L’ATTACCO AI DIRITTI, ALLE GARANZIE, ALLA PERSONA
L’ATTACCO AI DIRITTI, ALLE GARANZIE, ALLA PERSONA
Il lavoro reso fattore di nuove diseguaglianze. La repressione massima come strumento di governo della società. La guerra ai deboli e ai migranti. Si torna a una visione della pena come afflizione, a un’idea di giustizia come vendetta e ad un concetto primitivo della dignità umana, estranei alla cultura del nostro Paese
Mariarosaria Guglielmi
L’esplosione delle nuove diseguaglianze, che anche le cifre e l’analisi dell’ultimo rapporto Oxfam descrivono in maniera spietata, confermando la loro crescente estensione e una concentrazione delle ricchezze a livello mondiale eticamente inaccettabile, ha disarticolato il nostro quadro culturale di riferimento.
Nell’epoca delle nuove diseguaglianze, i perdenti e i soggetti deboli sono disseminati in luoghi inattesi e la tutela dei diritti richiede anzitutto la comprensione piena del fenomeno rispetto a nuove forme di esclusione sociale, prodotte dalla mancanza di accesso alla conoscenza e all’informazione, ai servizi fondamentali come la tutela della salute e l’istruzione, e in ambiti già esplorati, come quello del lavoro, sia dipendente che autonomo.
Quanto la realtà del mondo del lavoro si sia sempre più allontanata dal modello disegnato dalla nostra Costituzione è sotto gli occhi di tutti. Da strumento di emancipazione, e principale condizione di accesso ad un’esistenza libera e dignitosa a fattore di produzione di nuove diseguaglianze: con il lavoro atipico e il lavoro precario si sono moltiplicate le disparità retributive; pesanti sono gli effetti di esclusione della diseguaglianza di genere e della frammentazione del lavoro, attraverso la creazione di nuove e sempre più diffuse forme contrattuali, dalla galassia del parasubordinato al contratto di somministrazione di mano d’opera, e un’ulteriore effetto di discriminazione è prodotto dalla concentrazione del lavoro atipico sulle nuove generazioni. Questa realtà non è l’inevitabile risultato delle trasformazioni tecnologiche o della competitività giocata sul mercato globale ma, come ha scritto Roberto Riverso, il frutto di una costruzione sociale in cui il ruolo decisivo appare svolto dallo Stato e il prodotto di una politica, una cultura, di leggi approvate negli ultimi venti anni che hanno scardinato il sistema di tutele costruito intorno al lavoro come priorità del sistema democratico: la definizione del contratto a tempo indeterminato come regola generale del rapporto di lavoro; l’inderogabilità delle tutele accordate in sede legislativa; l’affermazione della proporzionalità tra inadempimento del lavoratore e reazione del datore e conseguente controllabilità del modo in cui il datore di lavoro esercita questo potere; l’esistenza di un giudice ad hoc che, pur arbitro imparziale tra le parti, è capace di comprendere la diversa capacità di resistenza economica, e dunque processuale, tra le parti, così da svolgere un concreto ruolo promozionale delle garanzie individuali e di assicurare effettiva certezza ai diritti, non solo economici, dei lavoratori. E in questo scenario economico e sociale, di riduzione del ruolo di garanzia del giudice del lavoro, al quale si chiede di abbandonare un controllo sostanziale interno, per porne in essere uno meramente formale ed esterno, e di non intromettersi in scelte dettate dalla situazione economica contingente, posta a giustificazione di scelte imprenditoriali che incidono pesantemente sulle tutele, non solo economiche, dei lavoratori, è mancata una politica alternativa di difesa dei diritti e per una riforma del welfare.
Sono mancati gli strumenti e le misure d’intervento in grado – come ha detto Paolo Guerrieri – di migliorare l’uguaglianza delle opportunità oltre che colmare le disuguaglianze nelle condizioni di partenza, realizzando allo stesso tempo una combinazione virtuosa tra una efficace effettiva redistribuzione e un adeguato dinamismo dei mercati.
La centralità del lavoro, con il suo valore in termini di emancipazione della persona e costruzione di rapporti sociali solidi, rischia di essere messa in ombra dalle misure di contrasto della povertà. Il reddito di cittadinanza, se da un lato appare importante in chiave di contrasto a diseguaglianze ormai inaccettabili, dall’altro comporta il rischio di incanalare in prospettive di assistenzialismo le battaglie per il lavoro e per una società meno povera. Potrebbero così rimanere sul tappeto i veri problemi: creazione di lavoro vero e non povero; riforma dei centri per l’impiego; piano di investimenti strategico per ridare linfa al lavoro; universalismo dei diritti dei lavoratori.
Sfide nuove, dunque, e terribili responsabilità per la giurisdizione che oggi deve confrontarsi con un contesto che sta rapidamente evolvendo, in ambito europeo e nazionale, verso un nuovo assetto normativo e culturale fortemente regressivo per i diritti e per le garanzie e verso una manomissione dei principi dello Stato di diritto che priva la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e di terzietà.
La giustizia “a portata di mano”
Sostenuto dal consenso di un popolo ammaliato dalle nuove parole d’ordine, il governo procede a tappe forzate nell’attuazione del suo programma sulla giustizia. Come nella democrazia acritica di Zagrebelsky , la giustizia deve essere a portata di mano, capace di operare in tempo reale rispetto alla soluzione dei problemi, assecondando le attese e gli umori cangianti del popolo.
In questi mesi abbiamo assistito all’umiliazione del Parlamento e a crescenti manifestazioni di insofferenza verso le istituzioni e le regole della democrazia. La via pare segnata: l’abuso della decretazione d’urgenza; il ricorso alla fiducia per svilire il dibattito parlamentare e aggirare gli inutili ostacoli lungo il percorso riformatore del cambiamento; l’alterazione di tutta la nostra grammatica costituzionale e degli equilibri che ci ha consentito sino ad oggi di preservare, e che ora stiamo mettendo a rischio, senza nessuna consapevolezza dei gesti dirompenti (come la proposta di impeachment che ha segnato la nascita del nuovo governo) o con l’ostentata indifferenza per tutte le forme di interlocuzione istituzionale, persino quando finalizzate ad ottenere una maggiore ponderazione delle scelte che incidono sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone.
La “giustizia a portata di mano” risponde oggi ad una priorità politica assoluta. Sul terreno della giurisdizione si gioca infatti una partita decisiva per i nuovi assetti della nostra democrazia.
Attraverso la riduzione degli ambiti di intervento della giurisdizione, si rimettono in discussione il fondamento egualitario e solidaristico del nostro Stato costituzionale e i principi che ne costituiscono l’essenza: l’universalismo dei diritti fondamentali, la centralità della persona e della pari dignità, la libertà di autodeterminazione, la laicità dello Stato.
Espropriando la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e di terzietà, si altera in maniera permanente il rapporto fra autorità e libertà e il quadro di valori che dà legittimazione al sistema penale, ponendo limiti all’arbitrio del potere punitivo.
Il “decreto Salvini”, manifesto di questo nuovo corso
L’intervento congiunto in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica si è rivelato anzitutto un’operazione di marketing ben riuscita, che ha voluto imprimere una forte accelerazione al cambiamento “culturale” in atto nel Paese, togliendo consapevolezza dei valori in gioco e portando consenso alle scelte di criminalizzazione ad alta valenza simbolica: l’immigrazione è rappresentata e deve essere vissuta come una questione di ordine pubblico; lo straniero, clandestino o integrato, è comunque il diverso, responsabile della nostra insicurezza e dell’usurpazione di diritti e di opportunità a danno dei “cittadini”.
Tutto l’impianto normativo del decreto si sviluppa in maniera coerente intorno all’identità negativa del migrante e alla percezione di rifiuto che deve generare. Il cambiamento che si vuole ottenere è anzitutto emotivo perché da qui può nascere il consenso ad una riforma che mistifica la realtà e i dati di fatto che la descrivono: non siamo più in presenza di un arrivo massiccio di migranti, diminuito radicalmente fin dal 2017; anche rispetto al totale della popolazione non siamo il Paese soggetto all’invasione dei migranti e siamo anzi fra i Paesi che “meno accolgono”.
Sul piano – non simbolico né emotivo – della concreta incidenza sul riconoscimento e la tutela del diritto di migranti e dei richiedenti asilo ad essere accolti e a vedersi riconosciuto il diritto ad una esistenza libera e dignitosa, la riforma ha effetti dirompenti: la sostanziale abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ora circoscritto ad ipotesi del tutto eccezionali e tipizzate, compromette la piena attuazione del principio sancito dall’articolo 10, comma 3, della Costituzione; si introducono ostacoli nel procedimento per il riconoscimento del diritto d’asilo, e all’accesso alla tutela giurisdizionale con la previsione di termini troppo brevi per l’audizione, l’aumento dei casi in cui i termini per l’impugnazione di un provvedimento negativo della Commissione territoriale vengono dimezzati, nuove ipotesi di inammissibilità e la previsione dell’obbligo di lasciare il territorio dello Stato in caso di diniego per chi è sottoposto ad un procedimento penale o è stato condannato con sentenza non definitiva, per alcuni reati gravi e di media gravità, con grave violazione della presunzione di non colpevolezza dell’articolo 27 della Costituzione; l’esclusione del permesso di soggiorno per richiedenti asilo dai titoli per l’iscrizione anagrafica è una misura gravemente e inutilmente discriminatoria che priva di fatto le persone di elementari diritti e di opportunità di integrazione; un chiaro disfavore verso le attività di integrazione si coglie nelle disposizioni che impongono nuovi obblighi solo alle cooperative sociali che si occupano di migranti; la previsione della revoca della cittadinanza a seguito della commissione di gravi reati introduce, in contrasto con i principi costituzionali, una diversa disciplina sulla perdita dello status di cittadino in ragione del modo in cui è stato acquisito; al pesante ridimensionamento del sistema di accoglienza inclusivo e diffuso rappresentato dagli SPRAR, corrisponde il potenziamento dei Centri governativi finora destinati all’emergenza e alla prima accoglienza, “non luoghi”, spazi senza tempo e senza identità, dove i migranti entrano e, relegati a una condizione di emarginazione e di esclusione, diventano un’entità indistinta. Si torna quindi ad ampliare l’area della detenzione amministrativa anche a fini identificativi, con una forma di trattenimento che può potenzialmente coinvolgere tutti i richiedenti asilo e si espande nuovamente il sistema, sorretto dalla logica emergenziale e di un diritto speciale per lo straniero, che realizza una forma di limitazione della libertà personale, ponendo gravissimi problemi di rispetto dei diritti umani e di compatibilità con il nostro sistema di rigide e inderogabili garanzie previste per la legittima privazione della libertà personale.
Dietro questa riforma appena varata si intravede un progetto alternativo di società: un nuovo ordine fondato sul superamento teorizzato, dichiarato e rivendicato, del carattere universale dei diritti fondamentali, del principio di eguaglianza fra gli individui e della solidarietà quale valore che appartiene alla nostra storia e alla nostra comunità.
A chi fortemente ha voluto la riforma e oggi fortemente la sostiene dobbiamo ricordare che, come ha scritto Paolo Rumiz, profughi si diventa e profughi tutti noi possiamo diventare in un solo attimo. Basta una guerra.
La dilatazione dello strumento repressivo
Le direttrici lungo le quali si muove la politica penale del nuovo governo non sono certamente inedite. Le continue torsioni e deformazioni subite dal diritto penale in questi anni, sotto la spinta delle pulsioni ed emergenze del momento, hanno prodotto una dilatazione irrazionale dello strumento repressivo e l’abbandono del modello garantista rappresentato dal diritto penale minimo: si moltiplicano le leggi d’eccezione e di occasione come le definiva Francesco Carrara; si ricorre all’uso demagogico della norma penale che alimenta l’illusione repressiva aumentando la paura e, criminalizzando le persone in luogo delle condotte, individua il nemico contro cui dirigerla.
Il decreto sicurezza segna un salto di qualità anche in questa direzione: l’aumento abnorme di pene (per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici ), il ripristino di fattispecie già ridotte a illeciti amministrativi (l’esercizio abusivo dell’attività di “parcheggiatore o guardamacchine”) o addirittura abrogate tout court (l’“esercizio molesto dell’accattonaggio” che recupera la mendicità invasiva depenalizzata nel 1999) che selezionano le condotte da criminalizzare o aggravare sul “tipo d’autore” (poveri, migranti) e fenomeni oggi spesso riconducibili a contesti di marginalità, sono espressione di una nuova politica penale autoritaria che enfatizza le esigenze di ordine e di sicurezza, senza alcun aggancio alle dimensioni reali e all’effettiva offensività dei fenomeni da contrastare, e torna ad investire sulla repressione massima come strumento di governo della società (Livio Pepino) e di esclusione dalla società di soggetti marginali all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza (Luigi Ferrajoli).
Torniamo ad una visione arcaica e primitiva della pena: è l’afflizione che merita chi ha sbagliato, e che per questo deve tornare a pagare; ed è l’afflizione massima, che non ammette la prospettiva di recupero né di reinserimento. La certezza della pena diventa certezza del carcere.
Il contratto di governo ha annunciato la riforma di “tutti i provvedimenti emanati … tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della collettività”: si abbandona ogni prospettiva di una giustizia riparativa, di strumenti di riconciliazione, di forme ripristinatorie o riparatorie perché contrarie alle esigenze di tutela della collettività. La risposta al reato è e può essere solo una ritorsione, e una sanzione che ne riproduce in senso analogico la negatività, il suo essere male (Luciano Eusebi).
Senza ripensamenti, con un tratto di penna, abbiamo rinnegato tutto il lavoro degli Stati generali sull’esecuzione della pena e l’ispirazione di fondo che aveva aggregato sinergie culturali intorno ad un nuovo progetto di esecuzione penale, il più organico e costituzionalmente orientato mai posto in essere dopo la riforma Gozzini, per una piena attuazione della sua finalità rieducativa e un sistema delle pene che guardi al carcere come extrema ratio.
Quel che era rimasto nella rimodulazione regressiva del decreto approvato nel marzo 2018 del progetto originario, poi abbandonato per ragioni elettorali, è stato eliminato con la controriforma sul carcere avviata dal governo appena insediato: sono venute meno anche le norme che favorivano l’accesso alle misure di comunità; un passo indietro è stato fatto rispetto a tutte le disposizioni della riforma che ridimensionavano gli automatismi preclusivi, consentendo alla magistratura di sorveglianza di tornare a valutare caso per caso i progressi effettivi di ogni detenuto.
Il percorso intrapreso non solo porta al definitivo abbandono della prospettiva di un sistema penitenziario e di esecuzione penale pienamente conforme al dettato della Costituzione ma ci allontana dall’idea di pena che è patrimonio della nostra cultura giuridica, coerente con i principi di necessità, personalità, finalismo rieducativo: principi che fanno parte del suo contenuto ontologico, come ci ha ricordato la Corte costituzionale, che devono evitare «il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale» o di «privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione»; qualità essenziali per la «legittimazione e funzione» della pena, che «l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue».
“La caccia vale più della preda”
Il processo penale si allontana dal suo paradigma garantista: quello per cui, come ha scritto Cordero, “la caccia vale più della preda”. Se i termini si invertono, la caccia non ha bisogno di regole e anzi delle regole che la ostacolano deve liberarsi.
E la preda catturata deve essere esibita: la messa in scena organizzata dalla propaganda di Stato per “celebrare” la fine della latitanza di Cesare Battisti ha trasformato la vittoria dello Stato di diritto e la chiusura di una vicenda dolorosa della nostra storia in una pagina umiliante, che – come denunciato dall’Unione delle Camere penali – rappresenta nel modo più plastico e drammatico un’idea arcaica di giustizia ed un concetto primitivo della dignità umana, estranei alla cultura del nostro Paese.
Un’idea arcaica di giustizia come vendetta privata ispira la nuova disciplina della legittima difesa. Messa al primo punto degli interventi nell’area penale previsti dal contratto di governo, questa riforma – come ha scritto Gaetano Insolera – persegue in modo evidente la costruzione di una emergenza e di una retorica disancorate da razionali considerazioni volte a contemperare la molteplicità delle situazioni fattuali e la ponderazione degli interessi in gioco con la rigidità di un dato normativo”.
È una retorica che corrisponde invece ad opzioni viscerali, estreme, più simili alla logica semplificata della Castle Doctrine e delle stand your ground laws che in America ispirano le norme sulla legittima difesa, fornendo un elevatissimo grado di tutela per chi usi la forza letale contro chi si introduca illecitamente in un’abitazione, sulla base di opzioni di valore sino a ieri estranee alla nostra cultura.
Una riforma “manifesto”, con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione, sovvertendo la collocazione che da questo sistema ricevono e la graduazione della loro tutela conforme ad elementari principi di civiltà giuridica.
Mariarosaria Guglielmi
(dalla relazione per il XXII Congresso nazionale di Magistratura democratica)