LE NUOVE SCHIAVITÙ NEL MONDO E LA TRATTA DEGLI ESSERI UMANI
L’altra faccia delle migrazioni
LE NUOVE SCHIAVITÙ NEL MONDO E LA TRATTA DEGLI ESSERI UMANI
Sembrava che gli schiavi fossero un fenomeno del passato, invece sono oggi 40 milioni, per non parlare dei 142 milioni di bambini costretti al lavoro minorile in tutto il mondo. La tratta dei lavoratori da sfruttare e la sua incidenza in Italia. Il fenomeno del caporalato e il suo rapporto con le organizzazioni criminali
Francesco Carchedi
Le nuove schiavitù: si tratta di un fenomeno quasi del tutto dimenticato e appartenente alla storia passata, che invece è riemerso (da almeno un ventennio) anche in Europa e dunque anche nel nostro Paese. Studi e ricerche rilevano il fenomeno delle nuove schiavitù correlato alla tratta di esseri umani, ciò che comprende il reclutamento, il viaggio/trasporto e l’attraversamento di frontiere intermedie (Paesi di transito) e quelle attraverso cui si entra nel territorio dell’Unione europea, a cui segue la sottomissione finalizzata a diverse pratiche di sfruttamento, anche di natura para-schiavistica. Nel nostro Paese queste persone schiavizzate sono visibili sulle strade (essendo costrette alla prostituzione), nelle campagne (per il lavoro bracciantile) ed anche in altri luoghi di lavoro, ciò che la dice lunga sullo slogan “prima gli italiani” o “aiutiamoli a casa loro”.
Slogan sostanzialmente vuoti e privi di qualsiasi fondamento razionale, poiché queste persone schiavizzate sono collocate sull’ultimo gradino della scala sociale, e dunque dietro a tutti gli altri cittadini. Come sono dietro ai cittadini italiani anche gli altri migranti che lavorano, poiché percepiscono salari decurtati di circa un terzo rispetto ai colleghi italiani a parità di mansione, mentre soltanto l’1% svolge una funzione dirigenziale in ambito lavorativo (come si rileva annualmente dal Rapporto Immigrazione del Ministero del lavoro). Questa decurtazione generalizzata non permette ai cittadini di origine straniera (e molti di loro hanno anche la cittadinanza italiana o sono nel nostro Paese dalla seconda metà degli anni Settanta) di avere abitazioni adeguate, di mandare regolarmente i figli a scuola (l’abbandono è molto elevato, soprattutto dopo la terza media), di nutrirsi a dovere (le malattie gastro-intestinali sono molto diffuse), di potersi settimanalmente riposare e di poter aspirare alla mobilità sociale verso l’alto.
Ciò nonostante sono persone operose, lavoratrici e rispettose dei congiunti rimasti nel Paese di origine, dato il flusso di rimesse che inviano costantemente. Le rimesse sono il vero e continuo aiuto che le aree di esodo migratorio ricevono da quanti sono espatriati. Le rimesse sono molto più alte e consistenti quantitativamente di qualsiasi programma di cooperazione allo sviluppo. Raggiungono mediamente il secondo o il terzo posto nella graduatorie dei PIL (Prodotto interno lordo) nazionali per ordine di grandezza, e potrebbero essere ancora più grandi – e produrre ingenti investimenti nei rispettivi territori di esodo – se soltanto gli emigrati potessero percepire un salario uguale a quello dei colleghi italiani e uscire dalle pratiche di sfruttamento. Ciò vuol dire che prioritariamente dovremmo aiutarli a casa nostra, metterli in regola con il lavoro, pagarli adeguatamente secondo i dettati normativi, facilitare il loro avanzamento sociale ed economico, giacché soltanto così essi stessi potranno aiutare le loro famiglie (e i loro Paesi) ad estendere le loro capacità di auto-sviluppo.
I dati e le stime del fenomeno
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, insieme alla Fondazione Walk Free e all’Organizzazione Internazionale delle migrazioni[1], ha elaborato stime a livello mondiale riguardanti le persone che si trovano in maniera evidente e conclamata in condizione di schiavitù sessuale, occupazionale e in altre attività assoggettanti (come ad esempio: l’accattonaggio forzoso, i matrimoni derivanti da compra/vendita delle donne, in primis le minorenni, l’espianto di organi destinati ai mercati internazionali, il lavoro minorile che esclude categoricamente la frequenza scolastica) e dunque privative della libertà (nella sua accezione più ampia) e conseguentemente della stessa dignità umana. Le stime fanno ammontare a 40 milioni queste cosiddette nuove schiavitù.
Tale cifra è il risultato di un’indagine svolta nel corso del 2016, in più Paesi del mondo. I due terzi di queste persone sono coinvolte in attività occupazionali indecenti e schiavistiche in senso stretto, ovvero non possono negoziare nessuna condizione. Le donne e le bambine, dal canto loro, coinvolte in queste diverse forme di schiavitù moderna, ammontano a circa 29 milioni (sui 40 milioni complessivi), dunque i tre quarti del totale, costrette ad alimentare per lo più, in maniera costrittiva e violenta, le diverse configurazioni che caratterizzano l’insieme del mercato del sesso a pagamento. A queste stime, riferite in maggioranza a persone adulte, l’OIL aggiunge anche quelle riguardanti le componenti minorili. Infatti, rileva, insieme agli altri partner citati, che circa 150 milioni di lavoratori nel mondo hanno una età inferiore ai diciotto anni, e che nella quasi totale maggioranza dei casi essi svolgono un lavoro che li impegna lungo l’arco della giornata senza interruzioni di sorta.
Tale coinvolgimento – come già accennato – ne limita o ne esclude (nel tempo) la scolarizzazione di base, precludendo automaticamente anche quella superiore. Tali contingenti minorili per tale ragione sono tendenzialmente destinati a restare con un capitale di istruzione alquanto ridotto, e dunque a frenare o ad annullare del tutto il loro potenziale sviluppo socio-economico e culturale, e quindi influenzare negativamente anche la corrispettiva dimensione interpersonale e socializzante.
La tratta di esseri umani destinazione Europa
Il fenomeno della tratta – ovvero il reclutamento, il trasporto, l’attraversamento delle frontiere e l’immissione delle vittime nei circuiti di sfruttamento – riguarda, seppur con pesi differenziati, tutti i Paesi del continente europeo, soprattutto per lo sfruttamento sessuale e quello occupazionale. In Europa pertanto alcune importanti istituzioni hanno stimato, pur con grandi difficoltà metodologiche, l’insieme delle vittime coinvolte nelle pratiche di sfruttamento sessuale rilevate dai singoli Stati membri a partire dall’ultimo quindicennio, come emerge dal Rapporto Eurostat del 2015. Risulta così che le vittime di tale fenomeno ammontavano nel triennio 2010-2012 a 30.146 unità, di cui il 76,3% donne adulte e il 14,3% minorenni (di ambo i generi). Del restante 9,4% non si hanno informazioni più precise. I dati ufficiali di Greta, un altro istituto dell’Unione, elaborati nel 2016, registrano 16.527 vittime di sfruttamento sessuale, rilevando un loro sostanziale aumento di circa 3.750 unità nel triennio intercorrente tra il 2013 e il 2015 rispetto ai dati precedenti rilevati da Eurostat.
L’incremento riguarda anche la componente minorile che – raffrontando i dati dei due Istituti –passa percentualmente dal 14,3 (dati Eurostat) al 26,4% (dati Greta), quasi raddoppiando i corrispondenti valori numerici. A questi dati di natura per lo più amministrava (in quanto provenienti dalle rilevazioni che si effettuano nei servizi anti-tratta presenti nei Paesi membri dell’UE), occorre affiancare, per circoscrivere l’universo di riferimento (anche se con le dovute cautele), le stime sulle vittime di prostituzione forzosa elaborate nel 2017 dall’OIL-OIM e Walk Free Foundation. Queste stime fanno ammontare il fenomeno della prostituzione coercitiva nei Paesi europei a circa 672.000 unità. I ricercatori che hanno prodotto questa stima vi includono sia le donne che gli uomini che esercitano la prostituzione involontariamente (perché fortemente costretti) e volontariamente (perché ne intravedono dei vantaggi economici).
Le donne che si prostituiscono “volontariamente”, rilevano i medesimi ricercatori, pur caratterizzandosi come persone adulte consenzienti in quanto accettano la pratica prostituzionale come soluzione a necessità economiche impellenti, con il passar del tempo vengono sottomesse al pari delle altre donne, poiché gli sfruttatori con minacce, ricatti e violenze, ne limitano progressivamente l’autonomia e quindi la corrispettiva capacità decisionale fino ad annullarla del tutto. L’annullamento della capacità decisionale le vincola ai rispettivi aguzzini in maniera totalizzante, escludendo qualsiasi possibilità di spezzare il meccanismo di assoggettamento se non rischiando la propria incolumità psico-fisica (e quella delle persone di prossimità). La fuoriuscita da questa condizione diventa un’operazione complessa, in quanto richiede l’intervento di forze esterne come quelle che possono attivare gli organi di polizia da un lato e i servizi sociali dall’altro.
E ciò vale non solo per le vittime costrette alla prostituzione coercitiva e coatta, ma anche per quelle invischiate in occupazioni servili e para-schiavistiche, come i lavoratori stranieri ingaggiati nell’ambito delle produzioni agro-alimentari, soprattutto nelle fasi di raccolta dei prodotti della terra,
I braccianti agricoli: contratti iniqui e incostituzionali
Nel settore agricolo, in base ai dati ufficiali dell’Istat e del Ministero dell’Agricoltura-Crea (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi economica agraria) nel 2016 su circa 1.120.000 lavoratori dipendenti nel settore agro-alimentare circa un terzo erano lavoratori stranieri (pari a 400.000 unità) . Gli addetti complessivi sono occupati per l’80,3% a tempo determinato con contratti stagionali, il restante 20% invece sono occupati a tempo indeterminato, ovvero stabilmente. Nelle regioni meridionali i lavoratori stranieri occupati in agricoltura rappresentano, nel loro insieme, il 40,8% del totale e nelle regioni centro-settentrionali l’altro 60,0% (all’incirca). Nell’una e nell’altra ripartizione la componente maggioritaria è quella formata da occupati comunitari, provenienti dall’Europa dell’Est.
Da uno studio realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto-Flai Cgil (OPR) del giugno 2018 si evince chesull’intero territorio nazionale sono presenti ben 376 aree agricole dove si rilevano forme di sfruttamento di lavoro indecente e para-schiavistico, e dove sono coinvolti principalmente braccianti di origine straniera ed anche italiani (seppur in misura numerica minore). Secondo la stessa Flai le stime dei braccianti coinvolti in occupazioni indecenti e sfruttati gravemente raggiungono le 130/150.000 unità, diversamente distribuite lungo l’intera penisola. Una legge recente – la n. 199/2016 (Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni di lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo) prevede norme di contrasto allo sfruttamento ed è considerata da più parti come molto innovativa, soprattutto per quanto concerne l’introduzione di strumenti di contrasto agli attori che mettono in essere le pratiche di sfruttamento: da una parte, il reclutatore di manodopera e dall’altra l’imprenditore che lo ingaggia a tale scopo..
Ma questa legge, al contempo, in particolare per quanto riguarda i rapporti di lavoro, si innesta ancora (marzo 2019) in un quadro normativo – regolativo dei rapporti di lavoro nel settore agricolo – pre-esistente, che vanifica di fatto i potenziali effetti positivi per quanto concerne la riduzione/il contrasto delle modalità di sfruttamento. In sostanza, non c’è ancora un allineamento tra il nuovo spirito della legge nella sua complessità e le disposizioni che regolano i rapporti di lavoro agricolo-bracciantili nella loro concretezza fattuale, poiché permangono forti resistenze affinché perduri questa divaricazione, soprattutto da parte delle organizzazioni imprenditoriali.
Il caporalato: un fenomeno diffuso
L’incontro domanda/offerta di lavoro nel settore agroa-limentare avviene in minima parte ad opera dei servizi del lavoro (Centri per l’impiego e Agenzie interinali), e in massima parte mediante canali informali (il cosiddetto passaparola tra i diretti interessati) e in maniera illegale (mediante intermediatori specializzati, i “caporali”). Questi ultimi non agiscono da soli, ma dietro un ingaggio che ricevono specificamente da imprenditori che necessitano di manodopera per le raccolte e per altre attività aziendali (pulizia delle stalle, potatura, manutenzione dei campi/vigne e oliveti, etc.). L’intermediario di manodopera e l’imprenditore che lo ingaggia producono insieme il fenomeno del caporalato. Da questa congiunzione funzionale, risulta che il caporalato è propriamente un rapporto sociale di produzione illegale messo in essere da imprenditori che non seguono i canali formali e standardizzati per ingaggiare la manodopera necessaria all’assolvimento delle rispettive necessità aziendali.
E’ un rapporto che nasce dalla volontà del datore di lavoro per soddisfare i propri interessi economici insieme a quelli degli altri datori operanti all’interno di un distretto agro-alimentare o di una intera provincia. Questi imprenditori – in genere quelli più forti sul piano economico e dunque in grado di influenzare l’intera platea di imprenditori operanti nella medesima area – all’inizio della stagione determinano il volume dei potenziali profitti da raggiungere. Tra questi imprenditori non mancano coloro che acquisteranno i prodotti appena raccolti per trasformarli e commercializzarli, collocandosi in maniera sovrastante ai piccoli/piccolissimi imprenditori che saranno costretti a vendere il raccolto alle condizioni imposte anche contro la loro volontà. Infatti, sono questo ultimi che generalmente stabiliscono, congiuntamente ad alcuni altri imprenditori a capo delle aziende più grandi, il prezzo del prodotto da raccogliere.
Prezzo iniquo che costringerà i piccoli(piccolissimi imprenditori ad abbassare ulteriormente il prezzo orario da conferire ai raccoglitori/braccianti che ingaggeranno per poter effettuare comunque la raccolta. Il prezzo così fissato è come un’asticella da non superare, e non è per nessuna ragione negoziabile da chicchessia. E’ un prezzo inamovibile, rappresenta il cosiddetto “salario di piazza”: ovvero il salario che si proietta verso il basso rispetto a quello standard indicato dai contratti di categoria. I produttori, soprattutto quelli che dirigono le aziende più piccole (quasi il 95% delle aziende italiane), per avere il loro tornaconto devono contrarre il costo del lavoro ai livelli più bassi possibile, aggirando diffusamente le norme contrattuali. E al contempo, per trovare una manodopera disposta a lavorare per quel basso/bassissimo salario sono (quasi) costretti a ricorrere sistematicamente ai caporali, cioè a degli intermediari di fiducia che selezioneranno, recluteranno e controlleranno le maestranze. E questo stesso caporale le pagherà anche, svolgendo molteplici funzioni e schermando così il datore di lavoro all’esterno, cioè dalle ispezioni da parte degli organi competenti.
Cosicché il lavoro nel settore agricolo tenderà a caratterizzarsi, al proprio interno, con differenti sfaccettature che – posizionate su un asse orizzontale – assumono altrettante configurazioni in base alla qualità delle condizioni che vivranno i lavoratori coinvolti, a partire da quelle standard (con contratto regolare), non standard senza contratto (ma decenti e dignitose) a quelle indecenti/degradanti che, oltre all’assenza del contratto, si configurano come prestazioni assoggettanti e dunque con variegate modalità di sfruttamento[2]. Queste ultime situazioni permettono una acquisizione reddituale d’impresa maggiore, che aumenta ancora in presenza di manodopera de-contrattualizzata e occupata nella più totale informalità/indecenza.
Le imprese che occupano questa manodopera vulnerabilizzata in agricoltura – secondo Andrew Crane- sono dotate di capabilty in grado di condizionare negativamente le dinamiche concorrenziali nei contesti territoriali dove operano e dove arrivano i prodotti appartenenti alla propria organizzazione commerciale, alterando, altresì, a proprio vantaggio, l’intera filiera di valore. Si tratta, in sostanza, di imprese che riescono a deviare il sistema produttivo – prefigurato normativamente – verso finalità che convergono intenzionalmente nell’uso massivo di lavoro mal pagato, a lungo orario e senza alcuna tutela socio-previdenziale. Il settore agricolo – per la sua conformazione storica- si presta alla compresenza di imprese conformi e imprese non conformi alle norme correnti; in mezzo a queste ultime allignano quelle imprese che occupano manodopera servile, deviando dal mandato istituzionale.
L’impiego dei caporali: squadre e contro-squadre
Ciò accade anche per le criticità che si riscontrano nei meccanismi che sottendono l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, soprattutto nelle fasi in cui la produzione agricola richiede picchi più alti di manodopera coincidenti con le raccolte stagionali. In questa logica, quanto maggiori sono le criticità sistemiche di collocamento trasparente della manodopera, tanto maggiore è la propensione delle aziende a ricorrere a intermediatori illegali, come avviene in molti distretti agro-alimentari sull’intero territorio nazionale. Il fenomeno del caporalato -ovvero dell’intermediazione illegale di manodopera- diviene paradossalmente necessario alle imprese, giacché le criticità strutturali dei Centri per l’impiego pubblico (e finanche delle Agenzie interinali) non permette ad esse di addivenire ad un adeguato ed efficace reclutamento di manodopera.
Da ciò scaturisce però un’ ulteriore distorsione delle dinamiche concorrenziali, poiché le aziende che utilizzano tali procedure illegali si avvantaggiano rispetto a quelle che non le utilizzano o le utilizzano rispettando comunque gli standard contrattuali. Queste ultime aziende, rispetto a quelle che agiscono in modo meramente illegale, tendono a selezionare nel tempo, per quanto sia possibile, i caporali a cui si rivolgono per la costruzione delle squadre di braccianti da occupare.
Secondo quanto rileva ancora l’OPR– si riscontrano tre tipi di caporali, distinguibili in base al grado di condivisione e di co-decisionalità che stabiliscono con le rispettive squadre di braccianti. Queste diverse forme organizzative determinano tensioni e conflitti diversamente intrecciati all’interno dei distretti agro-alimentare dove vengono occupati stagionalmente. Una prima forma organizzata è quella costituita dalle squadre di lavoro che si aggregano intorno ad un caporale, il quale si configura in questo caso come un “primo tra pari”, ovvero un capo-squadra. Il grado di decisionalità tra i membri della squadra è equilibrato, poiché questa figura non è invasiva. Il prodotto economico del lavoro, tolte le spese sostenute dal capo-squadra (ad esempio, per la disponibilità di un mezzo di trasporto o di altri beni di consumo, come acqua, cibo etc.), viene dunque suddiviso in parti uguali.
La seconda configurazione organizzativa è completamente sbilanciata sul carattere meramente decisionale del caporale. È quest’ultimo difatti a decidere tutto, tant’è che i braccianti da lui coinvolti hanno l’obbligo di accettare qualsiasi decisione. Il regime gerarchico non accetta defezioni o contraddizioni, pena l’espulsione dei braccianti non allineati o non allineabili. Si tratta nei fatti di contro-squadre, in contrasto con le prime. Tendono ad essere fortemente concorrenti alle squadre ”cooperanti” mediante l’abbassamento dei costi di produzione per la raccolta dei prodotti. I medesimi caporali prelevano quanto più possibile dalle quote salariali spettanti ai membri delle loro squadre, non soltanto per il trasporto ma anche, in modo esorbitante, per ciò che riguarda altri beni di consumo (acqua, vestiario da lavoro, etc.).
La terza configurazione organizzativa è del tutto particolare, in quanto è diretta e gestita da caporali al servizio di organizzazioni criminali e di imprenditori che sono con loro collusi. Pertanto il caporale rappresenta gli interessi diretti di entrambi, dunque il caporale è un agente dell’organizzazione criminale che attiva e gestisce il processo predatorio. Conseguentemente i caporali sono alle dipendenze dell’organizzazione mafiosa che decide in tutto e per tutto come trattare le maestranze bracciantili, i salari da erogare e le modalità complessive caratterizzanti i rapporti di lavoro.
La seconda e la terza configurazione organizzativa sono di fatto alleate a contrastare la prima, e altresì, l’insieme delle aziende agricole che stabiliscono rapporti con esse. Rapporti che pur non conformi alle norme correnti, e dunque non giustificabili, tendono ad ingaggiare le squadre per la produzione-raccolta dei prodotti in maniera non invasiva e violenta. Inoltre, occorre sottolineare che la terza configurazione organizzativa risulta essere per lo più stanziale, dunque stabile nelle aree dove maggiore è la possibilità di occupazione (in conformità dei legami con le strutture malavitose). Le altre due organizzazioni (squadre e contro-squadre) tendono ad essere molto più mobili, proprio per svincolarsi dall’influenza criminale e ridurre la loro capacità di acquisire commesse occupazionali.
Francesco Carchedi
[1] OIL Roma, 40 milioni sono intrappolate in forme di schiavitù moderna e 152 milioni di bambini sono vittime di lavoro minorile nel mondo, in www.ilo.org/rome/risorse-informative/comunicati-stampa/WCMS_575493/lang. it/index.htm (accesso 23.2.2019). inoltre, Global estimates of Modern slavery. Forced labour and forced marriage, Ginevra, settembre 2017, p. 39, in https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@dgreports/@dcomm/documents/publication/wcms_575479.pdf (accesso 22.02.2019).
[2] Alessandro Leogrande (2008), Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano; Antonello Mangano (2009), Gli africani salveranno Rosarno, Terrelibere; Francesco Carchedi (2010), Schiavitù di ritorno. Il fenomeno del lavoro gravemente sfruttato: le vittime, i servizi, il quadro normativo, Maggioli; Federica Dolente e Mattia Vitiello (2010), Italia. Analizzare Rosarno, in «Rivista delle Politiche Sociali. I diritti alla prova dell’immigrazione. Criteri e definizioni della cittadinanza», n.2/2010; Enrico Pugliese (a cura di) (2013), Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno, Ediesse; Osservatiorio Placido Rizzotto FLAI-CGIL, II Rapporto Agromafie e Caporalato, Anni 2013, 2014, 2016 e 2018 Edizioni Lariser e Ediesse, Roma.