L’ITALIA RESPINGE
L’ITALIA RESPINGE
Quando l’aeroporto diventa prigione. La testimonianza di una signora cubana:. “I miei cinque giorni reclusa a Malpensa”
13 dicembre 2018
MILANO – “Chiusa in quella stanza senza finestre non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte”: Hanyi Figueras Pelaez è la donna cubana rimasta bloccata all’aeroporto di Malpensa per cinque giorni perché, di ritorno da un periodo di vacanza nel suo Paese d’origine, ha scoperto al controllo documenti della Polizia di frontiera che il suo permesso di soggiorno era stato revocato.
Arrivata con un volo diretto dall’Avana il 26 novembre, è stata rimpatriata il primo dicembre a spese dello Stato italiano. Contattata a Cuba da Redattore Sociale (che sta seguendo la vicenda fin dai primi giorni), racconta i suoi giorni da reclusa a Malpensa. “È un’esperienza che non auguro a nessuno. Gli agenti della Polizia sono stati gentilissimi, ma comunque era come stare in prigione. Anzi forse peggio”. Hanyi è stata messa in una stanza con altri stranieri, tutti in attesa di essere rimpatriati. “Mi hanno concesso di fare due telefonate con il mio cellulare e poi me lo hanno sequestrato – ricorda -. ‘Signora si scriva i numeri che vuole chiamare, perché ora il cellulare lo prendiamo noi’ mi hanno detto. Il motivo? Per evitare che facessi foto delle condizioni in cui eravamo rinchiusi. Nella stanza c’erano due telefoni a monete e una macchinetta cambia monete. Potevamo fare tutte le telefonate che volevamo, ma chi era senza contanti o ne aveva pochi era ovviamente in difficoltà. C’era un signore di Santo Domingo che aveva solo carte di credito. Gli abbiamo dato noi i soldi per chiamare i suoi familiari”.
Mentre Hanyi era reclusa in quella stanza adibita a cella, dall’altra parte della barriera del controllo documenti c’erano due avvocati, Giulia Vicini e Federico Micheli, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e il suo compagno che chiedevano invano di incontrarla. I due avvocati erano lì anche per il caso analogo di una signora senegalese, incinta di tre mesi, che è stata rimpatriata sempre l’1 dicembre. “In cinque giorni non ho potuto cambiarmi né fare una doccia – racconta Hanyi -. Il bagaglio in stiva mi è stato riconsegnato qui a l’Avana. Quello a mano potevo invece aprirlo solo in presenza di un agente della Polizia di frontiera. Nel bagaglio a mano, però, non avevo un ricambio e quindi sono rimasta con quello che indossavo all’arrivo”.
In quella stanza-cella senza finestre di Malpensa viene rinchiuso ogni straniero che deve essere rimpatriato. “C’è stato un momento in cui eravamo in 18, uomini e donne insieme – aggiunge -. Si rimane lì in attesa del primo volo di ritorno disponibile. Quindi c’è chi ha aspettato solo poche ore e altri, come me, più giorni perché da Malpensa per alcune destinazioni partono voli solo una o due volte alla settimana. Per Cuba è due volte alla settimana”. Dunque una detenzione la cui durata dipende dall’orario dei voli.
L’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti, contattato da Redattore Sociale, ha sottolineato come la detenzione di una persona per oltre 48 ore deve essere convalidata da un giudice di pace. Per questo il Garante ha chiesto chiarimenti alla Questura di Varese sia sul caso della signora cubana che per quello della signora senegalese. Chiarimenti che per ora non sono ancora arrivati. “Per la notte ci davano dei lettini da campeggio, una coperta e un cuscino – continua Hanyi -. Al mattino servivano un cappuccio e per pranzo e per cena un primo e un panino con pomodoro e mozzarella”.
In cinque giorni, Hanyi non ha potuto incontrare gli avvocati che avrebbero potuto aiutarla. Singolare, tra l’altro, la storia di Hanyi: aveva infatti ottenuto la cittadinanza italiana, ma doveva ancora fare il giuramento, quindi era ancora valido il suo vecchio permesso di soggiorno che però le è stato revocato perché non è più convivente con il marito, dal quale si è separata. Alla signora senegalese invece il permesso di soggiorno, in fase di rinnovo, è stato revocato per insufficienza di reddito. “Si tratta di revoche contestabili perché si basano su interpretazioni secondo noi errate delle norme in materia”, ha sottolinea l’avvocata Giulia Vicini dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha seguito il caso in queste settimane (vedi lancio del 3 dicembre 2018). Secondo l’avvocata si tratta di rimpatri illegittimi. “Le revoche dei permessi di soggiorno sono state notificate alle due signore nel momento in cui si sono presentate al controllo documenti. E la revoca ha effetto dal momento in cui viene notificata. Quindi quando sono sbarcate dall’aereo erano in regola. L’aeroporto è già Italia e avevano tutto il diritto di impugnare i rispettivi provvedimenti di rigetto e di revoca davanti all’autorità giudiziaria competente”. Gli avvocati volevano incontrare sia Hanyi che la donna senegalese proprio per far loro firmare il mandato di presentare il ricorso. Ora potranno farlo solo dai loro Paesi d’origine, tramite i consolati, con un aggravio di spese e con tempi più lunghi, con il rischio che saltino i termini entro i quali il ricorso è valido. La Polizia di frontiera ha negato l’accesso all’avvocata Vicini perché l’area arrivi è considerata come una specie di territorio internazionale, non sottoposto alla giurisdizione nazionale. L’avvocata contesta questa motivazione. “È come se dicessero che in aeroporto c’è una zona che non è Italia”.
La vicenda di Hanyi e della donna senegalese ricorda quella di una famiglia marocchina, raccontata sempre da Redattore Sociale, che si è conclusa, dopo oltre un anno e mezzo di battaglia legale, alla fine di novembre. Padre, madre e quattro figli, in Italia da oltre un decennio: al ritorno da un periodo di vacanza, la donna scopre a Malpensa che il suo permesso di soggiorno è stato revocato per un errore nella dichiarazione dei redditi fatta dal datore di lavoro. Lei, con tre dei figli, deve fare ritorno in Marocco, lui rientra in Italia con la più piccola. Hanno fatto ricorso e, dopo più di un anno, hanno ottenuto il permesso di rientrare in Italia e vivere di nuovo tutti insieme.
Hanyi è furibonda e amareggiata. “A Milano ho un lavoro da commessa, sono assunta – sottolinea -. I miei datori di lavoro mi hanno scritto di non preoccuparmi, che mi tengono il posto. Ma è chiaro che è un danno sia per me che per loro. Mi hanno revocato il permesso di soggiorno perché non più convivente, ma le notifiche le mandavano sempre all’indirizzo del mio ex marito. È una bella contraddizione, o no? Tanto che io non ho mai ricevuto nulla e non sapevo della revoca. Se mi si fosse arrivata la revoca al mio nuovo indirizzo avrei potuto fare ricorso. Ho un lavoro, pago le tasse, hanno accettato la mia domanda di cittadinanza italiana. Cos’altro devo fare? Perché decidono di rispedirmi a Cuba?”. “Presenteremo due ricorsi – annuncia l’avvocato Federico Micheli -. Uno contro la revoca del permesso di soggiorno e l’altro per il respingimento illegittimo, con richiesta dei danni subiti”. (dp)
(da “Redattore sociale”)