L’ATTUAZIONE DEL CONCILIO NEL GOVERNO DI PAPA BERGOGLIO
La novità nell’annunzio della fede e la riforma della Chiesa cattolica introdotte dal Vaticano II sono assolutamente irreversibili. La libertà dei figli di Dio supera la legge e i comandamenti
Daniele Menozzi
Fin dagli esordi del pontificato il richiamo al Vaticano II è apparso uno dei tratti salienti della linea di governo di papa Francesco. Al di là di qualche battuta (“il Concilio bisogna farlo più che parlarne”, pare abbia detto ad uno dei suoi primi intervistatori) lo testimonia l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, il documento programmatico emanato nel settembre 2013. Per fare un esempio, qui un’ampia citazione del sesto capitolo del decreto Unitatis Redintegratio viene proposta a sostegno di uno dei punti più qualificanti di quel documento, cioè la considerazione che la Chiesa pellegrina, in una storia di cui assume imperfezioni e debolezze, è chiamata ad una continua riforma per conformarsi al volto che Cristo le ha assegnato. Ma aldilà appunto di un aspetto particolare, altri elementi, direi i più importanti dei proponimenti papali sono fondati nella Evangelii Gaudium su richiami al Vaticano II anche in forma indiretta. Basta ricordare che l’auspicio di una Chiesa povera per i poveri costituisce una puntuale traduzione del capitolo della Costituzione conciliare Lumen Gentium relativo alle implicazioni ecclesiologiche della scelta di povertà compiuta da Cristo, che mostra una evidente distanza dall’interpretazione edulcorata fornita con la formula “opzione preferenziale per i poveri” che ha caratterizzato il post-Concilio.
A più di 8 anni dall’accesso del pontefice argentino alla guida della Chiesa ci si può chiedere allora quale ruolo abbia giocato il tema del Concilio nel discorso pubblico da lui svolto in questo periodo. Partirei da un dato numerico. Verificando le occorrenze del sintagma Concilio Vaticano II negli interventi apparsi sull’ufficiale sito vaticano, emerge che dal 13 marzo 2013, la data dell’elezione, alla fine di settembre di quest’anno cioè al giorno dell’ultimo rilevamento, la locuzione ricorre 227 volte. Il confronto con Benedetto XVI sembra impietoso: dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013 Ratzinger la utilizza 428 volte; in un arco cronologico sostanzialmente comparabile le occorrenze risultano essere quasi la metà. Tuttavia se dal piano quantitativo spostiamo l’attenzione al piano qualitativo il confronto con Benedetto XVI assume un volto del tutto diverso. Alla minore incidenza numerica dei rinvii al Vaticano II fa da contrappeso un rovesciamento dell’atteggiamento circa la sua normatività per la vita della Chiesa. Come noto Benedetto XVI aveva sostenuto che per la corretta interpretazione dei documenti conciliari occorreva abbandonare l’ermeneutica della rottura ed affidarsi all’ermeneutica della continuità. Le ricerche di Giovanni Miccoli hanno mostrato che al riparo di questa concezione hanno trovato ulteriore spazio all’interno della comunità ecclesiale quegli ambienti anticonciliari che da tempo intrattenevano stretti rapporti con il variegato mondo del tradizionalismo esterno alla Chiesa a partire anche da settori interni alla Chiesa, quali ambienti della curia romana e della gerarchia episcopale. Ma la linea di Ratzinger era andata ben oltre questa legittimazione dell’anticoncilio. Pur non riuscendo a portare a compimento quello che aveva presentato come il punto qualificante del suo programma di governo, cioè la ricomposizione dello scisma lefebvriano, gli atti compiuti per conseguire questo obiettivo avevano di fatto determinato una rilegittimazione teologica ed ecclesiale dell’opposizione all’aggiornamento conciliare. Erano stati in particolare gli interventi in materia liturgica a palesare questo suo orientamento. Non possiamo qui articolare la ripresa ad opera di Francesco del rinnovamento conciliare della liturgia. Mi basta solo ricordare che ha più volte affermato che non si può fare una riforma della riforma liturgica come appunto gli ambienti anticonciliari avevano proposto.
Aggiungo che il tratto distintivo con cui Bergoglio presenta la riforma del Concilio nel suo
insegnamento pubblico è dato dal fatto che accompagna il sintagma “riforma liturgica” con un aggettivo: irreversibile. Questo mi pare il dato più evidente del suo atteggiamento. E voglio sottolineare che lo stesso aggettivo “irreversibile”, accompagnato talora da un avverbio e cioè “assolutamente”, è l’espressione linguistica con cui papa Bergoglio fa riferimento complessivamente al Concilio Vaticano II, non solo alla riforma liturgica ma all’insieme del Vaticano II. Il giudizio è: assolutamente irreversibile. Un esempio significativo si trova in un passo dell’intervista rilasciata nell’estate 2013 al direttore della Civiltà Cattolica Antonio Spadaro che come si sa il papa scelse come un’efficace via per comunicare una larga informazione sugli indirizzi a cui intendeva ispirare il suo governo. Alla domanda del gesuita circa la sua valutazione del Vaticano II Bergoglio ha affermato: il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea, ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. La dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile.
Il papa ha poi aggiunto facendo di nuovo riferimento all’esempio della riforma liturgica che i frutti di questo rinnovamento sono straordinariamente positivi.
La proclamazione dell’assoluta irreversibilità del Vaticano II si fonda dunque su un giudizio circa i risultati prodotti dal mutamento introdotto nel rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo dall’assise conciliare. Intanto vorrei sottolineare che non si tratta di una superficiale valutazione ottimistica. Bergoglio è consapevole delle difficoltà che ha incontrato la ricezione delle deliberazioni conciliari. Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, dopo aver esplicitamente evocato il passaggio dell’allocuzione dell’ottobre 1972 in cui Giovanni XXIII, esprimendo il suo dissenso dei profeti di sventura, manifestava fiducia in una rinnovata presenza della Chiesa nel mondo moderno, ha osservato che a cinquant’anni dal Vaticano II si deve guardare realisticamente a quanto è successo nel post-Concilio senza che la fiducia nell’azione dello Spirito Santo porti ad ingenui ottimismi. Sulla scia di questa impostazione realistica Bergoglio ha svolto un’analisi che ritiene oggettiva dell’impatto avuto dal Concilio sulla vita ecclesiale. Mi pare che questa si fondi su due elementi di fondo. In primo luogo il pontefice ha rilevato che all’interno della Chiesa è attiva una consistente opposizione al Concilio. Fin dall’aprile del 2013 in una delle prime meditazioni mattutine tenute nella cappella di Santa Marta, che sarebbero ben presto diventate il luogo privilegiato per far conoscere i suoi personali convincimenti, Bergoglio ha ricordato che una delle questioni su cui deve misurarsi la Chiesa attuale è data dall’ampiezza della resistenza al Vaticano II. Al suo interno Infatti non sono presenti soltanto gli ambienti che si propongono intenzionalmente di farla ritornare al periodo ad esso precedente, ma operano anche settori che pur aderendo formalmente al Concilio lo trasformano in un monumento, nell’intento di evitare ogni cambiamento ecclesiale. In un successivo incontro Francesco ha ulteriormente arricchito l’articolazione delle correnti ecclesiali che in qualche modo si contrappongono al Concilio sottolineando che nella comunità ecclesiale sono attivi anche settori che ne annacquano e ne relativizzano le decisioni. Oltre alle opposizioni, dunque -l’opposizione frontale, l’opposizione che lo monumentalizza e l’opposizione che lo annacqua – Francesco vede un secondo aspetto forse ancora più rilevante del post-Concilio: la realizzazione dell’aggiornamento ecclesiale pur avendo incontrato successi (la riforma liturgica) è stata solo parziale. Ad esempio a proposito dell’ecumenismo nella lettera rivolta nel novembre 2014 ai membri del Pontificio Consiglio per l’unità dei Cristiani ricorda che grazie al Decreto conciliare Unitatis Redintegratio i cattolici hanno cambiato atteggiamento nei confronti delle altre confessioni cristiane riconoscendo quanto di buono e di vero vi è nelle diverse confessioni che si richiamano al Cristo, ma subito dopo aggiunge che questa strada è stata solo parzialmente percorsa e si tratta ancora di approfondirla e di svilupparla. Analogo è il discorso svolto in relazione al Decreto Apostolicam Actuositatem circa la limitata valorizzazione dei laici sia in relazione al loro coinvolgimento in un’opera di evangelizzazione, cui sono tenuti non per delega della gerarchia ma in virtù del battesimo, sia in relazione all’assunzione, in particolare da parte delle donne, di responsabilità di governo all’interno della Chiesa, cosa che il papa ritiene distinta dal servizio ministeriale. Altri esempi degli ambiti in cui il papa nota ritardi e carenze nell’applicazione del Vaticano II si potrebbero moltiplicare; mi limito a ricordare che ad un certo punto in un discorso del settembre 2017 li ha elencati: collegialità, sinodalità nel governo della Chiesa, valorizzazione delle Chiese particolari, responsabilità di tutti i christifideles nella missione della Chiesa, ecumenismo, misericordia e prossimità come principio pastorale primario, libertà religiosa pastorale collettiva e istituzionale, laicità aperta e positiva, sana collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile nelle sue diverse espressioni.
Dunque l’ambito dei ritardi è piuttosto vario. Non posso naturalmente esaminarli tutti ma vorrei spendere qualche parola su uno di essi che ha rappresentato un autentico punctum dolens del postConcilio e cioè la collegialità episcopale.
Nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium Francesco ha osservato che non è stato realizzato l’auspicio espresso nella Costituzione conciliare Lumen Gentium relativamente all’attribuzione alle Conferenze episcopali di quei concreti poteri di governo che le rendano effettive protagoniste, sul modello delle antiche Chiese patriarcali, di una direzione collegiale della Chiesa universale. Francesco è poi intervenuto per attribuire a questi organismi un potere decisionale in materia liturgica in funzione della inculturazione. Ma nel documento programmatico del 2013 ha detto qualche cosa di più: egli ha affermato in quell’occasione che occorre riconoscere alle Conferenze episcopali qualche “autentica autorità dottrinale”. È questo un punto qualificante per realizzare la collegialità. È una piccola frase naturalmente, però ha un significato se la esaminiamo in rapporto alle decisioni finali del Sinodo dei Vescovi del 1985 in cui si era esplicitamente invocata la necessità di precisare il ruolo delle Conferenze episcopali definendo statutariamente la loro autorità anche in materia dottrinale.
La risposta negativa di Roma era giunta con la lettera “Apostolos Suos” pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1998 dopo una lunga gestazione presso la Congregazione per la dottrina della fede guidata dal cardinale Ratzinger che del resto aveva già espresso la sua netta opposizione a questo esito statutario nell’intervista rilasciata proprio in quell’anno a Vittorio Messori in cui sosteneva che la competenza delle Conferenze episcopali riguardava solamente il piano pratico pastorale. Ecco, nell’Esortazione apostolica inaugurale del pontificato Francesco riapriva una strada, quella dell’attribuzione alle Conferenze episcopali di una autentica autorità dottrinale che i suoi predecessori avevano chiuso in qualche modo disattendendo l’auspicio del Vaticano II. È peraltro facile constatare che negli atti di governo compiuti da Bergoglio fino ad oggi questo tema non ha trovato una concreta attuazione: era un auspicio della Evangelii Gaudium ma l’attuazione non vi è stata. Mi pare che ne sia motivo il fatto che questo tema si è intrecciato con la riforma del Sinodo dei Vescovi che Bergoglio ha messo in campo nel tentativo di farne un canale di coinvolgimento dell’intero popolo di Dio nel governo della Chiesa. Come Francesco ha detto nell’ ottobre 2015 in occasione del discorso di commemorazione per il cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi questo organismo dovrebbe diventare “la manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali, dalla Chiesa particolare, la parrocchia, fino alla Chiesa universale”. Cioè mi pare che la mancata attuazione di quello che era stato detto nella Evangelii Gaudium corrisponda all’ambizioso progetto di costruire una Chiesa sinodale che nella visione del papa dovrebbe anche costituire uno stimolo per la società civile a organizzare forme di convivenza più fraterne e più rispettose della dignità di tutti i popoli e di tutti gli uomini; e questo ambizioso progetto ha trovato una prima configurazione nella Costituzione Apostolica Episcopalis communio del settembre 2018. Pure individuando nuove e rilevanti forme di consultazione tra il popolo di Dio e la gerarchia, il nodo del carattere meramente consultivo del Sinodo non è stato con quel documento ancora risolto. Tuttavia Il papa ha voluto precisare che la sinodalità, qui presentata come via di attuazione di un altro aspetto non realizzato dell’ecclesiologia conciliare, l’assegnazione a tutto il popolo di Dio della infallibilità in credendo, è il programma della Chiesa per il terzo millennio; è una costruzione in corso che partendo dalla Lumen Gentium, in qualche modo dal Concilio, deve andare avanti; si tratta di percorrere questa strada attraverso una prudente sperimentazione delle forme di attuazione di questa nuova forma comunionale della Chiesa che preveda il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio, perché, come dice Francesco, l’infallibilità in credendo sta in tutto il popolo di Dio.
Sulla base degli elementi che ho rapidamente fin qui enunciato si può provare a trarre una prima conclusione del tutto provvisoria – il pontificato è ancora in corso – sull’atteggiamento di Francesco riguardo all’attuazione del Vaticano II. Il papa, convinto della irreversibilità dell’aggiornamento promosso dall’assise ecumenica svolge un’analisi realistica della sua ricezione nel mezzo secolo successivo alla fine del Concilio. Pur rilevando aspetti positivi per un’aggiornata trasmissione del Vangelo – questo è l’aspetto mi pare più significativo del giudizio positivo, cioè il Vangelo si sta trasmettendo in maniera adeguata, comprensibile agli uomini di oggi – questi aspetti positivi egli vede la ricezione del Concilio caratterizzata sia dalla presenza di una articolata contrapposizione al rinnovamento ecclesiale sia da un’applicazione dei suoi deliberati che appare segnata da ritardi e carenze di cui anche il vertice romano porta qualche responsabilità (Francesco non è mai stato tenero con la Curia romana, come risulta dai suoi discorsi verso la Curia romana che è una delle ragioni di questi ritardi di questa opacità nella realizzazione del Vaticano II).
La linea di Bergoglio fa perno sulla promozione di una piena conformazione della vita della Chiesa alle decisioni del Vaticano II; egli ritiene però che deve essere realizzata gradualmente e questo aspetto della sperimentazione, di una lenta graduale sperimentazione, sta credo nell’esigenza di mantenere unita la compagine ecclesiale adempiendo così alla funzione che gli appare costitutiva del servizio petrino, l’unità della Chiesa. Aggiungerei che la prospettiva di un progressivo superamento delle resistenze e delle inadempienze allontana nel tempo ma non indebolisce l’obiettivo di giungere ad una piena attuazione delle deliberazioni conciliari secondo Bergoglio. Ne è efficace testimonianza un discorso tenuto recentemente dal pontefice all’ufficio catechistico della CEI, una istituzione tanto formalmente ossequiente quanto di fatto assai poco disponibile a seguire le indicazioni del papa. Il Vaticano II, ha asserito in quell’occasione il papa, non va negoziato. Anzi, aggiunge, nel pretendere la sua applicazione occorre essere esigenti, severi: usa questi termini, esigenti, severi. Rivolto alla CEI non è un caso. Si potrebbe dire che duttile sui tempi il papa è irremovibile sull’esito finale, sull’obiettivo da raggiungere.
Tale fermezza richiede agli occhi di uno studioso di storia una qualche spiegazione. Mi pare si possa trovare nell’itinerario biografico di Bergoglio, ben diverso da quello dei pontefici che dopo la conclusione del Vaticano II si sono succeduti sulla cattedra di Pietro. Tutti costoro formatisi negli anni dell’egemonia della cultura cattolica intransigente, hanno vissuto il travaglio dei tentativi del superamento di questa cultura soprattutto nei dibattiti dell’aula conciliare e hanno poi portato nelle discussioni del post-Concilio gli schemi mentali ereditati dal passato. In quest’ottica mi pare risulti intellegibile la modalità della risposta che i pontefici che hanno fatto seguito al Vaticano Secondo hanno dato a quella che è stata definita la crisi cattolica, vale a dire la mancata realizzazione di quel balzo in avanti della Chiesa che Giovanni XXIII aveva assegnato all’aggiornamento conciliare; il Concilio è stato fatto appunto nell’intento di Giovanni XXIII di un balzo in avanti della Chiesa; dopo il Concilio c’è stata una crisi cattolica, se non altro da un punto di vista numerico effettivo, ma non solo dal punto di vista numerico effettivo. Allora di fronte a questa situazione come hanno risposto quei pontefici? Di fronte ad una realtà che sembrava disattendere le aspettative diventava naturale aggrapparsi ad alcuni aspetti del patrimonio intellettuale su cui avevano maturato le loro giovanili certezze combinandolo con il rinnovamento promosso del Vaticano II, e mi pare che sia questo il tratto, cioè cercare di mettere insieme, di integrare il passato con l’aggiornamento conciliare. Ne è scaturito un ambiguo equilibrio che ciascun pontefice ha costruito sulla sua cultura di riferimento. Si può ad esempio ricordare il caso del maritainismo per Paolo VI, del personalismo ontologico per Giovanni Paolo II. Invece Bergoglio, come ha ripetutamente dichiarato lui stesso, ha interamente compiuto il suo percorso formativo sui documenti del Vaticano II; ne ha ricavato una impostazione culturale assai diversa; la sua gioventù è stata costruita su quei documenti, non è una cultura diversa di riferimento. La sua cultura è quella dell’aggiornamento; credo che questo sia importante da ricordare. La soluzione al problema di dare incidenza alla presenza della Chiesa cattolica nel mondo contemporaneo si trova in una piena attuazione di quel rinnovamento pastorale basato sul dialogo tra cristianesimo e mondo moderno cui il Concilio aveva affidato il compito di restituire alla Chiesa un’efficace capacità apostolica nel trasmettere il messaggio evangelico agli uomini di oggi.
In quest’ottica la soluzione alle difficoltà attraversate dalle comunità ecclesiali nel post-Concilio non consiste, come nei predecessori, nel fissare il limite fino a cui può essere spinto il rinnovamento sulla base di sedimenti della cultura cattolica preconciliare, bensì nel recupero di uno slancio missionario che ha radice nell’ applicazione del nucleo profondo dell’assise ecumenica, cioè come ha detto nell’intervista a Spadaro, una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea.
La cultura moderna rilegge il Vangelo, lo reinterpreta, gli dà nuovi contenuti, nuovo significato. Si può notare che tale impostazione comporta un evidente limite, la mancata considerazione di un dato che pur non sempre rilevato dagli studi, emerge chiaramente da un’indagine spassionata sull’assise ecumenica e cioè le ambiguità e le contraddizioni dei documenti conciliari nel prospettare un nuovo rapporto della Chiesa con la società moderna. Non è che i documenti conciliari siano lineari su questo rapporto tra Vangelo e modernità; ci sono oscillazioni, ci sono ambiguità forse anche contraddizioni. Ora in mancanza di esplicite prese di posizione al riguardo possiamo supporre che tale aspetto appaia al pontefice una questione secondaria; davanti all’acquisizione che, considerato nel suo complesso, il Concilio ha portato. Come ha scritto nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia dell’aprile 2015, “abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, il Vaticano II ha aperto una nuova tappa dell’evangelizzazione; lo ha fatto perché ha permesso di annunciare il Vangelo in modo comprensibile all’uomo d’oggi”. Questa interpretazione trova conferma nell’omelia che il papa ha tenuto nel dicembre 2015 in occasione dell’apertura della Porta Santa proprio per il Giubileo straordinario della Misericordia; lo cito perché mi pare un brano cruciale per capire l’atteggiamento di Francesco sul Vaticano II considerato nel suo complesso. Dice il papa: oggi qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che 50 anni fa i padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo; questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti che sino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede (è di nuovo il giudizio sostanzialmente positivo nonostante ritardi cadenze inadempienze opposizioni) perché il Vangelo si trasmetta agli uomini contemporanei. Aggiunge il papa: in primo luogo però il Concilio è stato un incontro, un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo; un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa per riprendere con entusiasmo un cammino missionario; era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo; là dove vive, nella tua città, nella sua casa, nel suo luogo di lavoro, dovunque c’è una persona là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria dunque che dopo questi decenni (cioè i decenni che sono intercorsi tra la fine del Concilio e il suo accesso al pontificato) riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. È un brano ricco molto ricco di tante implicazioni, mi limito a sottolinearne due. Da un lato il pontefice ribadisce il giudizio sulla situazione ecclesiale. Si tratta di rilanciare quel ritrovamento di un rapporto tra Chiesa e cultura contemporanea che, promosso dal Concilio, nei decenni successivi si è appannato; dall’altro lato il papa sottolinea che alla base di quel nuovo rapporto sta la percezione che la Chiesa vive in compagnia di uomini concreti che camminano in un concreto tempo storico. Le conseguenze di queste notazioni per il presente emergono chiaramente nel discorso rivolto il 29 dicembre 2017 all’Associazione Teologica Italiana. Il papa ricorda ancora una volta che il grande merito che ha avuto il Concilio di rendere nuovamente comprensibile il Vangelo agli uomini di oggi ha permesso alla Chiesa di ritrovare capacità apostolica efficacia pastorale slancio missionario. Sottolinea però che in questo mezzo secolo trascorso dalla sua conclusione i tempi sono profondamente cambiati. Gli uomini e la loro cultura sono cambiati. In questa situazione per dare concreta attuazione all’obiettivo indicato dal Vaticano II occorre che la Chiesa realizzi un’ulteriore tappa sulla strada dell’evangelizzazione. Ne è elemento costitutivo la lettura del Vangelo alla luce dei segni emergenti dalla storia in corso. Francesco sintetizza questa sua linea con la proposta di intrattenere con il Concilio un rapporto di fedeltà creativa. Si potrebbe dire che all’assise ecumenica attribuisce un metodo che va applicato al variare delle situazioni, alle nuove condizioni.
Il suo governo mi pare abbia dato attuazione a questa linea affrontando sotto diversi profili la questione che sta al centro dei problemi incontrati dalla Chiesa a partire dall’età moderna, cioè la rivendicazione dell’emancipazione del soggetto dalla tutela ecclesiastica in tutti gli ambiti della vita individuale e collettiva. La risposta del Vaticano II faceva perno sul riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrestri; ricordate la Gaudium et Spes: una giusta autonomia, l’autonomia lecita delle realtà terrene. In tal modo nuovi spazi di libertà erano riconosciuti all’uomo contemporaneo, ma si riservava pur sempre all’autorità ecclesiastica un controllo morale sulle attività umane; chi detiene le chiavi della giustizia, di quella giusta autonomia, se non l’autorità ecclesiastica nella soggezione a quelle universali leggi naturali valide sempre ovunque e per tutti? Solo l’autorità della Chiesa ne è la custode ed interprete. È inutile elencare qui gli scontri che questa impostazione ha prodotto nel post-Concilio man mano che la post-modernità allargava a nuovi e prima impensabili ambiti l’istanza di autodeterminazione del soggetto. Si può notare che qui credo stia una delle ragioni della crisi cattolica. Fin dall’inizio del pontificato Francesco ha riformulato la posizione della Chiesa sottolineando un principio ovvio ma credo anche spesso piuttosto misconosciuto e cioè che nelle verità proposte dal cattolicesimo esiste una gerarchia. I principi non negoziabili derivanti dalla legge naturale non vengono mai abrogati, non sono certo abrogati dall’insegnamento di Francesco, ma sono subordinati al Vangelo. Prima viene il Vangelo poi viene la legge naturale poi vengono i principi non negoziabili cioè l’applicazione della legge naturale, esiste una gerarchia. È inevitabile nella posizione della Chiesa. Dunque un Vangelo il cui nucleo costitutivo è identificato nella misericordia: prima la misericordia, poi la legge naturale poi i principi non negoziabili che non sono cancellati ma vengono dopo, c’è un’istanza primaria della presenza della Chiesa nel mondo che è per l’appunto la misericordia, cioè il Vangelo. Ne consegue un profondo mutamento nel rapporto tra la Chiesa e gli uomini d’oggi: la carità del buon samaritano – e ricordate quanto nella Fratelli Tutti il buon samaritano è la figura cruciale dell’enciclica – non la pretesa di conformare alla legge naturale i comportamenti individuali e gli ordinamenti pubblici è l’elemento costitutivo distintivo e qualificante della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Una delle più note e originali proposte di Francesco, la Chiesa come ospedale da campo, credo che abbia qui la sua radice.
Recentemente mi sembra però che Bergoglio sia andato oltre questo che è stato un po’ il tema cruciale del suo insegnamento. Nell’udienza del 18 agosto ultimo scorso ha sostenuto che i comandamenti non sono assoluti ma sono la via pedagogica che guida il cristiano a diventare adulto e raggiungere così la condizione che consente di vivere la fede nella libertà dei figli di Dio. Il tema è stato appena accennato e può essere sviluppato in molte direzioni. Come voi tutti sapete è un tema delicato, c’è stata Immediatamente dopo la richiesta di chiarimenti avanzata da settori del mondo ebraico che vi hanno visto una ripresa (cosa piuttosto problematica a mio avviso) di temi antisemiti, così come avete visto la risposta ufficiosa dell’Osservatore Romano a questo tipo di valutazione. Ma al di là di questo che ho richiamato solamente per dire che il tema può avere molteplici implicazioni, a me pare che ci sia in questo una implicazione su cui vorrei richiamare la vostra attenzione perché mi pare che vi sia qui uno degli sviluppi più importanti della fedeltà al Vaticano II: ricordare che i dieci comandamenti non sono assoluti ma una via pedagogica perché il cristiano diventi adulto significa porre le premesse, quanto meno porre le premesse per chiudere quella secolare vicenda che ha visto la Chiesa porsi in antitesi alla rivendicazione di autonomia etica e non solo politica dell’uomo moderno.
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La conclusione di daniele Menozzi auspica una chiesa capace di riconosce all’uomo moderno autonomia non solo politica, ma anche etica. In Italia è il cammino verso un “pluralismo etico” sulla nascita e sulla morte, sulla sessualità e sulla famiglia, verso una società plurale in cui ci si confronta e ci si rispetta. Io ho vissuto gli anni della opposizione della Chiesa cattolica alle leggi che hanno legalizzato il divorzio e l’aborto. Anni che hanno visto però anche la presenza nella Chiesa di laici, uomini e donne, che quelle leggi le hanno difese. Oggi l’appuntamento è ancora con il riconoscimento del pluralismo delle famiglie, e sul fine vita. l’accettazione del pluralismo etico è la via anche verso il pluralismo politico.