Newsletter n. 23 del 21.06.2017
Cari amici,
martedì 20 giugno è stato un giorno di festa per il viaggio del papa a Bozzolo e a Barbiana, alla scoperta del prete italiano, celebrato come amico dei poveri e del Vangelo e non come “funzionario del sacro”; tali furono don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, proposto quest’ultimo come modello per parroci e preti e per il papa stesso.
Prima che egli andasse alla tomba di don Milani per farsi perdonare, la Civiltà Cattolica, che a suo tempo fu interprete della Chiesa che condannava il maestro di Barbiana non avendone riconosciuto la “profezia”, ha pubblicato un caloroso articolo del suo vicedirettore, Giancarlo Pani, per attestare il cambiamento dei tempi e celebrare, come dice il titolo dell’articolo, un “prete cristiano”. Per gentile concessione della rivista ne pubblichiamo un estratto, rinviando per il testo integrale a un apposito link.
È stata intanto data notizia che in Vaticano un apposito gruppo di lavoro sta elaborando “a livello internazionale e di dottrina giuridica della Chiesa la questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa”. La novità ha avuto una grande risonanza in Italia dove alto è il livello di corruzione e dove i mafiosi ostentano devozione alla Chiesa e veri o presunti favori ecclesiastici; la notizia, come ha riferito la newsletter dell’Instituto Humanitas Unisinos, ha avuto però anche un forte impatto in America Latina dove talvolta “religiosità popolare e crimine organizzato si incrociano tessendo un perverso sincretismo”, e dove i rei di narcotraffico si raccomandano a ‘Nossa Senhora’ e ai santi.
La lotta alla corruzione è uno degli indicatori di questo pontificato. Sempre Francesco la denuncia come una gravissima piaga sia in ambito ecclesiale che civile, e a questa denuncia non fa ostacolo l’illimitata apertura alla misericordia che è propria del suo ministero papale; una volta disse nell’omelia a Santa Marta ( il 16 marzo 2017) che, al contrario di quanto accade per gli altri peccati, la corruzione è una strada da cui non si può tornare indietro, ”perché abitualmente, il peccatore se si pente torna indietro; il corrotto difficilmente, perché è chiuso in se stesso”
Secondo Alberto Melloni, che lo ha scritto su Repubblica del 18 giugno, la svolta di papa Francesco è rilevantissima per tre motivi: “perché ricorre alla norma, perché condanna categorie che vede essere parte della Chiesa e per lo strumento della scomunica che adotta, con implicazioni universali e nazionali”.
Anzitutto, la norma. “Francesco ha una predilezione tenace, talvolta ostinata, per le riforme a norme invariate. Ha trasformato il sinodo dei vescovi in un quasi-concilio, senza una legge; ha impiantato un organo di collegialità effettiva, atteso da mezzo secolo, con un chirografo di tre righe; ha rimesso al suo posto una paginetta del catechismo sulla omosessualità con una domanda retorica fatta ad alta quota; ha risolto decenni di dispute sulla ammissione dei divorziati risposati alla eucarestia con una nota di esortazione apostolica e una espressione (‘in certi casi’) che ricorre centinaia di volte nel catechismo e nel codice di diritto canonico. Che si faccia una legge non vuol dire che si sia arreso a forme non sue: ma il contrario. Ha cioè individuato in questo tema una questione che ha a che fare non con la ‘morale sociale’, ma con la dignità dei poveri, che delle mafie e delle corruzioni sono le vittime e con quella teologia della liberazione dalla mafia senza la quale la Chiesa rischia di predicare a vuoto.
“La condanna, poi. Francesco sa bene che il vissuto religioso è profondamente intrecciato ai fenomeni mafiosi: sa che i boss si mostrano pii e sa che lo fanno perché hanno avuto spazio per farlo”. Questa forma di autoassoluzione, continua Melloni, va tagliata “con la nettezza con cui Francesco, visitando tre anni fa esatti la diocesi di monsignor Galantino, scandì: ‘I mafiosi sono scomunicati’.
“Infine lo strumento della scomunica. Che colpisce l’immaginario secolarizzato come pena capitale, ma che in realtà nell’ordinamento canonico è pena medicinale, che vuole aprire una via di conversione. La Chiesa non può considerare eguali i portatori di connivenze o affari e la manovalanza di delinquenti e assassini che hanno facce segnate da sfruttamenti non meno tragici di quelli che colpiscono le loro vittime. La scomunica ha quindi senso se è la prima riga di una teologia della liberazione dalla corruzione mafiosa che insegni alla Chiesa e allo Stato che il moralismo, la retorica e l’antipolitica non solo non bastano, ma che senza un orizzonte di redenzione (quello che nel linguaggio politico si chiama giustizia) possono diventare lubrificante del male.
“Se il Papa insegna che il povero e il popolo non sono spettatori di una partita ad armi impari fra legalità e illegalità ma vittime, sveglia le sue comunità; ma forse sveglia anche una società troppo desiderosa e interessata ad assuefarsi a mali battibili”
Così Alberto Melloni. Si può aggiungere come un pontificato interamente proiettato sulla misericordia sia anche capace di severità. Questo vuol dire che se papa Francesco non reagisce con severità alla guerra che gli viene fatta anche da ambienti interni alla struttura ecclesiastica (è di questi giorni una seconda lettera di accusa dei quattro cardinali che gli avevano espresso i loro “dubia” sulla “Amoris laetitia” e la comunione ai divorziati risposati) non lo fa perché gliene mancherebbe l’energia, ma perché gli sovrabbonda la carità.
Con i più cordiali saluti
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