IN CINA CON AMORE
Due testi di 50 anni fa
IN CINA CON AMORE
Sono stati ricordati dal sito antipapista dell’ “Espresso” per polemizzare contro le attuali aperture del papa alla Cina. Ma essi semmai mostrano quanto tempo è stato perduto dalla Chiesa, che ora il pontefice recupera. Intanto esce un libro di padre Spadaro su “Il nuovo mondo di Francesco”, proiettato sulla politica globale
Giampaolo Meucci e Raniero La Valle
Continua la polemica sui tentativi del papa per un riavvicinamento con la Cina. In un libro appena uscito del direttore della “Civiltà Cattolica”, “Il nuovo mondo di Francesco”, vengono ricordate le parole dette dal papa mentre, come gli è accaduto per tre volte , sorvolava la Cina: “una grande nazione che apporta al mondo una grande cultura e tante cose buone… Io amo il popolo cinese, gli voglio bene”. E un’altra volta: “Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con quella storia della Chiesa patriottica e della Chiesa clandestina, che si deve fare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo. Lentamente. Ma le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo”. I siti militanti che contro Francesco gridano al cedimento e invocano l’ortodossia sono sul piede di guerra; il sito dell’”Espresso” curato da Sandro Magister se la prende con un viaggio fatto cinquant’anni fa in Cina dal giudice fiorentino Giampaolo Meucci e da Raniero La Valle e ne pubblica ciò che allora essi ne scrissero per deprecare che già allora ci fossero noti cattolici che spasimavano per la Cina addirittura ammirandone ed esaltandone “la terrificante rivoluzione culturale”. Ma semmai il resoconto di quel viaggio è la prova che già cinquant’anni fa ci sarebbero stati spazi per mirare a un incontro fecondo con il popolo cinese e per tirare fuori dal sepolcro la Chiesa cinese. Ci sembra perciò interessante riprendere quei testi: il primo non è dei due autori insieme, come invece ora è presentato, ma è scritto in prima persona da Giampaolo Meucci, che era il presidente del Tribunale dei minori di Firenze: lo riproduciamo dal sito dell’ “Espresso”rimettendo al loro posto, in corsivo, le frasi che nel pubblicarlo quel sito ha omesso o censurato, snaturandolo; il secondo è quello scritto da Raniero La Valle sulla stessa esperienza fatta nella cattedrale di Pechino, che però il blog dell’ “Espresso” non ha pubblicato.
NOTE DI VIAGGIO
di Gianpaolo Meucci
[Da “Incontro con la Cina”, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1973, pp. 70-73]
La società cinese è piena di vivacità, di allegria, di serenità. In un mese di soggiorno in Cina non si è mai avuta nemmeno la più fugace impressione dell’esistenza di un potere poliziesco imperante… Gli stessi elementi dell’esercito, rivestiti di una modesta divisa e di un paio di informi scarpe di tela e gomma, non costituiscono certo un esempio di disciplina od emanano un senso di autorità, non essendo alieni dal portare sotto il braccio un ombrello, dall’accoccolarsi per terra, o dal tenere scomposta la divisa. Anche le sentinelle al Palazzo del governo, che pur cercano in tutti i modi di darsi un’aria marziale, appaiono quasi ridicole se confrontate con i loro colleghi dell’Occidente, sicché al loro confronto i nostri soldatini di guardia alle caserme o ai monumenti fanno la figura di soldati nazisti.
La Cina è un paese regolato non da una legge, ma dall’adesione a una fede, sotto la guida di una struttura sacerdotale, ancora non estraniatasi dalle masse, ed è una fede almeno per ora gioiosa e liberante che perfino prevede un carnevale, i giorni del capodanno lunare, nei quali, a quel che ci è stato detto, sopratutto i contadini danno fondo ai risparmi e spendono cifre notevoli, rispetto al reddito, fornite benevolmente dalle stesse Comuni.
Questa è l’impressione ricevuta, ed è per questo che l’esperienza cinese lascia un segno indelebile in ogni visitatore che improvvisamente si trova a vivere in un mondo da lui sognato, in una società di uomini impegnati a liberare gioiosamente l’uomo, sospinti dalla fede nell’uomo.
…
Vorremmo aggiungere qualche notazione sull’incontro che abbiamo avuto con la Chiesa cattolica “che è in Pechino”, per usare la espressione paolina, proprio perché abbiamo parlato di fede a una dimensione e di chiesa dei neofiti, per trovare una chiave interpretativa della realtà cinese.
Era domenica e chiedemmo di essere messi in condizione di poter assistere alla messa nella chiesa cattolica di Nam-Dang che, come avevamo saputo da amici, era stata riaperta al culto dopo un breve periodo di chiusura durante gli anni della Rivoluzione culturale…
Quella che poteva essere un’esperienza ricca di significato e di speranza, fu in realtà la più dolorosa e mortificante fra tutte le esperienze del nostro lungo viaggio.
Comune fra tutti noi il giudizio conclusivo: è bene, doveroso diremmo, che una chiesa di questo genere scompaia, se si vuole che l’annuncio evangelico possa raggiungere in un domani il popolo cinese e aprirlo a un’altra dimensione.
La chiesa di Nam-Dang è il monumento della insipienza di certa pastorale missionaria; peggio, è il monumento della mentalità colonialista che per secoli ha inquinato l’azione missionaria della Chiesa, accettata dai più e contestata da pochi illuminati spiriti.
Pensate ad una chiesa del tardo barocco della vecchia Roma trapiantata a Pechino, senza la pur minima indulgenza al gusto architettonico locale, non solo quanto ad architettura dell’edificio, ma anche quanto a sistemazione delle pertinenze. Anche l’interno presenta fin nei minuti particolari identità di sistemazione e di immagini quali è dato trovare in una chiesa romana: con il suo Sacro Cuore, la solita statuetta della Madonna sull’altar maggiore, qualche santo, compresa una S. Rita del culto corrente in Italia.
Il prete che dice Messa è vecchio, come sono vecchi i sette cinesi presenti. Sembra di rivivere la realtà esistente nelle nostre chiese di una cinquantina d’anni fa: il prete che borbotta la Messa in latino, rivolto verso l’altare, con la solita rincorsa contro il tempo, nessuna omelia, nessuna lettura per i fedeli, un vecchio sagrestano che serve il prete con i gesti di un collega romano, dal sollevamento del camice, al bacio delle ampolle, al borbottio senza senso delle risposte, alle energiche suonate di campanello.
Dopo la Messa, esaudendo il nostro desiderio, parliamo con un prete più giovane, mentre ci viene rifiutato il colloquio col Vescovo che, ci si dice, abita nel recinto di quella chiesa.
Evitiamo accuratamente ogni domanda di sapore politico per non mettere iu difficoltà il prete, ma insistiamo su domande relative alla religiosità del popolo cinese, sulle conoscenze in fatto di Concilio, sul perché non ci si apra a forme di culto nelle quali si realizzi una più cosciente partecipazione del popolo.
Le risposte sono deludenti, Il prete, che tiene in mano la “Pars aestiva” del Breviario, con uno stile da seminarista romano degli anni venti, non risponde di fatto a quanto gli si chiede. Afferma di sapere ben poco sul Concilio, dice che i suoi parrocchiani frequentano le funzioni in suffragio dei morti, non riesce a comprendere la domanda sul sentirsi o meno in comunione con la Chiesa universale. È uno straniero, come noi, rispetto al suo popolo, ed è pago di aderire formalisticamente ad un tradizione rituale della quale non riesce ad apprezzare il significato più profondo, al di fuori degli schemi che gli sono stati insegnati con mentalità e intendimenti colonialistici. Un morto che seppellisce dei morti….
Abbiamo più volte, anche in altre occasioni, cercato di portare il nostro discorso sulla religiosità del popolo cinese e sulla libertà religiosa. Ci siamo convinti che non era per mascherare intendimenti polemici o un reale atteggiamento antireligioso, che le risposte erano eluse. Il cristianesimo era la religione del padrone e delle potenze colonialiste, e lo hanno combattuto nelle persone dei suoi ministri, cittadini dei paesi occupanti; ma la costituzione cinese ammette la libertà religiosa. In realtà poi ogni problematica religiosa in senso occidentale è talmente estranea alla tradizione e alla mentalità cinese, che si avvertiva chiaramente come certi problemi non avevano la minima rispondenza nei nostri interlocutori per non essere in alcun modo compresi sia pure al livello della mera curiosità intellettuale.
Quale possa essere in futuro l’atteggiamento di Roma nei confronti dei vescovi cinesi e se si giungerà o meno alla dichiarazione formale di scisma nei confronti della chiesa cinese, ci sembra interessi ben poco: la chiesa cinese è infatti morta nella sua visibilità e sarebbe vano, almeno secondo una valutazione basata sull’osservazione della realtà, sperare che essa possa assumere agli occhi del popolo cinese credibilità, ed essere segno e sacramento. Abbiamo volentieri, però con vergogna, aderito alla richiesta dei nostri interpreti di sollecitare la chiusura del colloquio, Più tardi sarebbe stata celebrata una Messa per i diplomatici: il prete manifestamente contento della fine del colloquio con persone tanto strane e così assurdamente critiche, avrebbe potuto ritrovare il suo vero ruolo, quello di cappellano di un gruppo di stranieri in un paese straniero.
(per rendere giustizia a Giampaolo Meucci sono state reinserite in corsivo le frasi taciute nel blog dell’ “Espresso”).
E questo è il racconto che dello stesso episodio fa Raniero La Valle nel libro dell’Editrice Fiorentina:
NOTE DI VIAGGIO
di Raniero La Valle
[Da “Incontro con la Cina”, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1973]
A PECHINO MESSA IN LATINO
Sono andato a Messa nella cattedrale di Pechino, regolarmente aperta al culto, dopo essere stata chiusa durante la rivoluzione culturale. Ma nemmeno la scossa della rivoluzione culturale è valsa a smuovere la fissità di una Chiesa rimasta com’era, unica cosa non cambiata in una società tutta nuova, emblema di come la Chiesa non dovrebbe essere, non solo in Cina ma dovunque, e come invece era ed in Cina ancora è.
Nulla, in quella Messa, era atto ad esprimere il mistero di novità e di resurrezione che pur tuttavia vi si celebrava. Non il celebrante, che voltava le spalle al popolo, non la lingua, che era il latino, non le letture, sussurrate sotto voce, non l’omelia, inesistente, non il popolo, che infatti giustamente non c’era.
Sarebbe difficile attribuire all’ateismo di Stato vigente in Cina la responsabilità di un tale squallore, e non invece alla sterilità pastorale di una Chiesa tutta latina, a cui l’interruzione dei rapporti con Roma, durante questi vent’anni, ha impedito di partecipare a quell’apertura di orizzonti e a quel pur limitato aggiornamento ecclesiale e liturgico che sono stati portati dal Concilio. Sicché quello che resta della Chiesa cattolica in Cina è un reperto archeologico, un fotogramma fisso di un film che altrove ha continuato a svolgersi, un’immagine inquietante di quello che sarebbe tutta la Chiesa se il Concilio non ci fosse stato o se si fosse riusciti del tutto ad estinguerne il vigore. Perciò, mancata l’occasione di rinnovarsi, questa Chiesa che parla in latino a un popolo che sta semplificando il cinese per intendersi meglio, appare troppo simile alla vecchia Chiesa dei coloni, alla Chiesa installatasi in Cina al seguito e per la forza delle Potenze sfruttatrici, privilegiata da trattati ineguali, usata come pretesto per le confische di sovranità di cui la Cina è stata vittima ad opera degli Stati europei. La visita di Pompidou in Cina ha dato modo di rievocare la storia dei rapporti tra la Francia e la Cina: ebbene nel trattato di Pechino del 1860 la Francia si attribuì un diritto di protezione dei cinesi convertiti al cristianesimo, che vennero così sottratti alla giurisdizione cinese; per non parlare del premio in denaro offerto dalla missione francese di Tientsin per ogni bambino battezzato ed affidato ai suoi istituti, ciò che incoraggiò i rapimenti e la vendita dei bambini, piaga della Cina feudale.
Tutto questo, certo, è salutarmente finito; ma nella cattedrale di Pechino non ci si sottrae alla sgradevole impressione che la Chiesa lì presente sia ancora, benché privata delle vecchie sicurezze, la Chiesa delle Potenze; e se ieri era al servizio delle concessioni straniere, oggi è ridotta ad offrire i suoi servizi al personale delle ambasciate, che è il vero destinatario di queste Messe in latino, come denunciano gli avvisi sacri in inglese affissi alla porta del tempio. Una Chiesa che sembra non fare il minimo sforzo per entrare in sintonia col popolo a cui pure è mandata; tanto che il prete cinese a cui chiedevo, dopo la Messa, se la Chiesa facesse qualcosa per reinterpretare in termini cristiani l’antico culto cinese degli antenati, mostrava di non capire la domanda, e rispondeva che alla morte di qualcuno si faceva la “Missa obitus”, la Messa dei defunti. Evidentemente la proibizione romana dei cosiddetti “riti cinesi” ha segnato per sempre, e fino ad ora, il culto di questa Chiesa.
Il Dio rimasto ignoto
È da qui che bisogna partire, se si vuole aprire un discorso sulla natura dell’ateismo comunista cinese e della sua lotta antireligiosa, che non è stata lotta contro il Vangelo, perché bisogna dire, senza nulla togliere al sacrificio personale e alla dedizione di tanti missionari, che il Vangelo in Cina non era stato mai veramente annunziato, e non lo è ancora; così come ciò che è stato abbattuto delle altre religioni, taoismo, confucianesimo e buddismo, era più un miracolismo superstizioso e un supporto sacrale alle discriminazioni sociali, che non la fede in un Dio che alla Cina era rimasto ignoto.
Così, i contadini che ora pompano l’acqua dallo Yang-tze e dal Fiume Giallo, o dalle dighe la portano attraverso condotte lunghe chilometri alle loro risaie, dichiarano di non aver più bisogno di preghiere alle potenze del cielo per ottenere la pioggia o fermare le inondazioni; e nel suo rapporto sul movimento contadino nello Hunan, il giovane Mao raccontava nel 1927 che a Paikuo, nel distretto di Iengshan, le donne avevano fatto irruzione nel tempio degli antenati e senza tante cerimonie si erano sedute ed avevano preso parte al banchetto rituale, dal quale fino ad allora erano state escluse; e che in un’altra località un gruppo di contadini poveri ai quali pure era proibito, in ragione della loro povertà, di partecipare ai pasti rituali, “irruppe nel tempio e bevve e mangiò mentre i tuhao, i lichsben (che erano i notabili del padronato feudale) e gli altri dignitosi signori dalle lunghe vesti fuggivano atterriti”.
La fine del tempio
Ciò che qui contadini facevano era la rottura del rito, inteso come consacrazione di ruoli e di poteri nel tempio e nella società; ma essi, e forse anche Mao, non sapevano che la polemica contro il tempio, come chiave di volta di un regime di privilegi e di esclusioni, aveva avuto un precedente molto illustre nel gesto violento con cui Gesù aveva messo in causa il tempio di Gerusalemme, e nell’annuncio che egli aveva dato della sua fine, stabilendo al suo posto il nuovo tempio della comunione fraterna dei figli di Dio, significata dalla cena eucaristica apparecchiata per tutti, senza distinzioni di censo, di ruoli e di sessi.
Perciò si tratta di vedere fino a che punto il furore iconoclasta di questa rivoluzione contadina, che faceva a pezzi le statue degli dei e, come riferiva Mao, “si serviva di quel legno per cuocere la carne”, sia stato un ripudio di valori religiosi, o piuttosto semplicemente una distruzione di idoli.
La mia impressione è che il sentimento religioso sia ancora molto forte in Cina, anche se si tratta di una religione tutta terrena, fatta per vivere, per stare sulla terra “con convenienza ed armonia”, come del resto è sempre stata la religione dei cinesi.
Ma la forma che oggi (1973) questa religione assume è il maoismo, in quanto esso ha di metapolitico, in quanto punto di passaggio tra memoria del passato e speranza del futuro, in quanto norma di condotta e di vita che si adempie per legge ma le cui esigenze superano la legge, in quanto momento unificante tra ordine della natura e ordine umano, quale si esprime ad esempio nella linea rivolta a rinsaldare il legame tra i contadini e la terra, che non è solo un fatto economico, ma culturale e spirituale.
Non una ideologia, ma una fede
Ma proprio perché si tratta di una religione tutta umana, di un integralismo secolare che non pretende di assoggettarsi il divino, credo che almeno in potenza esso lasci aperta la possibilità dell’inserimento di un’altra dimensione, la possibilità di un trascendimento. Perciò se si volesse pensare a che cosa, un giorno, il cristianesimo potrebbe essere per la Cina, mi pare che esso non dovrebbe essere l’annuncio di una “religione”, ma quello di una fede. È chiaro ad esempio che anche un cristianesimo “progressista”, “orizzontale”, che si preoccupi di dare casa, cibo, vestito, salute, educazione e dignità agli uomini, sarebbe del tutto inadatto e superfluo, perché queste cose i cinesi le fanno già da loro; non c’è bisogno di un Vangelo usato come ricetta sociale; ed egualmente ci sarebbe molto da temere di un ritorno della Chiesa in Cina che avvenisse per via di accordi diplomatici, in virtù di qualche audace decisione di un vertice di Castelgandolfo, sulla falsariga, sia pure ammodernata, dei vecchi insediamenti missionari; così come la vecchia Chiesa, rimasta in Cina, appare oggi pressoché inservibile, se non passa anch’essa attraverso la sua rivoluzione culturale.
Perciò, se si dovesse un giorno aprire qualche varco, se si dovesse pensare a un ritorno di presenza cristiana in Cina, la sola cosa che avrebbe un senso, e un valore di futuro non solo per la Cina ma per tutti, sarebbe un nudo annunzio del Vangelo, purificato e purificante, sarebbe forse una presenza monastica di tipo nuovo che, senza entrare in competizione con la realtà cinese di oggi, rappresenti, dentro di essa, un seme di preghiera e una confessione di fede in quel “Dio ignoto” che ha voluto farsi riconoscere in un volto d’uomo, e perciò è geloso della salvezza non solo di collettività e di popoli, ma di ogni singolo uomo.
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Grazie per questa pubblicazione che ignoravo. Nel 1973 Raniero pensava ad un futuro della Chiesa in Cina secondo linee che oggi appaiono più possibili.