Dopo il Sinodo amazzonico

LA RIFORMA C’È MA NON LA VEDONO

1 Giugno 2020 / Editore / Dicono i Fatti / 0 Comment

Dopo il Sinodo amazzonico

LA RIFORMA C’È MA NON LA VEDONO

I “cattolici delusi” condizionati da un pensiero ancora clericale. Dal Sinodo sull’Amazzonia emerge invece una figura di Chiesa dalla cultura “marcatamente laicale”. Il papa ha dato alle conclusioni del Sinodo un valore pastoralmente vincolante, (non implicante la fede) anche riguardo al celibato e al diaconato femminile

Nicola Colajanni

L’esortazione Querida Amazonia ha suscitato, almeno nei primi commenti, un forte senso di delusione tra quanti, non solo cattolici, dando per scontata la centralità assunta dalla questione nell’attenzione della Chiesa, si aspettavano un’apertura immediata al tema del celibato e del diaconato femminile. La sua elusione ha segnato il momento di consenso più basso del pontificato di Francesco. La critica si espone al rischio che molti, che avevano seguito con fiducia e speranza il cammino prudente ma senza ambiguità del papa, se ne ritornino rassegnati sui loro passi. Potrebbe anch’egli dirci allora come Gesù: “anche voi volete andarvene?”. Riflessioni giuste e belle (penso, in particolare, a quella di Raniero La Valle in chiesadituttichiesadeipoveri.it del 14 febbraio 2020) hanno contribuito a rimettere le valutazioni sul giusto binario. Forse, però, anche una breve riflessione di carattere giuridico può aiutare a ridimensionare il disappunto e a riscoprire il volto nascosto, ma nondimeno valido, del documento sinodale conclusivo.
Il primo punto di riflessione è che in un ordinamento monocratico, come quello della Chiesa cattolica, il legislatore unico deve necessariamente preoccuparsi del grado di ricezione delle sue decisioni. Non che questa preoccupazione non si ponga negli ordinamenti democratici come quelli secolari ma in essi il principio maggioritario attribuisce un forte valore formale alla decisione, che è il frutto della ricezione della volontà della maggioranza dei rappresentanti del popolo. Nel poco meno di un terzo dei padri sinodali, che non avevano approvato quelle proposizioni, si annidava un forte rischio di contrasto, che del resto è stato reso evidente dalla rozza iniziativa editoriale del card. Sarah architettata nell’imminenza della pubblicazione dell’esortazione. Il papa, quindi, ha ritenuto saggio sfiorare, se non tralasciare – apparentemente, come dirò – il tema, aiutato in questo dal fatto che di regola il papa recepisce il Sinodo non con decreti legislativi o motu proprio innovativi della legislazione (di cui c’è bisogno per modificare il Codice di diritto canonico) ma con una semplice esortazione: vale a dire – per riprendere lo stesso papa nell’esortazione seguita al Sinodo sui giovani – “una lettera che richiama alcune convinzioni della nostra fede e, nello stesso tempo, incoraggia a crescere nella santità e nell’impegno per la propria vocazione”.
Al confronto con quella citata l’esortazione di quest’anno appare però molto più valorizzatrice del documento finale dei vescovi. Allora, infatti, Francesco fece una cernita dei contributi, recependone quelli che gli sembrarono più importanti: ” ho cercato di recepire, nella stesura di questa lettera, le proposte che mi sembravano più significative”. Stavolta, invece, limitandosi ad “una sintesi di alcune grandi preoccupazioni che ho già manifestato nei miei documenti precedenti”, non ha scartato alcuna proposizione, avendo “preferito non citare tale Documento in questa Esortazione” perché non ha inteso nè “sostituirlo nè ripeterlo”. E ciò in quanto esso è frutto della collaborazione di “tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell’Amazzonia”. È una chiara applicazione del principio di sussidiarietà, nella Quadragesimo anno predicato per lo Stato, anche alla Chiesa, limitatamente al campo pastorale proprio delle Esortazioni. Secondo quel principio l’Ente superiore non deve intervenire se quello inferiore è più competente, perché, come in questo caso, composto da persone che in Amazzonia “ci vivono, ci soffrono e la amano con passione”. Deve solo – diceva la Quadragesimo anno – “sostenerlo in caso di necessità ed aiutarlo a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune”.
È quello che fa il papa con la sua esortazione, presentando “ufficialmente quel documento che ci offre le conclusioni del Sinodo” e invitando “a leggerlo integralmente “. Si tratta della classica, giuridicamente parlando, motivazione per relationem, grazie alla quale il documento richiamato viene fatto proprio da quello richiamante e ne assume lo stesso valore: che nel caso, ma come in tutti i casi di magistero postsinodale, è quello di un’esortazione, solo pastoralmente vincolante. Di modo che il papa non ha affatto escluso ma, al contrario, ha ricompreso nella sua esortazione anche le proposte in questione. Se non fosse così non si comprenderebbe il motivo di una precisazione del card. Czerny, che nel presentare l’Esortazione ha sentito il bisogno di rassicurare (evidentemente il card. Sarah e quant’altri non li condividono) che “trovare difficili alcuni punti non sarebbe considerata una mancanza di fede”. Se le proposizioni sul celibato e il diaconato fossero da ritenere escluse, solo perché non esplicitamente riprese nell’esortazione, non ci sarebbe stato bisogno di quella precisazione. La quale è importante anche perché chiarisce che comunque quei punti non sono questione di fede, perché evidentemente non c’è nulla di “ontologico” nel celibato sacerdotale, come invece aveva affermato Sarah. Dovrebbe essere ovvio per chiunque prenda sul serio il magistero conciliare, secondo cui il celibato “non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio”, con cui ha solo “un rapporto di intima convenienza”, sicché, mentre “prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella Chiesa latina” (Presbyterorum ordinis, n. 16).
Grazie alla motivazione per relationem, quindi, celibato e diaconato femminile sono ormai all’ordine del giorno, mentre fino a ieri non lo erano, e un papa prima o poi potrà metterli a base di un decreto. E già da subito i vescovi, non solo dell’Amazzonia, potranno trarne ragione per dare la massima estensione – eucaristia e penitenza escluse, come il papa precisa – al can. 517, § 2, che prevede la partecipazione alla cura pastorale di “persone non insignite del carattere sacerdotale”: maschi e femmine, non si fa distinzione.
Non è molto, si obietta, le attese erano altre. Ma l’obiezione si muove all’interno della presupposizione, pur se involontaria, di una Chiesa clericale e gerarchica, una struttura di potere, di sapore un po’ militaresco, che si regge sui capi, nel caso i chierici: in mancanza, quindi, si promuovano al loro posto quelli che stanno immediatamente sotto, i diaconi, pur sempre maschi, rimpiazzandoli a loro volta con le diaconesse. Ma “questo sarebbe un obiettivo molto limitato se non cercassimo anche di suscitare una nuova vita nelle comunità”, dice l’Esortazione (n. 93) e aggiunge (94): “Una Chiesa con volti amazzonici – e, si può aggiungere, sul suo esempio qualsiasi Chiesa – richiede la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità, che conoscano le lingue, le culture, l’esperienza spirituale e il modo di vivere in comunità dei diversi luoghi”.
Questa affermazione dischiude, mi sembra, un orizzonte mai intravisto nella Chiesa del secondo millennio, almeno dalla riforma tridentina in poi: una cultura ecclesiale “marcatamente laicale” (94: in corsivo nel documento) e non, come ancor ora e perfino, inopinatamente, nel pensiero dei cattolici progressisti, clericale. In questa visione allargata, che porta alle conseguenze estreme la visione conciliare, tanto quanto “non si tratta solo di favorire una maggiore presenza di ministri ordinati che possano celebrare l’Eucaristia” (93) neppure si può “pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all’Ordine sacro” (100). Qui il papa è chiarissimo: non si devono “clericalizzare le donne”. Non ha avuto bisogno di dire che neppure, ovviamente, si debbono clericalizzare gli uomini, giacché. questa, guardando a molti diaconi d’oggi, è esperienza che già, purtroppo, si vive.
Certo, la mancata prontezza di modificazione delle norme canoniche dipende dalla prudenza a fronte della preventiva dichiarazione di non recezione delle stesse da parte di una minoranza comunque cospicua. Tuttavia, la delusione nasce anche, e in larga misura, dalla mentalità clericale diffusa, che porta anche i molti laici che hanno accolto Francesco come un dono provvidenziale, a non cogliere o a sottovalutarne la “mossa del cavallo” in direzione di una cultura ecclesiale, e quindi di un’auspicabile organizzazione, “marcatamente laicale”.
Nicola Colaianni

Be the first to comment “LA RIFORMA C’È MA NON LA VEDONO”