NON DIRE CHE DIO È GIUSTO, PER IL FIGLIO È BUONO E MITE
Giustizia e misericordia di Dio in Isacco di Ninive e nella spiritualità orientale secondo il vescovo Spiteris
Sul primato della misericordia sulla giustizia che papa Francesco ha posto al centro della fede cristiana (“Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio”: Misericordiae vultus n. 21) torna d’attualità la testimonianza di Isacco di Ninive. Vescovo, poi dimissionario, di quella città, Isacco, vissuto nella seconda metà del VII secolo, era un monaco, un “solitario” della Chiesa siriaca. Come aveva fatto Paolo all’inizio del cristianesimo, egli pose con radicalità la questione del rapporto tra giustizia e misericordia di Dio, respingendo l’idea di una giustizia divina intesa come la correttezza di una pesata uguale, che dà a ciascuno come merita; ciò non ha niente a che fare con la giustizia di Dio che consiste invece nella misericordia, “passione mossa da bontà che su tutti si curva”, sicché “dovunque la misericordia è l’avversaria della giustizia”. Di qui l’invito ad apprendere “la bontà, non la giustizia”, perché “il misericordioso se non ha trasceso la giustizia non è misericordioso”. Certo, dalle Scritture è attestata anche una giustizia di Dio come retribuzione punitiva, ma «a paragone della sua misericordia» essa è «come un granello di polvere» che «non controbilancia un gran peso d’oro»[1].
Su Isacco di Ninive c’è un discorso del 2008 di un vescovo cappuccino allo Studio teologico dei Cappuccini di Venezia, cinque anni prima, perciò, di papa Francesco, in cui si mostrava come questa tradizione fosse ben radicata nella spiritualità delle Chiese d’Oriente, e si documentava come essa fosse poi entrata nella stessa predicazione francescana cappuccina. Si tratta di una prolusione all’ Anno accademico del “Laurentianum” tenuta a Padova il 16 ottobre 2008 da mons. Yoannis Spiteris OFM, arcivescovo di Corfù e Amministratore apostolico di Tessalonica, pubblicata poi in Italia francescana 85 (2010).
In premessa il vescovo Spiteris spiegava che non è stato sempre così ovvio, nella Chiesa, riconoscere la “passione dell’amore” di Dio per gli uomini. “L’Occidente – ha ricordato – interpretando il peccato originale soprattutto a partire da Agostino come colpa, interpretò la morte di Cristo in termini giuridici, come soddisfazione della giustizia di Dio. Massimo esponente di questa teoria fu Anselmo d’Aosta con la sua opera classica Cur Deus homo? (1098)[2]” (Perché Dio si è fatto uomo?). “Nella tradizione scolastica la tesi della soddisfazione di Anselmo assunse contorni fortemente giuridici ed abbozzò un Dio poco cristiano”. “L’immagine che è derivata da tale posizione – un Dio offeso che deve e può essere ‘placato’ solo dal sacrificio del suo Figlio – è stata una delle rappresentazioni dottrinali cristiane che più ha allontanato l’uomo moderno dall’adesione alla fede cristiana”[3].
Ma l’Oriente cristiano – ha detto il vescovo cappuccino – ha seguito un’altra strada. Atanasio per esempio dice che Cristo non doveva morire per soddisfare la giustizia di Dio, ma perché era un “uomo perfetto” e quindi anche soggetto alla morte[4].
Ma una lunga pagina della sua ricostruzione il vescovo Spiteris l’ha dedicata alla testimonianza di Isacco di Ninive, “uno dei più grandi padri spirituali dell’antichità che più hanno influenzato la spiritualità ortodossa fino ad oggi”; e a cui si ispirò anche Dostoewski. E la prolusione di Spiteris proseguiva così:
Tra i suoi Sermoni spirituali (Isacco) ci ha lasciato un sorprendente discorso in cui la croce è vista non a partire dal peccato, ma a partire dalla natura stessa di Dio Padre. La croce per lui, in ultima analisi, non è causata dal peccato dell’uomo, ma dall’Amore di Dio Padre per noi, per rivelarci le estreme conseguenze a cui l’Agàpe divina è condotta nell’inchinarsi verso la creatura umana travolta dal peccato e dalla malvagità[5].
Isacco si pone prima di tutto la seguente domanda: perché Cristo ha sofferto ed è morto in croce? Forse per salvarci dal peccato, come comunemente si risponde? No, risponde, Cristo non è morto per questa ragione, ma per mostrare agli uomini la sovrabbondante carità del Padre. Solo così l’uomo poteva rendersi conto con quale amore il Padre ci ama e così, l’uomo peccatore, avrebbe potuto essere folgorato da questo amore e tornare nelle braccia del Padre. Cristo, predica Isacco, è morto in croce
«per far conoscere al mondo la carità che ha, perché fossimo resi prigionieri della sua carità tramite la nostra sovrabbondante carità che proviene dalla comprensione di questo mistero, così che tramite la morte del suo Figlio fosse resa possibile la grande potenza del regno dei cieli, che è la carità. La morte del nostro Signore non fu per salvarci dai peccati, niente affatto, né per altro motivo, se non quello solo che il mondo potesse rendersi conto dell’amore che Dio ha per la creazione» [6].
E continua dicendo che il Signore avrebbe potuto trovare anche altri modi per salvarci dal peccato; non avrebbe avuto bisogno di esigere una simile morte e tante sofferenze da parte di suo Figlio. La sola ragione di questa morte è quella di svelare nella croce il suo infinito amore per noi. La logica dell’amore di Dio è quella della completa autodonazione fino al sacrificio di sé. È proprio questa logica che conduce il Padre a dare alla morte il Figlio, per cui Cristo sarebbe morto lo stesso per noi anche se non ci fosse stato il peccato. La sua morte in croce è giustificata solo dall’amore:
«Ora, continua, hai compreso e percepito perché abbia avuto luogo la venuta di nostro Signore e tutte le cose ad essa successive… [il motivo lo ha dichiarato Egli stesso]: Così Dio ha amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3,16)»[7].
Se la venuta di Cristo fosse giustificata solo dalla Redenzione dei peccati, il suo significato sarebbe sminuito. Era così forte il peccato, si domanda Isacco, che per distruggerlo era richiesta la morte di Cristo? E se quindi Adamo non avesse peccato, Cristo non sarebbe morto? «Perché allora si biasima il peccato, dato che ha procurato tutti questi beni?» si domanda. Non è così – conclude il monaco di Ninive – «Una è la causa dell’esistenza del mondo e della venuta del Cristo nel mondo: la rivelazione della grande carità di Dio, che ha mosso entrambi all’esistenza».
È evidente che qui ci troviamo agli antipodi della teologia che ispira l’esclamazione O felix culpa e molto lontani dalla concezione che Cristo muore per soddisfare l’esigenza di giustizia del Padre. Dio rimane essenzialmente Padre anche di fronte al peccato dell’uomo, anzi è proprio in questo che si manifesta sommamente la sua natura di Padre.
Isacco in un altro dei suoi Discorsi afferma che la categoria della giustizia non può essere applicata a Dio perché i suoi giudizi non si ispirano alla giustizia, ma all’amore:
«Non dire che Dio è giusto […] Se Davide lo chiama giusto e retto, il suo Figlio ci ha rivelato che egli è anzitutto buono e mite. È buono per i cattivi e per gli empi (Lc 6,35). Come puoi chiamare giusto Iddio, quando leggi la parabola del salario degli operai? «Amico, io non ti faccio torto, io voglio dare a quest’ultimo quanto a te. O il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?» (Mt 30,13). E come, ugualmente, si può chiamare giusto Dio, quando si legge la parabola del figliol prodigo che sperpera nei vizi le ricchezze di suo padre e, solo perché si pentì, suo padre corse verso di lui, gli gettò le braccia al collo e gli diede piena facoltà su tutti i suoi beni? A dirci tali cose su Dio non è stato un altro, in modo che potremmo dubitarne: è stato il suo stesso Figlio. Questi ha dato di Dio tale testimonianza. Dov’è la giustizia di Dio?».
Di fronte ad un simile Padre neppure la paura dell’inferno può avere il sopravvento nell’animo del credente, egli può essere solo posseduto da immensa confidenza verso il Padre celeste. Solo l’incondizionata confidenza è compatibile con la nostra condizione di figli. Il vescovo di Ninive può quindi così esclamare:
«Oh, meraviglia della grazia del nostro Creatore! Oh, l’incommensurabile bontà di cui ricopre, per ricrearla, la nostra esistenza di peccatori!… Egli fa rialzare chi l’ha offeso e bestemmiato… Dov’è l’inferno che possa rattristarci? Dove la dannazione che ci spaventi fino a sopraffare la gioia dell’amore di Dio?… Chi ammirerà, come merita, la grazia del nostro creatore?»[8].
La misericordia e la compassione del Padre superano infinitamente la cattiveria dell’uomo. Per quanto l’uomo possa essere ingrato la sua azione avrà sempre una portata limitata, invece la misericordia del Padre rimarrà infinitamente superiore e capace, nella sua onnipotenza, di superare il negativo che esiste nell’uomo.
“Come un granello di sabbia non pesa quanto molto oro, così in Dio l’esigenza di un equo giudizio non pesa quanto la sua compassione. Quale un pugno di sabbia nell’immenso mare, tali sono le colpe di ogni carne in confronto alla provvidenza e alla misericordia di Dio. Come una ricchissima sorgente non potrebbe essere chiusa da un pugno di polvere, così la compassione del Creatore non può essere vinta dalla cattiveria delle creature»[9].
(Il testo integrale della prolusione di Spiteris si può trovare qui:)
[1] Cfr, Paolo Bettiolo, Misericordia e giustizia nella meditazione di un solitario siro-orientale del VII secolo, Isacco di Ninive, in: Raniero La Valle, Se questo è un Dio, Ponte alle Grazie, Milano, 2008, pag. 187.
[2] Cf. Anselmo de Cantorbery, Pourquoi Dieu s’est fait homme, a cura di R. Roques (Sources Chrètiennes 91) Paris 1963.
[3] Cf. a proposito G. GRESHAKE, Erlösung und Freiheit. Zur neuen Interpretation der Erlösungslehre Anselms von Canterbury, in ThQ 153 (1973) 325-343; M. SERENTHA, La discussione più recente sulla teoria anselmiana della soddisfazione: attuale “status questionis”, in Sources Chrétiennes, 107, Paris 1980, 344-393. In sintesi il pensiero di Anselmo e il seguente: ≪Nella sua opera Anselmo intende mostrare la ragionevolezza della fede cristiana dell’Incarnazione redentrice di Cristo agli increduli del suo tempo (Giudei e Musulmani). A tal fine richiama alcuni capi dottrinali, in larga parte condivisi anche dai suoi avversari: la creazione dell’uomo da parte di Dio e la sua destinazione alla vita eterna nella comunione beatificante con lui, la realtà universale del peccato e la sua forza distruttrice sull’uomo e sull’ordine della creazione intera. Due vie si dischiudono alla creazione alienata: la pena della perdita di Dio suo bene supremo o la riparazione dell’onore divino leso con la reintegrazione nell’amicizia divina mediante la “satisfatio”. Ma l’umanità peccatrice si trova nell’incapacità radicale di soddisfare a Dio per il suo peccato dato che tutto ciò che può offrirgli lo deve già a lui perché creatura, allora l’unica possibilità che si prospetta è l’Incarnazione di Dio stesso e il suo sottoporsi liberamente alla morte, cui non sarebbe soggetto, per l’onore di Dio e la reintegrazione dei fratelli nella sua amicizia salvifica≫. G. IAMMARRONE, Soddisfazione, in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Casale Monferrato 1994, 979.
[4] ATANASIO, L’Incarnazione del Verbo, 8, PG 25, 109 C; tr. it. a cura di E. BELLINI, L’Incarnazione del Verbo, Roma 1976, 52.
[5] Cf. I. HAUSHERR, Un précurseur de la théologie scotiste sur la fin de l’incarnation, Isaac de Ninive (VIIe siècle), in Recherches de Science religieuse 22 (1932) 316-320. Lo stesso si può trovare anche in IDEM, Études de spiritualité orientale, OCA 183, Roma 1969, 1-5. Il testo di Isacco e tradotto da questo studioso in latino. Noi citiamo il testo in italiano contenuto in ISACCO DI NINIVE, Discorsi spirituali e altri opuscoli, a cura di P. BETTIOLO, Magnano (VC) 1985, 182- 185.
[6] Quarto Discorso dei Capitoli Gnostici, 78, in ISACCO DI NINIVE , Discorsi spirituali, 183.
[7] Ivi.
[8] I due testi citati sono presi dal Discorso ascetico, n. 60, che si puo trovare in versione francese in ISAAC LE SYRIEN, Oeuvres Spirituelles, a cura di J. TOURAILLE, Desclee de Brouwer, Paris 1981, 324-326.
[9] Discorso 58, in Ivi, 312-313.