MORO NON ERA SOLTANTO “UNA VITA”
MORO NON ERA SOLTANTO “UNA VITA”
Durante i 55 giorni del sequestro con questo ed altri articoli usciti sul “Paese sera” fu sostenuta una linea alternativa a quella egemone della “fermezza”; vi si diceva che le BR erano solo l’iceberg di un più potente avversario e si prevedeva che, dopo Moro, dei “signori inappuntabili”, beneficiari ed eredi del terrorismo, sarebbero venuti a presentare i conti dell’ottenuta rivincita sulla democrazia
Raniero La Valle
Pubblichiamo l’articolo del 24 aprile 1978 sul “Paese sera” dal titolo “Moro non è soltanto ‘una vita’”, in cui, a più di un mese dal sequestro di Aldo Moro, si insisteva sulla necessità di trovare una soluzione politica alla crisi e si rispondeva ai critici che avevano accusato la “linea della trattativa” di essere negatrice dello Stato.
Per quanto mi riguarda – lo dico ad Occhetto, a Scalfari, a Pratesi e ad ogni altro critico non volgare della posizione che ho assunto – il divario tra la linea della fermezza e la linea della trattativa non è un divario tra assertori e negatori dello Stato, ma un divario sul modo in cui salvare lo Stato.
Per salvare lo Stato bisogna sapere chi sono i nemici da cui bisogna difenderlo. Mia convinzione è che queste brigate, di cui ignoro il colore, siano solo l’iceberg di un potente avversario che gioca su molti tavoli, non tutti clandestini, che riemerge “a sinistra” dopo essere stato battuto a destra, che non solo usa carte d’identità false, ma anche usa falsi nomi, falsi gerghi e dichiara falsi obiettivi: un avversario che ci manda tutti al lago della Duchessa, mentre si trova altrove, che si intende di telefoni e si fa scoprire un “covo” completo di accessori e di documenti riservati della Questura, che nelle librerie di sinistra compra le parole e i vecchi album di famiglia per comporre i suoi messaggi, nei negozi autorizzati acquista le armi, e negli arsenali fascisti prende la libidine del potere, il culto piccolo-borghese per la violenza vendicatrice, il rancore per la classe operaia da cui è escluso, il disprezzo per la vita.
Questo avversario non vuole distruggere la “fermezza” dello Stato, ma anzi la pretende; quello che vuole distruggere è proprio la sua apparente “debolezza”, cioè la sua tolleranza, la sua umanità, la sua civiltà, la sua rinunzia a infliggere la morte, la sua “utopia” per cui ogni libertà sia permanente ed ogni prigionia sia provvisoria. Lo Stato che vuole non lo vuole debole e tardo per garantismi, mediazioni, scrupoli costituzionali o morali, ma lo vuole fortissimo e spicciativo, stile via Fani; per questo non vuole “questo” Stato, che invece io, caro Scalfari, rispetto e difendo, nonostante tutti i suoi limiti e i suoi peccati.
Per lo Stato, non è facile difendersi da questo avversario, che ha molti volti e molti padroni, vicini e lontani, lontani e vicini. Chiedete a un cileno, a un vietnamita, a un libanese, a un palestinese, a un cecoslovacco che cosa vuol dire avere nemici e padroni vicini e lontani, lontani e vicini.
Per difendersene, lo Stato deve difendersi anche da se stesso, da ciò che alberga dentro di sé, nelle proprie stesse strutture; e deve difendersi non solo dalle sue inadempienze e dalle deviazioni già consumate, ma anche dalle sue tentazioni, dal rischio di diventare, attraverso una serie di “atti preparatori” compiuti, anche in piena lealtà, per salvaguardarsi, troppo simile allo Stato che i suoi nemici vorrebbero instaurare.
In questo contesto non basta “non riconoscere” le Brigate Rosse, se questo è il problema che ha bloccato ogni possibilità alternativa. Già bisognerebbe chiedersi cosa vuol dire “riconoscere”: quando un questore tratta con dei banditi asserragliati in una banca o in un carcere con degli ostaggi, non li riconosce come “combattenti” o come controparte politica e giuridica, ma come banditi, come detentori arbitrari di un potere di fatto su persone da tutelare; fronteggia una violenza.
Ma nei confronti di questo terrorismo, più importante ancora che non “riconoscerlo”, sarebbe conoscerlo, cioè decodificare e individuare il progetto politico (magari agli stessi esecutori ignoti) di cui esso è strumento e funzione.
Tutto infatti non comincia e finisce nella macelleria delle Brigate Rosse. Del resto la Grande Mafia di cui ogni tanto troviamo, a molte latitudini, dei messaggi in bottiglia, ci aveva avvertito: con i comunisti non dovete far nulla. Moro aveva fatto lo sgarro; tanto peggiore, perché in qualche modo efficace. Allora quella di Moro non è soltanto “una vita” da salvare “ad ogni costo”: se io rifiuto il feticismo dello Stato, come cristiano rifiuto anche l’idolatria della vita; so bene che la vita si gioca, si offre e se necessario si sacrifica. Ma non pagare qualsiasi prezzo, non significa che non si debba pagare nessun prezzo, quando poi il costo della morte violenta di Moro sarebbe ancora maggiore, proprio per questo Stato che vogliamo salvare. Io capisco che oggi trattare venga giudicato “politicamente” impossibile, dopo che si sono bruciati i vascelli sulla riva, e quando c’è il rischio di un collasso emotivo che metterebbe alla prova il lealismo di quanti sono chiamati a difendere lo Stato e ad amministrarne la giustizia, nonché il rischio di una rottura al vertice del sistema politico; queste e analoghe motivazioni del rifiuto, chiaritesi nelle ultime ore, sono meno astratte e superstiziose, più verosimili e fondate, e dunque più umane. E mi sembra importante che, almeno, il dibattito sia giunto a questo punto. Resta il fatto, sia detto per Scalfari, che lasciare Moro nelle mani dei suoi oppressori è una sconfitta: che la legge uguale per tutti ha finito per essere per lui più severa e impotente; che dopo un mese di insuccessi dello Stato attraverso le vie usuali dell’investigazione e della repressione, proprio la legge che, per essere eguale per tutti, deve non egualmente operare nelle diverse circostanze, avrebbe potuto imporre o suggerire strade meno usuali, che senza dubbio, nelle stesse straordinarie circostanze, dovrebbero valere per ogni altro cittadino.
Non voglio riaprire la piaga, ma solo chiedere che a questa crisi della società e dello Stato, non si aggiunga l’aggravante di risuscitare vecchi fantasmi, come quello del sospetto storico di infedeltà allo Stato, addossato a cittadini che si battono per uno Stato diverso, o a cattolici che tanto più credono in uno Stato di tutti e per tutti, quanto più hanno superato l’immagine dello Stato come una confederazione di ghetti, propria del cattolicesimo politico.
Se l’appello del Papa, che ha saputo coraggiosamente spezzare i vincoli di una impossibilità materiale e formale che avrebbe potuto paralizzare anche lui, non dovesse bastare, e il peggio dovesse venire, avremmo bisogno di molta lucidità, di molta unità, e anche di qualche distinzione. È bene perciò non aprire conflitti supplementari, e concentrarsi sulla vera sfida. Dopo Moro, gli sconfitti di ieri si muoveranno per la rivincita, e quanti sono riusciti a far prevalere finora un progetto politico lungimirante, si troveranno a fronteggiare delle prove assai dure. Allora non ci sarà più il crudele, irriconoscibile volto del terrorismo. I conti ce li presenteranno signori inappuntabili e incensurati: non mandanti né complici del terrorismo, ma suoi beneficiari ed eredi. E allora sì, che dovremo trattare.
Raniero La Valle
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Raniero e’ come sempre lucido e sincero, ma avendo seguito da vicinissimo
la tragedia Moro, facendo la spola tra Berlinguer, Zaccagnini e Macchi, cioe’
le mosse concrete del Papa per salvare l’amico senza tradire nessuno, e con lui salvare
anche un progetto politico-sociale che apriva strade diverse per tutti, e non solo da noi,
non riesco ad essere d’accordo. Allora si fece tutto il possibile, ma troppa realtà, e gigantesca, ad ovest soprattutto e nei servizi segreti e in mano alla P2, ma anche ad est,
dove Berlinguer non era certo guardato con simpatia nel suo accostarsi alla dc di
Moro e Zaccagnini, era per la morte, fino dall’inizio e senza scampo…Andiamo avanti, ora,
che non sia troppo tardi. Un abbraccio. Gianni Gennari
Caro Gianni, non c’è dubbio che Zaccagnini, Paolo Vi e molti come loro erano persone buone che volevano la vita e la salvezza di Moro, e tu ne hai fatto diretta esperienza. Questo nessuno lo discute. Ma il problema è che quella che è riuscita a imporsi su tutti i principali responsabili e sull’opinione pubblica è stata l’ideologia della ragion di Stato veicolata come “fermezza”, e tutti ne sono stati, spesso anche sbadatamente, interpreti. Lo stesso Cossiga, vent’anni dopo, scrisse distinguendo la sua responsabilità personale, che lasciava a Dio da giudicare, e l’oggettiva sua partecipazione alla catena delle cause che inevitabilmente avrebbero portato alla uccisione di Moro. Qui sta il sacrificio, che se non era chiaro alla DC, era chiarissimo a Moro. Ed è verissimo che molti volevano la morte di Moro: ma non solo oltre Atlantico o nelle cancellerie, ma anche in persone che in quei giorni prendevano le decisioni operative; come escludere che i molti piduisti che allora erano insediati ai posti di comando dei Servizi o dei comitati interministeriali non fossero essi stessi consapevoli fautori ed esecutori della sentenza di morte? Questo nulla toglie alla delittuosità delle BR, ma appunto esse erano dentro un gioco più grande. Quindi si può benissimo celebrare il sacrificio di Moro, senza far torto alle persone che avrebbero voluto e magari hanno anche operato. per vie del tutto inadeguate, come la “via umanitaria” (quando invece c’era solo una via politica) per la sua salvezza. Grazie. un abbraccio Raniero La Valle