NON C’È DIRITTO SENZA GIUSTIZIA E CARITÀ
NON C’È DIRITTO SENZA GIUSTIZIA E CARITÀ
In Europa si è andata costruendo una sorta di “Costituzione di mercato” che istituisce come sovrano un vincolo esterno che dissolve ogni rapporto tra giustizia e diritto. Ciò si porta via secoli di civiltà e di pensiero. Se ne va non solo la Bibbia, ma anche Hobbes che critica lo stolto che mette insieme ragione e ingiustizia
Umberto Baldocchi
Sorge spontanea, in relazione ai fatti italiani ed europei, che hanno a che fare coi fenomeni migratori, ma non solo con essi, una considerazione che collega l’economia al diritto, ed il diritto alla giustizia. Da tempo vediamo che si sta aprendo la strada, in Europa come in Italia, ad una sorta di trasformazione del diritto in tecnica ed in un gioco matematico, alterando i fondamenti sociali ed antropologici del diritto, separandolo sempre più dalla giustizia, con effetti devastanti nella cultura politica e nella vita pubblica. Si apre la strada in realtà ad una vera e propria perversione dei fondamenti del diritto e del senso del diritto nell’uomo comune, che vede nella sfera pubblica qualcosa per lui di estraneo, qualcosa cui quasi sarebbe opportuno sottrarsi.
“Il diritto cessa…di avere come unità di misura un certo senso e una certa idea della giustizia e diventa una pura combinazione di regole tecniche. Allora non vi è più alcun fattore normativo nel diritto. Si tratta semplicemente di abilità, di un gioco matematico. Le leggi non hanno più alcun rapporto con la giustizia…Già i Romani conoscevano bene questo fenomeno, che esprimevano col principio summum jus summa iniuria, vale a dire, quando il diritto diventa pura tecnica, raggiunge un alto grado di perfezionamento, ingloba tutti i fatti sociali, allora non vi è più posto per la giustizia, e si arriva alla negazione del diritto stesso (in-jus). Ora questo avviene quando non v’è più posto per un elemento regolatore della tecnica giuridica, per un contrappeso che, in mancanza di meglio, potremmo definire umano e naturale, alla proliferazione sistematica. La tecnica giuridica, da quel momento, come ogni tecnica, è cieca; si spinge più lontano che può; va fin dove può andare il ragionamento stesso…E’ logica, ma non è coordinata, è sistematica ma cieca, è adeguata a tutto ciò che è materiale, ma non è adeguata alla giustizia”.[1]
“L’ateismo dello stolto”
La giustizia cessa di essere un punto di riferimento condiviso e si universalizza, come sentire comune, l’ “ateismo dello stolto” di cui parla Hobbes, con riferimento al celebre passo del Salmo 14/1, in cui si afferma “ Dio non c’è, ha pensato nel suo cuore lo stolto”. Hobbes riferisce acutamente il passo biblico alla giustizia e sviluppa un’argomentazione che vale la pena riferire almeno in parte:
“ Lo stolto ha detto nel suo cuore che la giustizia non esiste, e a volte lo dice anche con la lingua , affermando seriamente che, poiché ognuno deve curarsi individualmente della propria conservazione e soddisfazione, non vi può essere alcuna ragione, per cui non debba poter fare ciò che pensa conduca a quel risultato, e che perciò concludere dei patti, o non concluderli, mantenerli o non mantenerli, non è contro ragione, se conduce al proprio vantaggio. Egli quindi …pone in questione se l’ingiustizia, una volta rimossa la paura di Dio (perché lo stolto ha detto nel suo cuore che Dio non esiste) non possa a volte stare assieme alla ragione che detta a ciascun uomo il suo bene”[2]. Anche oggi, agli occhi dello “stolto” (parliamo dello “stolto intelligente”, dello “stolto” che cioè usa l’ “intelligenza”, ma solo “privatamente”, una intelligenza che evidentemente lui sa esser priva di legami con una “verità” a lui esterna) che coltiva e occulta astutamente il suo ateismo nei meandri più riposti del suo essere – che è il “cuore” per l’autore biblico – la ragione, o meglio, la razionalità prodotta dall’alleanza tra tecnocrazia ed economia, rende possibile la collusione tra “ingiustizia” e “razionalità” e quindi rende superato e obsoleto ogni riferimento al termine univoco e coerente di giustizia. In altri termini, secondo i canoni di una ignoranza e inconsapevolezza diffusa, una vera e propria “stoltezza di massa”- che si è ormai sbarazzata dell’ idea di giustizia – si deve fare tutto ciò che si può fare e si può fare tutto quello che conviene fare. E una sorta di nuova, sfrenata e spietata “libertà” che tanto piace ai “libertari”, fanatici sostenitori dell’ “ultraliberismo”, quanto ai nuovi teorici di un autoritarismo duro e puro, senza se e senza ma.
La paura come legame sociale
Al “timore/rispetto” del Dio-giustizia subentra non la liberazione da ogni timore/rispetto, ma una diversa e terribile paura, questa sì inconfessabile e necessariamente “nascosta nel cuore”, la paura della forza e della “necessità”, ovvero degli automatismi ciechi e rischiosi del mercato e della tecnocrazia, che isolano ciascuno nel proprio universo privato (reso “sociale” dalla socialità virtuale della rete), vanificano il dialogo civile ed umano e presuppongono una omologazione assoluta che rimuove i volti e l’umanità vivente, in nome della competizione per la vita. Principio della stoltezza – potremmo dire – è la paura come legame sociale, la paura che tiene il luogo della fede, cioè della fiducia nell’altro. La paura che non conosce amici, ma solo nemici e non può non distruggere la “politica” vera, che su una forma di amicizia si fonda. Ed il legame costituito dalla paura pare essersi insediato addirittura al centro dell’ultraliberismo, come anche degli ultranazionalismi che “pretendono” di opporsi al primo.
“L’impostazione liberale …ritiene che la comunità si possa fondare solo tramite l’obbedienza ad una legge estrinseca, prodotta dal tentativo di limitare la naturale condizione di conflitto generata dall’invincibile paura della precarietà e della morte.[3]” E la paura, una “paura costituzionale” – più che la solidarietà – pare anche il collante più forte della Unione Europea nel clima perdurante della crisi, almeno per quanto riguarda quei sedicenti “europeisti” che sono in realtà i portavoce occulti della Commissione di Bruxelles[4]. La logica fascinatrice della forza e della “spietatezza”, capace di piegare la legge e il diritto – che è oggi la proiezione rovesciata e l’entità complementare di questa paura inconfessabile – nasce di qui. La “opposizione” al neoliberismo appare per questo oggi monopolizzata dai nazionalismi xenofobici e parafascisti, spietati, illiberali e “tradizionalisti”, strumentalmente persino “religiosi”[5], che si propongono come i “veri oppositori” della globalizzazione liberista, e che ne sono piuttosto i complici occulti, complici che traggono popolarità, non discredito, proprio dalla loro ostentata vicinanza ad elementi del passato fascista[6]. L’ostentazione, apparentemente “folkloristica” di alcuni elementi del fascismo, non casualmente tornati popolari, addirittura anche fuori d’Italia, non ha nulla a che fare con un presunto “eterno fascismo” come categoria antropologica, ma è piuttosto un ulteriore elemento di nascondimento e mistificazione: la demonizzazione del diverso, dello straniero, dell’immigrato, che diventa il nemico, è la realtà di superficie, certo inquietante, ma che serve a nascondere ben altro. Vi è qualcosa di molto più inconfessabile ed ancor più inquietante alle radici. Alle radici c’è la coscienza inconfessata del rischio, connaturata al progresso tecnologico, visto come portatore di una incertezza globale, coi suoi corollari di timore, diffidenza e sospetto. Vi è quindi la soggezione cinicamente accettata, senza se e senza ma, alla “necessità tecnocratica”, che consente alla politica di agire escludendo e discriminando, senza più dover includere e mediare. Una “verità” che per ora viene annunciata solo in forma indiretta: America first, Prima gli Italiani. Insomma: bisogna esser sempre pronti al sacrificio dell’ “altro”, laddove ciò sia decretato dalla “necessità”! Ed ovviamente non possiamo sapere in anticipo chi sarà l’ “altro” di turno. E’ “il sordo appello dell’appartenenza di cui si nutre ogni potere arbitrario”[7].
Il senso europeo della giustizia
E’ evidente che proprio questa cecità tecnocratica – che non lascia più spazio a discernimento, scelta o azione umana – riduce il diritto alla produzione continua e sempre più imponente di “leggi” ridotte a “regole” astratte, disciplinanti l’ordine sociale senza che vi sia alcuna finalità che le giustifichi, che non sia la pura efficienza, senza che la legge implichi mai alcun contenuto di dovere, e quindi, alcuna apertura verso l’altro, soprattutto verso l’ “altro” che proviene dall’esterno dell’ Europa. Si è perso di vista il senso profondo “europeo” della “giustizia” che nasce dalla “carità”, la quale, a sua volta per essere soddisfatta ha bisogno della “giustizia” intesa come capacità di comparare, di misurare, di tener conto delle esigenze del “terzo”, che è altrettanto pericoloso dimenticare, magari solo perché occultato dal volto dell’altro che ci muove a compassione perché possiamo vederlo, pena la delegittimazione della carità. In fin dei conti questa è poi la modalità di operare che conferisce un ruolo socialmente positivo al denaro, che cessa di essere fattore di alienazione, secondo la affascinante lettura che si può rintracciare in Lévinas[8].
Ora il problema è che questi patti, trattati, o regolamenti, che di fatto fondano la “solidarietà sinallagmatica” degli Stati dell’Eurozona, non contengono in effetti alcuna finalità ordinatrice o “solidarizzante”, che dia un senso coerente al complesso delle norme da essi enunciate. Anzi, essi sembrano mettere in concorrenza tra loro “giustizia” e “carità”, in modo da dare l’idea che dove c’è l’una non può esserci l’altra e, viceversa, in modo da accreditare l’idea della possibilità di una “giustizia” senza “carità” e senza “pietà” e di una “carità” senza “giustizia”. Le dure “regole” contrapposte alla cedevole o lacrimevole “assistenza”, se vogliamo usare il linguaggio falso e manipolato che regge la logica delle due parti che si presentano in (apparente) competizione nell’arena politica. Patti e trattati infatti, ora è chiaro, necessitano di una fonte di legittimazione, che vada oltre la pura contrattazione tra gli Stati. Si è utilizzata per questo motivo la teoria del vincolo esterno, cioè di un “mero fatto” ( tale non può non essere un vincolo) presentato come un principio sovraordinato rispetto alla dimensione politica.
Il vincolo esterno si presenta come un principio che si fonda su parametri tecnici sottratti ad ogni dialettica con la discrezionalità politica e che tiene luogo di un interesse collettivo costituito. Prende forma una vera e propria “Costituzione di mercato” contrapposta alle “vecchie” “costituzioni dei diritti”. Si attribuisce infatti “valore giuridico vincolante a decisioni assunte in un sistema che, invece, è rigorosamente improntato al dogma della teoria economica neo-liberale del monetarismo che è la stabilità dei prezzi, ove cioè l’opzione di scelta a favore di una precisa ideologia politico-economica con esclusione di ogni altra è palese, benché se ne voglia neutralizzare la natura politica ritenendola una scelta esclusivamente di natura tecnica”[9]. In particolare si ferisce così il principio di effettività del pluralismo dei valori giuridici che ispira le disposizioni costituzionali sul sistema economico (artt. 41, 43,45 della Costituzione italiana). E per converso si introduce surrettiziamente quella “Costituzione economica europea” che compone l’architettura materiale dell’ordinamento giuridico della UE[10]. Una Costituzione che rovescia l’ordine logico delle priorità, se solo consideriamo come “l’inserimento di parametri addirittura numerici al vertice della piramide dell’ordinamento europeo sembra sovvertire la logica del costituzionalismo, per cui al vertice si pongono principi e solo nei ranghi normativi più bassi, eventualmente, si pongono regole dettagliate”[11].
Ciò che è successo richiama da vicino la “Ragion di Stato”, teorizzata da Giovanni Botero nel 1589, che si valeva di un dispositivo economico-politico nato proprio per realizzare la “governabilità” necessaria al mercantilismo. Solo il dispositivo economico-politico sembrava allora in grado di esorcizzare la conflittualità interna allo Stato, introducendo forme di governo capaci di realizzare forme efficaci di obbedienza e deferenza verso il potere. Si trattava. anche allora, di ”spoliticizzare” il conflitto sociale, per costruire una forma di vita associata che trovasse nello scambio economico lo strumento ideale per il controllo sociale.
Si è introdotto nella prassi delle autorità europee un principio sovra-costituzionale, nei fatti una vera Grundnorm non dichiarata, ricavabile da quanto già affermato in linea di principio dal Trattato per il funzionamento dell’Unione Europea.
Per tutto questo credo che l’ Italia di oggi ha un suo ruolo da svolgere, un suo compito da assolvere, anche in Europa. Come ha detto autorevolmente il presidente della Repubblica, «L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione europea e deve svolgere al suo interno un ruolo da protagonista. Vi è una tendenza, risalente nel tempo, diffusa in tutta l’Unione, a osservarla, e a giudicarne i comportamenti, come se si trattasse di un soggetto estraneo. L’Europa non è un “vincolo esterno” ma piuttosto un moltiplicatore della nostra influenza internazionale, della nostra capacità di espansione economica e commerciale, oltre che della preziosa libertà di movimento, particolarmente per i nostri giovani». (Sergio Mattarella, Saluto di fine anno ai rappresentanti delle Istituzioni, delle Forze Politiche e della Società Civile, Roma, Quirinale, 19/12/2018).
L’ Europa non è un “vincolo esterno”, o meglio, non deve più esserlo. Deve essere se stessa. Deve ricordarsi, prima di tutto, che la carità è, come scriveva Levinas, la giustizia europea, la giustizia migliore, quella che non è mai giustizia definitiva.
Umberto Baldocchi
da: “In Gold we trust”, Gabrielli editore
[1] Jacques Ellul, Il fondamento teologico del diritto, Verona, Gabrielli, 2012, pp.37,38, ediz. orig. Neuchatel, 1946. La fondamentale distinzione tra “diritto” e “giustizia” rimanda alle radici ebraiche della cultura europea e pone dei problemi, complessi e affascinanti, che qui non vi è spazio di discutere. Una cosa è però qui importante sottolineare. L’idea biblica di giustizia (il concetto di diritto in senso moderno è sconosciuto alla Bibbia) è articolata su due radici verbali diverse, mischpath, che è riconducibile all’idea di “giudicare” e zadaq che rimanda all’idea di “giustificare” e quindi di giustizia, equità, verità, da un lato e grazia e innocenza e giustificazione dall’altro. La giustizia che si esercita nel giudizio non può esser tale se non è fondata su un parametro che la trascende e che va oltre la semplice capacità di giudicare senza preclusioni. Ed infatti “in tutti i racconti mitici che descrivono il modo di agire di Dio, ogni volta che Dio pronuncia un giudizio vi è sempre una grazia che vi è connessa e tuttavia è pur sempre un giudizio, nel senso rigoroso del termine. Così il giudizio su Adamo, che conserva la vita al mondo; il giudizio su Caino, che pone il peccatore sotto la protezione di Dio.” ( Jacques Ellul, Il fondamento ecc., p. 45). Il collegamento grazia-giustizia era presente, sino a poco fa, anche nella titolazione del Ministero “di Grazia e Giustizia”, oggi, più modestamente, “Ministero della Giustizia”.
[2] Thomas Hobbes, Leviatano, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 87
[3] Duilio Albarello, La grazia suppone la cultura- Fede cristiana come agire nella storia. Brescia, Queriniana, 2018,
[4] “Meglio restare nell’ Unione Monetaria Europea che farsi massacrare dai mercati. Se questo è vero, però, è anche vero che, nella perdurante assenza di solidarietà para-federale europea, la forza che tiene uniti gli Stati del sud ai c.d. “Stati core” dell’euro non è la “tolleranza costituzionale”… bensì la pura e semplice paura, un concetto da cui difficilmente potremmo costruire eleganti modelli istituzionali aggiungendovi l’aggettivo “costituzionale”, Andrea Guazzarotti, Quanto è pluralista la “Costituzione economica europea? Si prega di riformulare la domanda, in Rivista AIC, n. 3/2018, p. 12.
[5] La religione è per questi movimenti uno strumento per ribadire la necessità di principi indiscutibili ed “automatici” fissati una volta per sempre, necessari per mettere fuori gioco libertà e responsabilità umana, qualcosa di radicalmente opposto ad esempio ad un cristianesimo fondato sulla parola evangelica.
[6] “Nella situazione socio-.culturale odierna propendono ad imporsi sempre di più sistemi e processi che si presentano dotati di un automatismo schiacciante: per esempio la coscienza finisce di essere ridotta al puro risultato degli impulsi prodotti dalla rete dei neuroni cerebrali; il corpo tende ad essere considerato un oggetto da sfruttare e manipolare; i mercati sembrano imporre le loro leggi economiche insindacabili; le nostalgie tradizionalistiche tentano di risolvere qualunque problema facendo ricorso a principi indiscutibili fissati una volta per sempre. In tutti questi casi la libertà umana appare messa completamente fuori gioco, poiché si ritrova bloccata dentro un sistema effettivamente spietato”, Duilio Albarello, La grazia suppone la cultura – Fede cristiana come agire nella storia, cit. pp. 148,149.
[7] Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male, Torino, Einaudi, 2015, p. 55.
[8] Per Lévinas “giustizia” è un termine che può essere impiegato in modo equivoco. “Da un lato essa è la relazione con l’altro che ho definito responsabilità e che io ora definisco misericordia. C’è un bel termine ebraico rahamim in cui è contenuta molto di ciò che è compassione. Giustizia non è affatto inadatto a indicare questo, ma soltanto, d’altro lato, la giustizia compare, spunta su di me quando appare il terzo e laddove, in conseguenza, appare il tema della divisione. La divisione, che è importantissima per calcolare il valore. …Può esserci un calcolo, una necessità di calcolare. Ecco la funzione positiva del denaro. Questo compare quando compare il terzo e quando, a partire dal terzo, che non è un terzo, ma un miliardo – tutta l’umanità – c’è bisogno di tutta questa relazione con l’incomparabile. Con l’unico, che è la misericordia, che è anche l’amore. Là c’è la necessità di comparare ciò che è incomparabile, di introdurre il calcolo e di conseguenza di introdurre tutto il resto.” Emmanuel Lévinas, La genèse de Socialité et argent, pp. 36, 37, passim. “A partire dalla società, la violenza è la stessa costituzione dello Stato e della politica, perché bisogna separare, bisogna suddividere, bisogna sapere ciò che fa A a B e ciò che B fa ad A. Anch’io entro subito in questo circolo difficile, dove questa famosa dissimmetria – è una tesi di Dostojevskji – scompare. E di conseguenza ecco – è il secondo momento – la violenza prima e tutte le violenze dello Stato. In primo luogo c’è una legge, c’è la giustizia. Solamente – lo sottolineo sempre – una giustizia che è nata dalla carità. Questa è la violenza nata dalla carità. Il che non significa che la carità d’ora in poi è cancellata. E’ la giustizia europea. Nella nostra coscienza di Europei viviamo ancora la vita della Bibbia. Bisogna sempre cercare una giustizia migliore. Una giustizia che non è mai regime definitivo”, E. Lévinas, La genèse ecc., p. 38.
[9] Daniela Mone, La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, in: Rivista AIC- Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Osservatorio Costituzionale, n. 3/2014, 1/08/2014, cit. p. 13
[10] Nichel Aglietta, Nicolas Leron, La double democratie, p. 48.
[11] Andrea Guazzarotti, Quanto è pluralista la Costituzione economica europea? Si prega di riformulare la domanda, cit, p.9.