MORO SI ERA SEMPRE OPPOSTO A IMPEDIRE I RISCATTI
Contro la ragion di Stato
MORO SI ERA SEMPRE OPPOSTO A IMPEDIRE I RISCATTI
Una testimonianza diretta sul rifiuto di Moro, come presidente del Consiglio, di far passare una legge che avrebbe impedito alle famiglie dei sequestrati di pagare i riscatti per la liberazione dei loro cari
Cristiano Zironi
Un tweet di Castagnetti in ricordo di Moro, nel 40° anniversario della sua uccisione per opera delle BR, ricordava un aspetto particolare della sua personalità e della sua impostazione giuridica e vorrei dire culturale e morale. Quello del suo modo di vedere il rapporto fra la ragion di Stato e le ragioni della vita umana.
Un tema delicato, come si ricorderà, perché in una delle sue lettere dalla prigionia, quella a Zaccagnini recapitata il 4 aprile 1978 e riportata qui in calce, Moro, per confermare la sua richiesta di una trattativa e dimostrare che quanto proponeva non era il frutto di una valutazione interessata ed egoistica, ma di una impostazione generale a tutela del valore insopprimibile della vita umana, ricorda che da sempre e in tutte le sedi in cui aveva svolto i suoi alti incarichi, lui era stato sempre contrario alla legislazione sul blocco dei beni dei sequestrati.
Ed a testimoni invoca i ministri degli Interni Paolo Emilio Taviani e Luigi Gui i quali, durante la sua presidenza del consiglio, gli avevano entrambi portato un disegno di legge sul blocco dei beni delle famiglie dei sequestrati e ad entrambi lui aveva opposto un rifiuto e non consentito di portare la proposta di legge al consiglio dei ministri.
Il richiamo di Pierluigi Castagnetti mi consente di portare una mia testimonianza diretta in quanto nel 1976 ero segretario del ministro Gui agli Interni e ricordo bene che lui portò a Palazzo Chigi una cartellina nella quale era contenuta la bozza di disegno di legge con introduzione della facoltà, da parte della magistratura, di bloccare i beni delle famiglie dei sequestrati (c’era stato il rapimento Sossi ed altri dell’”Anonima sequestri”) per impedire il pagamento del riscatto e rendere improduttivo il sequestro, anche al fine di svolgere opera di dissuasione. Provvedimento caldeggiato dalla Polizia e da una parte della magistratura, ma il ministro tornò dicendo che Moro non era d’accordo. Infatti Moro – finché fu titolare di responsabilità di governo – non volle mai lasciar passare il provvedimento, proprio con la motivazione che il valore della vita umana era imprescindibile e superiore a qualsiasi altra considerazione di opportunità.
In quel frangente purtroppo Taviani si premurò – con indicibile e sospetto zelo – di rifiutare la sua testimonianza, mi pare negando che fosse vero! E Gui, pur preso alla vicenda Lockheed , confermò, anche se inascoltato.
L’alto significato morale e anche religioso della impostazione di Moro, che corrisponde certamente alla sua cultura e alla sua personalità, e che invece venne svilita, come le altre sue valutazioni, alla stregua di un plagio o addirittura come il frutto di una scrittura sotto dettatura, si arricchisce così di un altro riflesso molto importante e significativo.
Ed è questo, a mio parere, oggi evidente, vale a dire la conferma che le lettere di Moro erano autentiche e corrispondevano alla sua visione e alla sua intelligenza.
Non potevano le BR conoscere i precedenti dei ddl sui beni dei sequestrati. Ma se il presidente affermava con sicurezza questo che in fondo era solo un particolare, anche il resto era veritiero e plausibile e non doveva essere rifiutato.
Altrettanto doveva far pensare l fatto che Moro, nonostante fosse sottoposto ad un interrogatorio perché svelasse i misteri e i segreti anche militari dello “stato imperialista e antidemocratico delle multinazionali” (il mitico SIM), invece a conti fatti, viste le lettere e i vari memoriali, nulla rivelò dei segreti più importanti e delicatissimi che certamente conosceva. Ma non fu creduto, in nome della ragion di stato che ha prevalso sulle ragioni della vita. E la vita democratica italiana prese un’altra svolta.
Estratto dalla lettera a Zaccagnini del 4 aprile 1978
“”Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi.
Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco.
Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità senza avere subìto alcuna coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi.
Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi ed a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti.