificio di Cristo come “causa di salvezza eterna” (Eb. 5,9)», il CCC ricupera anche la funzione del merito: “La sua santissima passione sul legno della croce ci meritò la giustificazione”[16]. Il CCC sottolinea fortemente la dinamica dell’amore in gioco nella redenzione: «il sacrificio di Gesù “per i peccati di tutto il mondo (1Gv 2,2)” è l’espressione della sua comunione d’amore con il Padre.. Questo desiderio di abbracciare il disegno d’amore redentore del Padre suo, anima tutta la vita di Gesù perché la sua passione redentrice è la ragion d’essere della sua Incarnazione..»[17]. La forza della redenzione è costituita dall’amore di Gesù: «è l’amore “sino alla fine” (Gv 13,1) che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrifici o di Cristo»[18]. Il valore universale dell’opera redentrice invece è attribuito alla “esistenza in Cristo della persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce capo di tutta l’umanità, rende il suo sacrificio redentore per tutti” [19].
1.2.4. Credo che anche la posizione di Jurgen Moltmann possa essere vista in questa prospettiva, con accentuazioni e sviluppi discutibili. Egli riconosce che “al centro della fede cristiana sta la storia di Cristo e al centro della storia di Cristo la sua passione e morte in croce”[20]. Per lui “riprendere oggi la teologia della croce significa evitare le unilateralità della tradizione e capire il Crocifisso alla luce del contesto della sua risurrezione, quindi anche della libertà e della speranza. Riprendere oggi la teologia della croce significa varcare i limiti della dottrina soteriologica e interrogarsi sulla rivoluzione operatasi nel concetto di Dio: Chi è Dio sulla croce del Cristo abbandonato da Dio”[21]. Egli infatti sostiene che nel Figlio il Padre stesso soffre: “è Dio stesso che nel Figlio messianico soffre i dolori dell’abbandono da Dio”[22]. “In questa teologia il grido di Cristo crocifisso: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34) viene interpretato come espressione del ripudio del Padre e della disperazione del Figlio”[23].
Ma veramente Gesù è stato abbandonato da Dio? O l’esperienza di Gesù di essere abbandonato è la partecipazione alle sofferenze estreme che implicano appunto la percezione dell’abbandono sostenuto di fatto da un amore che consente di attraversare l’esperienza di abbandono continuando a esercitare fiducia e quindi a rivelare l’amore che salva? Credo che sia questo che ha impedito a Moltmann di vedere in Cristo l’icona della misericordia di Dio, che non abbandona il sofferente ma lo ama al punto da esprimere in colui che sperimenta l’abbandono, una potenza di amore che nella morte fa fiorire la vita. È proprio vero che “il messaggio del dolore di Dio è la lieta novella?”[24]. È proprio vero che “di fronte all’interrogativo del dolore, di fronte alla tragicità del nulla che in esso si affaccia, la parola della croce risuona come «evangelo» anche per gli uomini di oggi” e che “i cristiani non cessano di proclamarlo?”[25].
1.2.5. Maurizio Flick già negli anni ‘70 osservava: “la teologia contemporanea, pur accogliendo il messaggio sulla salvezza operata per mezzo della croce di Cristo, considera criticamente gli schemi giuridici usati nelle varie teorie della ‘soddisfazione vicaria’. In particolare si fanno forti riserve riguardo alla concezione secondo cui Cristo deve esercitare un influsso sul Padre perché questi perdoni all’umanità”[26]. Cristo infatti morto e risorto “viene costituito fonte per la sua Chiesa del dono dello Spirito, dando a coloro che credono in lui la possibilità di vivere una vita di sottomissione filiale al Padre simile alla sua. Nel Vangelo quindi si rivela «la giustizia di Dio», non in quanto Dio esige una riparazione dei peccati, ma in quanto appare la fedeltà di Dio alle sue promesse salvifiche che si adempiono definitivamente in Cristo. L’iniziativa della redenzione viene dal Padre che per mezzo del Figlio riconcilia a sé il mondo, che egli amò e continua ad amare malgrado i guasti introdottivi dal peccato”.
Resta la tendenza ad attribuire la morte di Gesù ad una specifica volontà del Padre. Anche se si precisa bene l’oggetto della volontà divina (= la fedele carità di Gesù), non si giunge a dire che la croce è un evento contrario al volere di Dio. Dopo aver scritto che “Ebrei e pagani si accordano nell’eliminare Gesù dal loro mondo per diversi motivi immediati, ma in ultima analisi obbedendo alle esigenze dell’egoismo assolutizzato”, Flick prosegue: “Il Padre ‘vuole’ la croce, non come una sofferenza aggiunta alla vita di Gesù, non come un decreto speciale estrinseco, ma vuole la fedele carità di Gesù che è pronta ad andare fino alla croce, e che provoca la resistenza crocifiggente del mondo”. Più esattamente si dovrebbe dire che Dio non vuole la croce, bensì la fedeltà di Gesù all’amore anche quando gli uomini lo vogliono in croce. Il dato incidente, in ogni caso, è la prevalenza dell’amore di Dio e l’unità dell’evento pasquale: morte e risurrezione.
Resta tuttavia ancora qualche elemento della prospettiva ascendente: Gesù offre qualcosa al Padre per ottenere salvezza per gli uomini. Ciò appare anche nella sintesi sulla teologia della croce scritta da Flick assieme al confratello e collega Zoltan Alszeghy: Il mistero della Croce[27]. In essa tra l’altro essi rimproverano a Moltmann di presentare la croce in modo dialettico così che “la croce redime, non soddisfacendo, meritando e causando la gloria, ma in quanto la morte totalmente accettata fa passare dialetticamente alla risurrezione”[28].
Perché mai Dio non avrebbe potuto fare a meno della croce?
1.2.6. Man mano che la passione e morte vengono collegate alla risurrezione nell’unico evento pasquale, la componente discendente della salvezza acquista sempre maggiore rilevanza al punto che l’espiazione e la soddisfazione rimangono più per il peso della tradizione che per intrinseca esigenza e profonda convinzione.
1.2.7. Tuttavia questo modello benché introduca una componente discendente e si richiami all’amore di Dio, presso molti teologi resta ancorato all’idea della soddisfazione da offrire a Dio per ottenere il perdono dei peccati. Per il peso delle formule tradizionali più che per logica interna, attribuisce a Dio una volontà di giustizia vendicativa o punitiva che mal si conciliano con la rivelazione del Dio misericordioso del Vangelo. Anche quando supera questi schemi giuridici, il modello rimane legato alla funzione pedagogica ed esemplare della croce “voluta da Dio”. Non viene spiegato come mai l’amore esigeva proprio questa strada e perché non avrebbe potuto trovare altre vie. Il richiamo all’amore è a volte forzato, estrinseco. Non si capisce perché l’amore di Dio non avrebbe potuto esprimersi con la remissione gratuita del peccato. Vale quanto scriveva esemplarmente Maurizio Flick della teoria anselmiana “lascia senza risposta le domande perché Dio debba esigere una soddisfazione (invece di perdonare gratuitamente) e perché soltanto la croce costituisca una soddisfazione (e non basti la conversione della volontà)”[29].
1.3. Modello puramente discendente.
Le aporie e le contraddizioni risorgenti nel modello misto hanno condotto allo sviluppo di un terzo modello, esclusivamente discendente. Mentre nella visione precedente lo sguardo rivolto a Gesù redentore era centrato sulla croce ancora come espiazione o soddisfazione e quindi considerava la sofferenza una delle ragioni di salvezza, la prospettiva discendente si riferisce alla testimonianza di amore che Cristo ha offerto in modo sublime sulla croce e alla forza dello Spirito che ha immesso nella storia umana per la sua fedeltà alla testimonianza dell’amore. La componente ascendente (ciò che Gesù offre a Dio per la salvezza dell’uomo) è scomparsa completamente e la croce è divenuta il simbolo della misericordia di Dio che, come aveva promesso (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio quando i responsabili del popolo rifiutavano in modo violento l’offerta e non riconoscevano il tempo della Nuova Alleanza offerta in Gesù. Molte pagine bibliche dicono con chiarezza che Gesù ha ricevuto da parte di Dio la missione di trasmettere agli uomini una parola di misericordia, la potenza dello Spirito Santo. A coloro che sono “stanchi e oppressi” Gesù promette: “troverete ristoro” (Mt. 11,28). Dio non ci ha salvato in Cristo perché ha ricevuto da Lui una adeguata riparazione, bensì perché per mezzo di Lui ha offerto agli uomini doni di vita. La croce in questa prospettiva appare un evento contingente, determinato dal rifiuto umano di accogliere il Vangelo della grazia. Proprio per questo la sua testimonianza è preziosa: mostra che ogni evento, anche ingiusto e contrario al volere divino, può essere vissuto in modo salvifico. Il suo valore salvifico però non sta nella sofferenza che merita perdono, ma nella gratuità dell’amore di Cristo “che ha amato sino alla fine” (cfr Gv. 13, 1), ed è divenuto “icona” dell’amore misericordioso del Padre, strumento dello Spirito che ha effuso.
In se stessa la croce è contraria al volere di Dio
Per capire bene questo tragitto sarà necessario richiamare i fondamenti della soteriologia. Una volta scoperta l’importanza del dono fatto da Dio agli uomini attraverso il Figlio, la croce non fu vista come evento a se stante, bensì come la conclusione della lunga testimonianza di amore che Gesù ha offerto durante tutta la sua esistenza. In se stessa la croce è contraria al volere di Dio, conseguenza necessaria del rifiuto opposto alla proposta di conversione fatta da Gesù. Egli è stato costretto dagli uomini a continuare la missione redentrice in situazioni drammatiche e violente, rivelando così un Dio che continua ad amare anche quando infuria la violenza e l’odio, ed è dalla parte di chi soffre. La croce è il momento in cui l’amore di Gesù ha raggiunto un vertice eccelso “Egli ha amato sino alla fine” (Gv. 13,1) e risorgendo ha rivelato la potenza vivificante dell’amore. La croce diventa in tale modo il simbolo dell’azione divina che con la forza dell’amore può trasformare gli eventi anche più negativi della storia umana in storia di salvezza. La componente ascendente della salvezza risiede solo nel cammino dell’uomo Gesù e di ogni uomo che, al suo seguito, “condotto dallo spirito” (Rom. 8,14) perviene all’identità filiale.
In questa luce è possibile reinterpretare tutte le formule bibliche relative alla croce di Gesù come sacrificio, espiazione e le interpretazioni teologiche relative alla soddisfazione.
1.3.1 Sacrificio
Il termine sacrificio abitualmente viene intese in senso ascendente,[30] come un’offerta fatta dall’uomo a Dio. Ma in senso biblico il termine ha un significato più complesso. In ambito ebraico i sacrifici “erano ritenuti come istituzioni autorizzate da Dio attraverso cui si poteva ricevere la grazia salvifica. In secondo luogo erano riti tramite i quali ci si impegnava a vivere e morire nell’obbedienza a Dio. Ciò potrebbe suonare paradossale, ma persino nell’Antico Testamento, la direzione primaria dell’autentico sacrificio sembra chiara: da Dio all’umanità piuttosto che dalla umanità a Dio”[31]. Potremmo dire che sacrificio indica l’azione divina che riserva a se una realtà per inserirla nelle dinamiche della storia salvifica. Il corpo di Gesù è stato riservato a Dio fin dall’inizio, o meglio Dio ha riservato per sè il corpo di Gesù per giungere ad esprimere tutta la perfezione della sua offerta di vita agli uomini. In questo senso la lettera agli Ebrei applica a Gesù il salmo 39/40 “Non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto, ecco io vengo per fare o Dio, la tua volontà”(Eb. 10, 5-7). Se ricordiamo che nella prospettiva dinamica l’azione creatrice non si sostituisce mai alla creatura ma la costituisce vivente e operante dobbiamo dire: “ciò che Dio offre a Gesù di fare, Gesù stesso lo compie liberamente”. Betz J. con formule ancora incerte ma ben orientate nell’ottavo volume di Mysterium salutis scrive: “Lo stesso sacrificio della croce… non è soltanto passività, ma anche azione dell’uomo Gesù… Per quanto tutto debba essere ricondotto all’azione salvifica di Dio, quest’ultima non esclude un’attività propria della creatura spirituale nell’atto salvifico, ma al contrario l’include, la precede con la grazia, in modo che il movimento verso l’alto è reso possibile soltanto da un movimento dall’alto”[32]. Cosa significa quindi che la croce è sacrificio? Significa che nella croce in Gesù il Dabar divino, il Logos del Padre ha potuto esprimersi in tale modo da iniziare la nuova tappa dell’alleanza. Gesù si è reso disponibile a Dio in modo compiuto e definitivo, senza residui. Solo in questo senso la croce può essere detto sacrificio. Quando Paolo scrive ai Romani: “Dio che non risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato in sacrificio per noi tutti, come non ci darà in dono, assieme a lui, tutte le cose?” esprime una dinamica oblativa, discendente. In questa linea deve essere letta l’azione di Cristo: “Cristo vi ha amato e ha offerto se stesso per noi oblazione e sacrificio di soave odore a Dio” (Ef. 5, 2) e “Gesù Cristo.. ha dato se stesso per noi allo scopo di riscattarci da ogni iniquità e purificare per sé un popolo che gli appartenga esclusivamente” (Tit 2, 13). Dio ha suscitato l’azione con cui in Gesù ci ha purificati, ci ha riscattati dalla schiavitù del peccato, ha ristabilito l’alleanza.
1.3.2. Espiazione
Nella tradizione ebraica esiste una festa chiamata giorno della purificazione (yom kippur ) o delle espiazioni (yom hakkipurîm), descritta dettagliatamente nel libro del Levitico[33]. Il rito risulta da due tradizioni, fuse nel dopo/esilio: la prima consisteva nel sacrificio di un montone, sacrificato per le colpe commesse durante l’anno dal Sommo sacerdote e da “tutta la comunità di Israele”. La seconda è costituita dal rito del capro espiatorio[34]. L’uccisione rituale del montone serviva a procurare il sangue che veniva raccolto, portato nel Santa sanctorum, asperso sul kaporet o propiziatorio, l’aurea lamina che sostituiva l’arca nel secondo tempio, e poi versato sull’altare. A proposito del rituale trasmesso dal Levitico, G. Deiana dopo una dettagliata ricostruzione storica conclude: “Si nota un graduale ampliamento dei riti espiatori: mentre infatti in Ez. 45, 18-20 una sola vittima espia e purifica, già in Lev. 9 si nota una procedura più complessa: le vittime di espiazione diventano due (una per Aronne e una per il popolo). In Lev. 16 vengono raddoppiati anche i riti di sangue (vv. 14-15) e le aspersioni diventano sette (vv.18-19). Come se tutto ciò non bastasse, viene introdotta la cerimonia del capro emissario che, a rigor di logica, non avrebbe ragion d’essere, visto che le colpe erano già state eliminate dai riti precedenti. Si ha quasi la sensazione che la moltiplicazione dei riti nasconda una certa sfiducia nei medesimi”[35].
Il significato simbolico del rito deriva dalla convinzione che il sangue fosse la sede della forza vitale comunicata da Dio, e che, inserito in un rito sacro, fosse l’ambito della sua azione salvifica. Il sangue a contatto del kaporet e posto sull’altare era come caricato di potenza divina, in grado di riversare sul popolo intero la benedizione e la misericordia di Dio. “Il motivo per cui Dio ha dato il sangue da porre sull’altare è che quel sangue.. espia mediante la vita che è contenuta in esso. Ciò significa che il sangue.. toglie il male che.. è sorgente di rovina e, per l’uomo, di morte.. Il testo ebraico quindi assegna, senza ombra di dubbio, la funzione espiatrice al sangue in quanto principio di vita. La morte dell’animale,.. assume un ruolo secondario: è soltanto il presupposto per avere lo strumento della vita”[36]. Il messaggio fondamentale quindi del sacrificio di espiazione è che la forza divina concentrata nel sangue dona vita e purifica dai peccati.[37]
Espiare vuol dire perdonare, l’espiazione quindi non è nostra ma di Dio
Il termine biblico espiazione quindi non ha il significato attuale di “scontare un peccato, una colpa, sostenendone la pena o il castigo”[38] “pagare il fio della propria o dell’altrui colpa”. I termini ebraici relativi all’espiazione si riferiscono ad un’azione purificatrice di Dio che si esercita abitualmente attraverso il sangue, ma che di per sé non implica la sofferenza del peccatore come pena del peccato commesso. Nella concezione ebraica, la punizione del peccato da parte di Dio avveniva attraverso gli eventi storici e le conseguenze tragiche delle scelte negative. Il sacrificio di espiazione costituiva, invece, la fine del dissidio con Dio dato che era il momento della riconciliazione e il sangue esprimeva la potenza riconciliatrice della misericordia divina. “Il soggetto dell’espiazione quindi è Dio il quale attiva il suo perdono attraverso il rito espiatorio. L’azione espiatrice inoltre, viene esplicata mediante la purificazione dell’offerente il quale, attraverso la sacralità del sangue, rientra in sintonia con la divinità”[39]. R. Fabris riferendosi a queste riflessioni conclude: “Nel rituale dell’espiazione il soggetto del verbo kipper, «espiare» è Dio, per cui questo «espiare» equivale a «perdonare». In tale contesto non trova posto l’idea dell’espiazione vicaria dove la vittima o il sangue dell’animale ucciso sta al posto dell’offerente peccatore”[40]. In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione biblica. Dio purifica il peccatore, ‘copre’ i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto.(Cf Ger. 31, 34 che parla della nuova alleanza). .
A una conclusione analoga giunge E. Wiesnet partendo dall’analisi dei termini relativi alla giustizia divina. Egli dopo aver mostrato che “secondo la Bibbia tutte le sanzioni nei confronti delle condotte umane sbagliate devono avere carattere di «riconciliazione»”, riguardo al significato dell’espiazione, dal punto di vista antropologico, conclude: “in futuro anche il concetto di «espiazione» non potrà più essere distrattamente espresso con un semplice «pagare sopportando l’imposizione di un male penale»! Simile modalità tradizionale di comprendere l’«espiazione» non è altro che una variante mimetica del termine «retribuzione», rispetto alla quale dall’intelligenza complessiva della Bibbia non è possibile trarre legittimazione alcuna. Come «espiazione in senso biblico» può intendersi solo lo sforzo reciproco della società e dell’agente di ricostruire fra loro la comunione turbata e ferita dal reato. Dal punto di vista cristiano, l’espiazione deve essere vista come processo dialogico di riconciliazione, non come offerta unilaterale e passiva di soddisfazione in rapporto all’inflizione di un male penale”[41].
In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione come nel Nuovo Testamento viene ricordata da Paolo (Rom. 3, 25: “lo ha prestabilito come strumento di espiazione” (strumento di espiazione o propiziatorio è il kaporeth: su cui veniva versato il sangue per potenziarlo nella sua dinamica purificatrice) e nella prima lettera di Giovanni (1 Gv 2,2: vittima di espiazione per i nostri peccati; 1 Gv. 4,10: (Dio) “ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”). Dio purifica il peccatore, copre i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto, come aveva preannunciato Geremia: “perdonerò le loro iniquità, non mi ricorderò più dei loro peccati” (31,34). Usare il termine ‘espiazione’ con il significato che ha oggi risulta perciò erroneo.
1.3.3. Soddisfazione
Tanto più è ambiguo e insensato il termine di ‘soddisfazione’ come dal medioevo in avanti era stato attribuito a Gesù. Il termine “soddisfazione” non è biblico. Significa “risarcimento o riparazione dovuta per aver procurato o subito un danno o un’offesa”[42]. È stato utilizzato nella tradizione per esprimere il compenso che Gesù avrebbe offerto a Dio per le offese ricevute dagli uomini peccatori. Il senso antropomorfico del termine ha inquinato per molti secoli la soteriologia: nelle sue diverse coniugazioni è da abbandonare. Greshake G., osserva che S. Anselmo “è il primo che costruisce esplicitamente la soteriologia sull’assioma ‘aut satisfactio aut poena’ che Tertulliano aveva sviluppato nella teologia della penitenza”[43].
Il termine “soddisfazione” è insensato: Dio non deve essere soddisfatto
Molti teologi oggi difendono la teoria anselmiana contro le deviazioni che essa ha subito nella storia. Dal punto di vista storico essi hanno forse ragione, ma certamente l’impostazione anselmiana dipendeva dai modelli giuridici del tempo che egli aveva studiato a Padova nella sua giovinezza. Gonzalez riassume in modo corretto il pensiero del teologo medioevale: “Sant’Anselmo nega che il Padre abbia inviato il Figlio suo per morire in croce (sarebbe ingiusto far morire un giusto al posto dei peccatori), ma lo ha mandato al mondo con la missione di predicare il Vangelo; il Figlio ha trovato la morte per fedeltà (obbedienza) a questa missione, rifiutata dagli uomini. Dal momento che gli uomini avevano peccato, erano incapaci di ‘soddisfare’ per il loro peccato (che consiste nell’offendere Dio venendo meno all’ordine che Egli ha stabilito); si può soddisfare solo offrendo più di quello che è dovuto, ma tutto ciò che l’uomo ha o fa (inclusa la morte) egli lo deve. Dunque per lui può soddisfare solamente Gesù Cristo (se Dio vuole mandarlo) perché la sua morte (non essendo Egli peccatore) non gli è dovuta, ma può accettarla per pura generosità e libertà”[44].
Ma oggi non c’è nessun motivo per utilizzare questa categoria: Dio non deve essere soddisfatto. Dio giustifica gratuitamente, per grazia. In Gesù egli rivela e realizza questa sua decisione.
1.3.4. Gesù reso peccato.
Vorrei terminare questa prima parte spiegando in che senso, nella prospettiva dell’iniziativa misericordiosa di Dio Paolo possa dire: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore[45], perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Cor. 5, 21). Non intendo dichiarare che cosa Paolo pensasse scrivendo queste righe, ma desidero cogliere la verità ulteriore che nella prospettiva dinamica è possibile far emergere. Che cosa fa Dio di fronte al peccato secondo Gesù?: esercita misericordia. Che cosa ha fatto Dio in Gesù a nostro favore? Ha riversato in lui la sua misericordia infinita perché tutti noi fossimo percorsi dalla forza con cui Dio solleva l’uomo dal suo peccato. Dio ha considerato Gesù “peccato” significa quindi: “lo ha reso icona della misericordia divina per i peccati di tutti gli uomini”.
- La croce e le religioni.
Alle diverse opinioni sulla natura delle redenzione operata da Dio in Cristo, corrispondono diverse valutazioni della funzione salvifica delle religioni. Finché la teologia è rimasta ancorata al modello soteriologico ascendente di fatto ha avuto molta difficoltà a cogliere il valore salvifico delle religioni, perché queste venivano considerate oggetto della salvezza realizzata da Cristo nell’offerta fatta al Padre con la morte in croce. Gesù aveva meritato per tutti gli uomini, aveva soddisfatto per il peccato di tutti gli uomini, ma i benefici della redenzione erano vincolati alle strutture sacramentali della Chiesa, o alla Chiesa come sacramento di salvezza.
Con il cambiamento di paradigma la teologia è pervenuta ad una nuova valutazione della funzione salvifica delle religioni e attraverso la croce ha individuato criteri di valutazione delle religioni: le religioni sono l’ambito dove l’azione divina purificatrice, rivelata ed esercitata definitivamente in Gesù, trova molteplici modalità di espressione. Per cui i vari credenti si salvano attraverso l’appartenenza alla loro religione quando accolgono e vivono le stesse dinamiche messe in atto da Gesù sulla croce, indipendentemente dal fatto che essi lo sappiano a meno.
L’evento salvifico e rivelativo non si può ridurre all’interpretazione che ne hanno dato gli attori, gli spettatori e tanto meno le comunità cristiane lungo i secoli. L’evento come tale è accaduto, apre la porta a tutti. Il salto qualitativo dell’umanità si è realizzato. Ora è a disposizione di tutti: “stat crux dum volvitur orbis”[46].
Il problema che resta da esaminare è come di fatto si stabilisca il rapporto delle religioni con l’evento salvifico significato e realizzato nella croce. Se c’è una dimensione storico/oggettiva dell’evento-croce che può essere accolta e vissuta senza riferimento alle interpretazioni cristiane dell’evento, anche se la sua diffusione può essere fortemente vincolata alle testimonianze che i cristiani danno della sua efficacia, la teologia cristiana delle religioni ha una ragione per affermare il loro valore salvifico. Per la salvezza è necessaria l’accoglienza, l’acquisizione delle qualità umane espresse nell’esperienza della croce, l’interiorizzazione del flusso di vita inserita nella storia umana da Cristo. È necessario l’atteggiamento di sintonia con le dinamiche diffuse da Cristo nel mondo, attraverso la fede non tanto come dottrina o interpretazione dell’evento, quanto come atteggiamento vitale. Anche in prospettiva cristiana l’evento non si identifica con la sua interpretazione. In questo senso la croce è prima di tutto criterio di vita. Chi segue i criteri vitali offerti dalla croce è nell’ambito della salvezza, sulla via del compimento.
2.1. Croce criterio di valutazione salvifica
Ci sono numerosi altri eventi che hanno segnato un salto qualitativo per l’umanità: l’inizio del linguaggio articolato, ad es., l’inizio della scrittura, la domesticazione delle piante e degli animali con l’inizio dell’agricoltura e della pastorizia, le illuminazioni e le esperienze storiche che stanno all’origine di molte religioni. La croce, come evento salvifico rappresenta un salto della specie umana a livello spirituale. Una mutazione spirituale che può essere trasmessa.
Per capire bene occorre ricordare che tutto ciò che Dio ha potuto compiere in Cristo l’ha compiuto nella morte. Dopo la morte il corpo non più disponibile ad una azione divina. L’energia personale è già stata concentrata nella nuova forma di esistenza. Anche la risurrezione è conseguenza di ciò che è accaduto nella morte: concretamente la risurrezione è l’esplosione dell’amore che Dio è riuscito a far fiorire nella creatura umana.
In questo senso la croce diventa un criterio di valutazione di tutte le esperienze religiose, comprese le cristiane. Anch’esse sono soggette al criterio della croce. Per la Chiesa, soprattutto per lei che ne celebra continuamente la memoria, resta sempre la tentazione di “rendere vana la croce di Cristo” (cfr 1 Cor. 1,17). Se la croce è un criterio intrinseco ai processi vitali e a ogni dinamica religiosa, tutto ciò che la contraddice esprime insufficienza vitale. Il criterio non è estrinseco perché l’evento pasquale ha inserito una dinamica di salvezza all’interno della storia per cui è diventata una componente dell’evoluzione umana, Gesù vivendo la croce nella fedeltà all’amore ha introdotto una mutazione salvifica. “Fintanto che su questa terra ci saranno gli uomini, il Cristo risorto dovrà renderli capaci di affrontare le lotte e le battaglie della vita con la sapienza della croce, che ha governato anche la sua vita terrena”[47]. Il cristiano può diventare testimone della validità dei criteri che la croce offre all’interno della storia salvifica. Ne esamino alcuni.
2.1.1. Partendo dall’esterno la croce è il simbolo di un conflitto religioso. Un conflitto all’interno della religione ebraica ha portato Gesù sulla croce. In questo senso la croce è il risultato dell’aspetto violento della religione e nei suoi effetti storici mostra la liberazione che Gesù ha effettuato dalla religione. Le religioni sono salvifiche nella misura in cui offrono principi per portare la violenza umana senza entrare nei meccanismi reattivi o mimetici. In tale modo si aprono alla non violenza.
2.1.2. La croce è il simbolo di una universalità resa possibile dal sacrificio di una particolarità. S. Paolo afferma che Gesù, pendendo dalla croce ha riscattato dalla maledizione della legge non solo noi; ciò è avvenuto perché in lui “la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede” (Gal. 3,14). Questo è un compito che ci è affidato: trasmettere la benedizione di Abramo alle genti. Il dialogo ha anche questa funzione. Osserva Geffré: “Gesù muore alla sua particolarità per rinascere in figura di una universalità concreta, in figura di Cristo”. È già nella croce che avviene questa universalizzazione. “Alla luce del mistero della croce, comprendiamo meglio che il cristianesimo lungi dall’essere una totalità chiusa, si definisce in termini di relazione, di dialogo e persino di mancanza. È la kenosi di Cristo nella sua uguaglianza con Dio che permette la risurrezione”. “Come amava dire Michel de Certeau, il cristianesimo si fonda su un’assenza originaria. È la tomba vuota, l’assenza del fondatore che fu la condizione per l’avvenimento del corpo della comunità cristiana primitiva e del corpo delle scritture”[48].
Come criterio salvifico delle religioni la croce diventa il segno dell’universalità che sa fiorire nella particolarità delle situazioni storiche, dal di dentro, senza vanificarle.
2.1.3. Continuando in questa linea si potrebbe fare un passo ulteriore e dire che la croce diventa l’universalità di Dio perché è il segno della sua trascendenza. Ogni presenza locale di Dio sarebbe particolare, richiamerebbe un popolo, una cultura, una religione. Sul Calvario Dio è assente come il Dio di Israele che attendeva il Messia, si fa presente come “forza arcana” (NAe 2) che suscita amore, perdono, abbandono fiducioso in Gesù. Il grido di Gesù è l’esperienza dell’assenza di Dio di un popolo solo, del Dio che modifica la storia, che nella sua potenza annullerebbe la libertà degli uomini. Diventa il segno della sua tenerezza che sostiene l’uomo suscitando in lui la forza d’amare e il rifiuto della disperazione, quando trova l’accoglienza fiduciosa del Figlio.
Come criterio salvifico delle religioni la croce indica la misura dell’universalità nel far scomparire Dio nella particolarità assunta attraverso l’immagine e farlo presente attraverso l’amore dell’uomo.
2.1.4. La croce è il simbolo della imprescindibilità della sofferenza. Essa è un momento necessario della crescita dell’umanità. Non è un incidente, ma una componente necessaria.
A parte la modalità storica, l’occasione concreta della morte di Gesù, la sofferenza, la violenza, la morte sono componenti necessarie nella evoluzione della vita e della specie umana. Non riconoscere questa necessità conduce a relativizzare la croce a contingenza assoluta. Dio non può fare che la creatura giunga a pienezza di vita senza la sofferenza e la morte. Per questo egli è dalla parte dell’uomo che investe del suo amore perché possa emergere dal male fino al compimento.
Le religioni sono salvifiche quando sanno indicare le ragioni della sofferenza e offrono indicazioni di come attraversarla.
2.1.5. La croce è simbolo dell’amore che sconfigge la morte. Le situazioni negative dell’esistenza personale e comunitarie possono essere attraversate in modo salvifico. È difficile immaginare una situazione di ingiustizia e di violenza più drammatica di questa. Ma anche se esistesse, il criterio della croce varrebbe allo stesso modo. Il male può essere sconfitto solo dalla misericordia che offre vita. Le religioni sono salvifiche nella misura in cui hanno ragioni per insegnare ad amare anche nelle situazioni negative. La croce è l’indicazione della possibilità di dare un senso alla sofferenza, al male e alla morte. Della possibilità cioè di attraversare il male producendo vita, di esercitare la non violenza nel cuore della violenza in modo da diffondere nuovi stili di vita. “La croce non spiega il male, ma può dargli un senso, e con ciò diminuirne il peso. Infatti ogni sofferenza ha anche un coefficiente soggettivo umano ed è più sopportabile quando colui che soffre scopre ed apprezza un risultato positivo che è conseguenza della sofferenza oggettiva. Ora il credente nella luce del discorso sulla croce, scopre che il male per lui può avere una funzione positiva, in quanto, lottando contro il male evitabile, e sopportando pazientemente il male inevitabile, conformandosi a Cristo e sotto l’influsso della grazia di Cristo, egli può ottenere valori positivi per sé e per gli altri”[49].
La religione è salvifica nella misura in cui aiuta a rendere positiva la sofferenza.
2.1.6. La croce è criterio della compassione necessaria per coloro che soffrono. “Il modo autentico per essere veramente devoti a Cristo in croce è quello di dedicarsi a servire con compassione e con efficacia i membri del suo corpo che ora condividono le sue sofferenze. Basterà che questa luce della fede illumini il vivo interesse sociale del popolo cristiano, e Cristo in croce e coloro che sono afflitti e oppressi verranno visti all’interno di una medesima visuale”[50]. Si adempiranno allora le parole di Gesù: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40).
2.2. La funzione salvifica delle religioni
Di per sé nella prospettiva ascendente nulla avrebbe impedito a Dio, una volta placato dal sangue di Cristo di riversare la sua grazia su ogni uomo, dato che la volontà salvifica di Dio è universale. Le religioni erano fuori dai canali di distribuzione dei meriti acquisiti da Cristo solo per il fatto che senza Gesù Cristo (per dirla con Karl Barth della Römerbrief[51] o del noto paragrafo 17 della Dogmatica ecclesiale) le religioni restavano nell’illusione della idolatria non avevano la possibilità di conoscere la propria condizione di incredulità o, per dirla con la dogmatica cattolica del tempo non potevano attingere ai canali della grazia perché “fuori della Chiesa non c’è salvezza”[52].
Di per sé tutte le affermazioni neotestamentarie relative all’unicità della salvezza operata da Cristo nella prospettiva discendente potrebbero essere giustificate. L’offerta fatta da Dio agli uomini è universale. Nella misura in cui prevale la dimensione discendente della salvezza le religioni acquistano una funzione salvifica perché l’aspetto discendente dall’azione creatrice si esprime nella storia da sempre e la croce è il luogo dove appaiono definitivamente le leggi della azione salvifica o delle dinamiche della storia.
L’incontro con le altre religioni è quindi la ricerca del Dio nascosto che trascende tutte le particolarità, della sua azione salvifica che in Cristo scopriamo in modalità universali.
Interrogativi
Vorrei terminare con due interrogativi sottesi a tutta la riflessione. Non offro risposte perché forse ora non sono possibili, ma portare le domande e lanciarle continuamente non potrebbe essere il modo di continuare il dialogo con tutti senza pretendere per ora la soluzione?
3.1. Se la rivelazione consiste in eventi accompagnati da parole, l’interpretazione che gli attori degli eventi e i loro testimoni hanno dato degli eventi stessi, sono per noi vincolanti? Il problema si è posto in modo drammatico già più volte nella storia: quando si è trattato della teoria eliocentrica: quando Gesù diceva “Padre che è nei cieli” si riferiva a una particolare visione del mondo che ha resistito fino a Copernico. Molti credenti hanno posto resistenze per secoli al cambiamento. Oggi è pacifico che su questo non dobbiamo pensare come Gesù. Quando si è trattato della creazione e dell’origine della vita si è posto un problema analogo. Oggi finalmente siamo liberi di pensare in modo diverso. Non potrebbe valere lo stesso criterio con i modelli soteriologici dei primi cristiani? Gli eventi sono più significativi delle interpretazioni; i nuovi significati possono emergere a distanza dai frutti conseguenti. Non dobbiamo oggi liberarci definitivamente di queste modalità di leggere l’avventura di Gesù e affidarci senza riserve al flusso della vita che proviene da Dio testimoniando la ricchezza espressa in Gesù sapendo che anche altrove le stesse ricchezze possono fiorire?
Una sinfonia differita
3.2. Il compimento a cui l’uomo tende è certamente molto più profondo e denso di quanto ci sia dato comprendere nelle anticipazioni della nostre piccole esperienze storiche. Non potrebbe essere che le molteplici forme della spiritualità umana fiorite siano pallidi riflessi di quel compimento che in Dio l’umanità troverà e che solo alla fine sarà visibile nella sua pienezza? La suggestiva immagine di P. Duquoc della sinfonia differita[53] non potrebbe suggerirci di non pretendere la compiutezza e di cercare con pazienza le vie del cammino sicuri del traguardo, ma insieme curiosi dei diversi tragitti e soprattutto desiderosi di ascoltare la sinfonia nella sua completezza, alla fine quando Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,28)?
[1] Gli atti sono pubblicati in: La Parola della croce. Interrogativi e speranze per l’ecumenismo e il dialogo (Ancora Milano).
[2] La Bibbia Emmaus nota a Gv 20,30: “l’espressione usata qui dall’evangelista è singolare: dopo aver riconosciuto che la propria missione era compiuta, Gesù rese lo spirito invece di esalò lo spirito… segno della piena libertà anche nella morte e,secondo alcuni, un anticipo del dono dello Spirito Santo” S. Paolo, 1998 p. 1935.
[3] La crocifissione perciò è un atto di insipienza, come tale non è un evento salvifico: Cristo l’ha resa potenza e sapienza di Dio. Edith Stein nella sua ultima opera scrive: “Il Vangelo di Paolo è proprio questo: la dottrina della Croce, il messaggio che egli annuncia ai Giudei e ai Gentili. Si tratta di una testimonianza lineare, senza alcun artificio oratorio, senza alcun sforzo di convincere facendo leva su argomenti di ragione. Essa attinge tutta la sua forza da ciò che annunzia. Ed è la Croce di Cristo, ossia la morte di Cristo in croce, lo stesso Cristo crocifisso. Cristo è la potenza di Dio, la sapienza di Dio non soltanto perché inviato da Dio… ma precisamente perché Crocifisso” Scientia Crucis. Studio su S. Giovanni della croce, Postulazione generale dei Carmelitani scalzi, Roma 19822 p. 37.
[4] È questo uno degli otto casi in cui Paolo usa la formula “fede di Cristo” pistis Christou riferita soprattutto all’esperienza di Gesù in croce: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. Paolo Domenico Dognin, domenicano in “La fede di Gesù in S. Paolo”, (Revue des Sciences Phil. et Théol. n. 4/2005 pp. 713-728) ricordava che già dal 1891 uno studio sulla lettera ai Romani dell’esegeta tedesco J. Haussleiter sottolineava l’importanza della distinzione fatta da S. Paolo tra la fede di Gesù in Dio e la nostra fede in Gesù. All’inizio del secolo scorso (1906) un altro celebre esegeta tedesco, G. Kittel, “deplorava il fatto che quell’articolo non avesse avuto l’accoglienza che meritava”. La croce è la rivelazione della fede del Figlio di Dio (Gal 3,23 e 2,20). Se l’essenziale dell’esperienza di Gesù sulla croce è la sofferenza sostenuta per amore, argomenta Dognin, “si penserà che sono queste sofferenze a salvarci. Ma se questo «essenziale» è una fede umana che sopporta vittoriosamente un parossismo di sofferenza tentatrice, pervenendo in tale modo a una ineguagliabile «perfezione», si dovrà giustamente pensare che a salvarci sia questa fede vittoriosa. Si scoprirà allora che per la sua fede donata «al Cristo», il fedele ottiene il privilegio inaudito di poter vivere la sua povera fede in simbiosi con la fede invincibile «del» Figlio di Dio (Gal 2,20) in senso proprio” (ib p. 713). Cfr anche lo studio accurato di Roberto Vignolo, La fede portata da Cristo, in AA. VV., (G. Canobbio cur.) La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 p. 43-67. Egli aggiunge anche il testo paolino Gal. 3,26: “tutti infatti siete figli di Dio per la fede di Cristo Gesù” secondo la variante di un papiro autorevole. Questa intuizione paolina avrebbe conseguenze teologiche notevoli in ordine al valore salvifico della croce. Ma come è noto la teologia ha trascurato questo aspetto per l’incidenza dell’opinione che attribuiva a Gesù la visione beatifica.
[5] S. Paolo a proposito del riscatto scrive che Cristo “ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi , poiché sta scritto « maledetto chi è appeso al legno »” Gal. 3,13 cita Dt. 21, 23.
[6] “Il livello più primitivo del kerygma cristiano mostra che gli apostoli sono stati impegnati a rispondere o obiezioni ostili all’accettazione di Gesù risorto come messia. Gli avversari basavano i loro attacchi sul fatto che egli era morto sulla croce ignominiosa, condannato e respinto dal giudaismo ufficiale. Per controbattere questa critica gli apostoli idearono un’apologia della morte di Gesù e spiegarono come essa fosse stata provocata dalla malvagità degli uomini, fosse stata preordinata da Dio stesso e fosse stata annunciata nelle profezie veterotestamentarie (At. 2,23; 3,13 ss. 18; 13,27 ss.)” Ahern B. M., Croce, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Roma 1979 pp. 366-376 qui p. 367.
[7] Chi ha percorso in questi ultimi decenni un cammino teologico si è trovato certamente a modificare più volte l’orizzonte della sua riflessione secondo i vari modelli che si sono susseguiti nella interpretazione della croce come evento di salvezza. Non sempre si tiene conto che le espressioni metaforiche sono legittime e molto feconde solo a condizione che restino tali e non presumano di diventare espressioni proprie, come hanno tendenza a fare nel linguaggio comune. In teologia molte espressioni sono metaforiche, ma vengono utilizzate come se corrispondessero ad una effettiva realtà divina. Parlare ad esempio della sofferenza o della morte di Dio in Gesù può essere suggestivo ed è legittimo per sottolineare il coinvolgimento di Dio nell’avventura del Suo Figlio, ma non può essere inteso nel senso di una effettiva sofferenza di Dio Padre, del quale non possiamo dire nulla. Credo sia sempre da tenere presente l’avvertimento di Max Horkeimer: “Io penso che la teologia è andata troppo avanti nell’affermare ciò che Dio fa e come Dio è… e così facendo si è impigliata in un conflitto logico, proprio non necessario, con la scienza” Horkeimer M., La nostalgia del totalmente altro, Queriniana, Brescia 1972 p. 114.
[8] Bossuet cit. in O’Collins G., Gesù, oggi, S. Paolo Cinisello Balsamo, 1993 p. 224. Esistono raccolte molto ampie di brani di teologi, quaresimalisti, vescovi soprattutto dei secoli XVI-XIX, che si richiamano all’ira vendicativa di Dio esercitata nei confronti di Gesù.
[9] Edith Stein, Scientia Crucis, o. c., p. 289. Nel periodo precedente scriveva: “In quest’ora tragica, oppresso da inenarrabili tormenti nell’anima e nel corpo, soprattutto durante la terribile notte dell’abbandono da parte di Dio, Egli paga il prezzo dell’ammasso di peccati accumulati da tutti i tempi”
[10] Catechismo del Concilio di Trento P. 1, a. 4, n. 57.
[11] Grande diffusione ha avuto il libro del redentorista Durrwell F. X., La risurrezione di Gesù, mistero di salvezza, Paoline, Roma 19693 (originale 1954).
[12] Bartmann B., Lehrbuch der Dogmatik, Herder, Freiburg 19328 tr. it., Paoline, Alba 1950.
[13] Bartmann B., Manuale di dogmatica, 2, o. c. pp. 114-116..
[14] CTI Questioni di cristologia, in Enchiridion Vaticanum 7, Dehoniane, 1982 n. 7 pp. 642-645. Negli anni precedenti teologi sempre più numerosi hanno individuato linee discendenti nelle dinamiche salvifiche. Teologi come A.D. Sertillanges, J. Rivière, L. Richard , J. Galot, Philippe de la Trinité, Durwell, K. Rahner, M. Fick e Z. Alszeghy davano maggior spazio all’azione misericordiosa di Dio, riprovavano le deviazioni di quei teologi e quaresimalisti che nei secoli XVII- XIX avevano insistito con un certo sadismo sulla volontà punitiva di Dio in nome della giustizia vendicativa, della sostituzione penale, e, soprattutto riscoprivano il valore salvifico della risurrezione di Cristo che divenne diffusore dello Spirito.
[15] CCC (1992) n. 615 i brani virgolettati rimandano ad Isaia 53, 10-12.
[16] Id. ib., n. 617.
[17] CCC nn. 606-607
[18] CCC n. 616.
[19] CCC n. 616. La dottrina comune di questi decenni si ritrova in tutte le sintesi. Un esempio: “L’economia della salvezza, manifestata nel mistero della incarnazione, viene ulteriormente sviluppata nei successivi misteri di Cristo fino a raggiungere il suo compimento nei misteri della sua passione e morte e della sua risurrezione. Con la sua passione che sfocia nel sacrificio cruento della croce, Cristo porta a perfezione l’opera della redenzione oggettiva e l’offerta, infinitamente meritoria, della sua soddisfazione vicaria per il peccato. La risurrezione costituisce la conclusione gloriosa dell’opera salvifica gloriosa di Gesù. Va escluso da essa, in quanto inizio della vita gloriosa di Cristo, ogni valore meritorio, sacrificale, redentore soddisfattorio. Il valore salvifico della risurrezione è legato soprattutto al fatto della sua efficacia in ordine alla giustificazione soprannaturale (risurrezione spirituale dalla morte del peccato alla vita della grazia) e alla nostra futura totale glorificazione (risurrezione corporale alla fine del mondo).” Cuva A., Gesù Cristo, in Nuovo Dizionario di Liturgia, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1988 583-584.
[20] Moltmann J., La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991 p. 177.
[21] Moltmann J., Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973 p. 10 (or. 1972 con il sottotitolo: La croce fondamento e critica della teologia cristiana).
[22] Moltmann J., La via di Gesù Cristo, o. c., p. 195.
[23] Flick M., Croce, in Nuovo Dizionario di Teologia, o. c., p. 275.
[24] Kitamori K., Teologia del dolore di Dio, Queriniana, Brescia 1975 p. 34
[25] Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Paoline, Roma 19844 p. 30. Si può invece accogliere da Moltmann la valenza escatologica della sofferenza di Cristo: le doglie del parto della nuova umanità. Ogni salto qualitativo della specie umana mette in gioco dinamiche di rottura che provocano sofferenze. Le ricchezze più grandi di umanità fioriscono quando chi provoca rottura è in grado di portare lui stesso le sofferenze del parto senza riversarle sugli altri come invece fanno le rivoluzioni violente.
[26] Flick M., Croce, in Nuovo Dizionario di Teologia, o. c., p. 268.
[27] Flick M.- Alszeghy Z., Il mistero della croce. Saggio di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1978
[28] Flick M.- Alszeghy Z., Il mistero della croce, o. c. p. 173.
[29] Flick M., Croce, in Nuovo Dizionario di Teologia, S. Paolo, Cinisello Balsamo, 19888 p. 268.
[30] Warnach V. definisce il sacrificio: “la presentazione fatta a Dio (o a un essere superiore) in modo rituale e da un membro della comunità a ciò deputato (sacerdote), di un dono concreto (vivo) col quale il sacrificante si identifica onde esprimere la propria auto donazione rispettosa, grata e amante; allo scopo di essere con esso trasformato, tramite la consacrazione che santifica in virtù dell’(originaria) azione divina presente, in un essere superiore (sacro) e di diventare infine unito a Dio, che accoglie benignamente il dono e quindi il sacrificante stesso, in piena comunione di vita e d’amore” Von Wesen des kultischen Opfers, in (AA. VV., ed Neunheuser B.) Opfer Christi und Opfer der Kirche, Patmos, Dussendorf 1960, pp. 29-74 qui p. 70.
[31] O’ Collins G., Gesù oggi. Linee fondamentali di cristologia, S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1993 p. 217.
[32] Betz J., L’eucaristia come mistero centrale, in Mysterium salutis, 8 (1975) pp. 229-387 qui pp. 355-356.
[33] La celebrazione viene descritta in Lev. 16; 23,27-32; Num 29,7,11. La formula al plurale con l’articolo si trova in Lev. 23,27; 23,28; e 25,9. Nei Settanta la traduzione greca dei tre testi ha però il singolare ed è senza articolo corrispondente all’ebraico yom kippur. Cfr anche Num. 29,11 che parla di sacrificio delle espiazioni (hatta’t ha-kippurîm).
[34] Non esamino il rito del capro espiatorio (Lev. 16, 21s.), che non ha rilevanza per la riflessione sull’espiazione legata al sangue. Ad esso invece si sono richiamati i teologi favorevoli alla teoria della sostituzione penale Cf L. Saburin, Le bouc émissaire, figure du Christ? in Sciences ecclésiastiques, 11 (1959) 45-79.
[35] Deiana G., Il giorno dell’espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, (Suppl. Rivista Biblica 30) EDB, Bologna 1994, 183. Forse l’osservazione non tiene conto che di per sé il sacrificio per i peccati (hatta’t) valeva per le colpe commesse inavvertitamente (Lev. 4). Deiana sostiene che tale limite “è assente nel kippur: tutti i peccati, anche volontari, sono espiati; si richiede solo la conversione interiore: cf. Joma VIII,9” (181 n. 3). Egli però non avverte che la Mishnà, alla quale si richiama, non offre un argomento assoluto perché è stata redatta due secoli dopo Cristo. Anche se raccoglie tradizioni molto antiche non è escluso che alcune volte rifletta sviluppi più recenti del pensiero rabbinico. Cf anche L. Moraldi, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Roma 1956.
[36] Deiana G., Il giorno dell’espiazione, o. c., p. 183.
[37] “L’efficacia espiatrice del sangue, tuttavia, non deve essere intesa come una sua intrinseca potenzialità: soltanto il sangue posto sull’altare, ossia quello utilizzato nel culto, acquista valore catartico” Deiana, Il giorno dell’espiazione, o. c. p. 183.
[38] Zingarelli, Dizionario della lingua italiana, Cescina, Milano alla voce espiare.
[39] Deiana G., Il giorno dell’espiazione, 183.
[40] Fabris R., La morte di Gesù sacrificio di espiazione? O.c., p. 113.
[41] Wiesnet E., o. c. , Pena e retribuzione, p. 123.
[42] Sandron R., Dizionario fondamentale della lingua italiana, De Agostini, Novara 1986 alla voce: soddisfare.
[43] Greshake G., Soteriologia nella storia della teologia, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975 p.113.
[44] Gonzalez Carlos Ignacio, Cristologia. Tu sei la nostra salvezza, Piemme, Casale Monferrato 1988 p. 263.
[45] La Bibbia di Gerusalemme annota: “forse peccato qui è preso nel senso di ‘sacrificio o vittima per il peccato’; la stessa parola ebraica hattat può avere i due sensi (cfr. Lv. 4,1-5-13)”. Ma anche inteso come peccato ha un senso forte.
[46] “Mentre il mondo gira, la croce sta fissa”. Questa sentenza tradizionale, di autore ignoto, per lungo tempo è stato il logo dello stemma dei certosini
[47] Ahern B. M., Croce in NDSp, o. c., p. 375.
[48] Geffré Cl., De Babel à Pentecôte, Cerf, Paris 2006 p. 77 Cita Michel de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris p. 112.
[49] Flick M., Croce, in NDT, S. Paolo, Cinisello Balsamo, 19888 p. 278.
[50] Ahern B. M., Croce in NDSp, o. c., p. 375.
[51] Barth K. Römerbrief, Chr Kaiser München 1922 tr. it. L’epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1962
[52] Canobbio G., Extra ecclesiam nulla salus. Storia di un assioma, Morcelliana, Brescia 2009.
[53] Duquoc Ch., L’unico Cristo. La sinfonia differita GdT 298, Queriniana, Brescia 2001.
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Il fatto che l’uomo non avrebbe mai potuto riparare con i suoi meriti la gravità del peccato di Adamo non esclude la possibilità, da parte di Dio, di perdonare, con un atto di misericordia gratuito e unilaterale, un’umanità convertita al Vangelo dalla predicazione terrena di Cristo, secondo una logica di libero arbitrio.
D’altra parte la parabola dei vignaiuoli omicidi (Matteo 21,33-44) mostra chiaramente come la croce fu una scelta obbligata, imposta non dall’amore di Dio verso la sofferenza ed il dolore ma dalla malvagità umana e dall’ostinato rifiuto del Vangelo di Cristo. Anche la parabola del banchetto nuziale (Matteo 22,1-14) insegna come Dio non abbia inviato suo Figlio nel mondo per immolarlo sadicamente sulla croce ma per celebrare le nozze messianiche con il popolo d’Israele, per ristabilire un’alleanza eterna con tutta l’umanità e per inaugurare un regno glorioso (Daniele 2,44; Daniele 7,27; Daniele 12,1-2).
Fu il rifiuto ostinato dell’uomo che cambiò brutalmente il corso della storia, obbligando Gesù a seguire la via del Calvario. Egli accettò liberamente la croce (Matteo 26,53 e Giovanni 10,17-18), per attirare tutti a se (Giovanni 3,14; Giovanni 12,32; Giovanni 19,37) e per riconciliare al Padre l’umanità peccatrice (Romani 5,6-11; 2 Corinzi 5,14-21; Efesini 1,10; Efesini 2,16; Filippesi 2,8; Colossesi 1,20; Colossesi 2,14; Ebrei 12,2; 1 Pietro 2,21-24).
L’obbedienza di Cristo al Padre si manifestò, quindi, non tanto nel piacere perverso e masochista di accettare la sofferenza e la morte fini a se stesse, ma piuttosto nel lucido proposito di abbracciare con infinito amore l’unica via ancora possibile, aperta e praticabile. A ciò va aggiunto il fatto che, con la discesa di Cristo agli inferi (1 Pietro 3,19-20), tutta l’umanità fu raggiunta direttamente nello Sheol, triste luogo di tenebre e di oblio, dove non era neppur possibile lodare Iddio (Salmo 6,6; Salmo 115,17; Isaia 38,18) e dove le catene della morte trattenevano da millenni la discendenza di Adamo.
Cristo diventò partecipe della natura umana, per ridurre all’impotenza, mediante la morte, colui che della morte aveva il potere, cioè il diavolo, liberando così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Ebrei 2,14-15).
sono contento di aver trovato una riflessione di questo genere sul VERO significato del sacrificio di GESù. pER AMORE DELL’ UMANITà NONOSTANTE LA MORTE E NON PER SODDISFAZIONE DELLA GIUSTIZIA DI DIO IN QUANTO L’ESSERE UMANO MERITEVOLE DI MORTE PER I PROPRI PECCATI