NON SONO SOLO I MAFIOSI CHE DEVONO CONVERTIRSI
NON SONO SOLO I MAFIOSI CHE DEVONO CONVERTIRSI
La mafia è un fenomeno di classi dirigenti ma anche l’espressione di un contagio che viene dall’ambiente. Perciò anche i non mafiosi devono convertirsi e assumere la propria responsabilità ognuno per la sua parte, come chiedeva don Pino Puglisi. Una riflessione in coincidenza col viaggio di papa Francesco
Nino Fasullo
Nel testamento pastorale di Puglisi c’è un aspetto, un dato specifico, particolare, nuovo: che il fenomeno mafioso da problema “dei mafiosi” diventa problema “dei non-mafiosi”. È come se la sera di quel 15 settembre l’asse della coscienza si fosse spostato dai mafiosi ai non mafiosi. Non nel senso che la mafia abbia smesso di essere un problema per lo stato, la magistratura e le forze dell’ordine. Ma nel senso che del problema mafia devono farsi carico i non-mafiosi.
Per i non-mafiosi – la chiesa e la società nelle sue varie forme e componenti – la mafia diventa problema in modo diverso: più impegnativo, più ampio e forse più difficile. Può sembrare che don Pino questo discorso non l’abbia né pensato né fatto: ha avuto a che fare infatti – e in che modo! – con mafiosi “primi della classe”. Ma è il più presente nella sua pastorale. La mafia non si contrasta pestando monotonamente la stessa materia, le medesime parole, gli stessi slogan nello stesso mortaio. L’antimafia che i non-mafiosi devono assumere come compito etico è quella non gridata, piuttosto silenziosa, su cui non si riflette, di cui non si parla mai. È quella che costruisce moralità, cultura, legalità mediante una prassi individuale, uno studio, una riflessione pubblica e collettiva.
La società civile ha quindi un compito decisivo, non meno rilevante di altri impegni.
Del resto, proprio questo sembra essere il patrimonio o l’insegnamento più consistente lasciato da don Pino. La chiesa e le città possono, in questo modo, svolgere un discorso di tipo più coinvolgente, alla portata di tutti, inteso a creare condizioni culturali e etiche nuove, anzitutto in Sicilia ma anche nel Paese.
L’indice di Brodskij
La questione mafiosa è stata, finora, per la società civile – relativamente – poco più che problema di opposizione alla violenza sanguinaria di Cosa nostra.
È stata, soprattutto, problema di diritto penale, accusatorio e sanzionatorio, di competenza della magistratura, dei carabinieri e della polizia. Ma chi non sa che la mafia è questione assai più ampia e impegnativa del suo aspetto penale e dell’intervento penale? È la complessità del fenomeno, sono i molti fattori che lo compongono a persuadere individui e comunità a riconoscersi coinvolti, in qualsiasi modo, nella questione non da mafiosi ma da non-mafiosi. Sono la società, la città, la chiesa e altri ancora che devono interrogarsi sul fenomeno Cosa nostra, non da esterni o da spettatori, ma da effettivi – anche in piccola o piccolissima parte – responsabili. Mafia e antimafia sono distinti ma non separati. Neppure il più sottile dei rasoi potrebbe dividerli adeguatamente.
Non sembra si sia ancora abbastanza compreso che a convertirsi non devono essere solo i mafiosi, autori di delitti anche indicibilmente efferati. Si pensi alla ferocissima crudeltà usata con l’innocente ragazzino Giuseppe Di Matteo.
Ma come galleggiare sulla coscienza e sfuggire alla necessità di convertirsi prima i non-mafiosi e poi – dopo – i mafiosi? Non è forse questione di logica? Può forse dividersi la società: da un lato i mafiosi criminali, dall’altro i non-mafiosi puri e lindi, magari col l’indice puntato su di loro a pretendere che si convertano subito, prima di cadere nell’inferno della vergogna mafiosa?
Di questo terribile «indice accusatore» parlò nel 1988 Josif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, alla cerimonia del conferimento delle lauree all’Università di Michigan, Ann Arbor.
A ogni costo – disse Brodskij ai giovani in quella occasione – evitate di concedervi lo status di vittima. Di tutte le parti del vostro corpo controllate specialmente il dito indice perché è assetato di biasimo. Il dito puntato è il logo della vittima – l’opposto del segno V di vittoria, e un sinonimo di resa. Per quanto orribile possa essere la vostra condizione, cercate di non darne la colpa a qualcosa o a qualcuno […] Nel momento in cui si localizza la colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa; si potrebbe perfino sostenere che quel dito assetato di biasimo oscilla tanto selvaggiamente proprio perché la determinazione non è mai stata troppo forte in partenza.(1)
Perché i mafiosi dovrebbero convertirsi solo loro e prima? Forse al fine di farsi puliti puliti come i non-mafiosi? Ma chi sono, dove abitano, come vivono i non-mafiosi puri e incontaminati, senza una piccola – la più lieve – responsabilità?
O i mafiosi non sono nati e cresciuti nella stessa città in cui sono nati e cresciuti i non-mafiosi?
Non è ancora arrivato il tempo di voltare l’indice – dopo averlo puntato solo sui mafiosi – e puntarlo sui non-mafiosi, magari se stessi?
Salvatore M. e l’omelia di san Calogero
Esemplare, in questo senso, su questa pista, sembra l’esperienza narrata da Elvio Fassone in Fine pena: ora,(2) in cui Salvatore M. – un giovane mafioso catanese, sapientemente guidato, per via epistolare, da chi, suo giudice, gli aveva inflitto un duro ergastolo – riesce a prendere le distanze da se stesso e a recuperare e ricostruire e rifarsi l’umanità “perduta” con i delitti (troppi) commessi nella prima gioventù.
E c’è un altro discorso, di carattere propriamente pastorale, privo di toni trionfalistici o aggressivi ma aperti, pacati e riflessivi. È del cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, tenuto il 1° luglio del 2012 per la festa di san Calogero.
Queste alcune delle espressioni sobrie e persuasive del Cardinale agrigentino:
Se c’è tanto male attorno a noi non è solo perché molta gente è cattiva e pericolosa ma perché noi, i buoni, non siamo quello che dovremmo essere. Ciò vuol dire che se la mafia è radicata in questa terra è anche colpa nostra (non è la prima volta che lo dico)… se non troviamo il coraggio di vivere il Vangelo con coerenza, vedremo la mafia radicarsi sempre più in questa nostra terra.
Non possiamo non tener conto che noi siamo responsabili di quanto i nostri ragazzi e giovani troveranno nel loro futuro.(3)
Considerazioni come queste possono solo fare riflettere sulla responsabilità comune nel costruire città eticamente più pulite col contributo concreto di ciascuno. Menzogna, illegalità, corruzione, ingiustizia, slealtà, presunzioni e arroganze etc. sono micidiali non solo alla moralità personale ma, forse più, al bene, all’etica delle città. Ne risentono maggiormente, oggi e domani, i giovani. L’arcivescovo Montenegro pensa, ovviamente, al particolare contributo che possono dare coloro che professano la fede cristiana.
«Vivere il Vangelo con coerenza» da parte dei cristiani è decisivo per la società. Il parroco Puglisi lo dimostrò con la vita (donata).
Non mafiosi e mafiosi
La mafia non è – lo sanno tutti – un’associazione di “soli mafiosi”, autosufficienti, che vivono in un’isola a macchinare stragi e delitti. Come fossero uomini e donne diversi dagli altri esseri umani. I mafiosi non solo vivono tra gli altri ma degli altri hanno assoluto bisogno. Non possono farne a meno. Hanno bisogno di uomini e donne che, pur non appartenendo all’organizzazione, la servono con cura, la coprono, la tutelano. Pure senza saperlo. Uomini e donne possono servire mafia e mafiosi anche senza volerlo. È come se nella mafia – nelle sue file – ci fossero paradossalmente anche i non-mafiosi. Come un individuo non può fare il mafioso “da solo” senza che altri lo aiutino con i loro servizi; così l’associazione mafiosa, considerata come una unità definita, non può sussistere senza i servizi che altri le offrano.
Servi inutili
Chi sono i non-mafiosi? Sono uomini e donne comuni che si impegnano con se stessi, con la propria coscienza, a parlare del problema e fare in concreto, scegliendo accuratamente, l’indeterminato “qualcosa” che vorranno essi stessi determinare.
Tra parentesi: fare qualcosa, anche poco, di pulito e gentile, equivale, in un certo senso, a fare spuntare nelle città i miracoli invisibili. Per effetto di comportamenti minimi, molecolari, ma liberi e convinti, gratuiti e senza che alcuno li certifichi e dia attestati – mai mostrandoli e strombazzandoli neppure davanti a Dio: «Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: Siamo servi inutili; ciò che dovevamo fare abbiamo fatto» (Lc 17,10); «Siate perfetti come Dio, il Padre vostro celeste» (Mt 5,48) – le città e le chiese si fanno più umane, più gentili e accoglienti. Figurarsi se non si riducono la cultura, le suggestioni, lo stile, le presenze mafiosi.
Non era questo che chiedeva Puglisi a coloro che riflettevano con lui? Se ognuno fa qualcosa, anche poco – diceva il parroco di Brancaccio – nasce qualcosa di nuovo e qualcosa lentamente cambia. Non è forse vero che gutta cavat lapidem?
Poteva don Pino, che del fenomeno mafioso conosceva natura, complessità, ambiguità e ferocia, non dare spazio nella sua pastorale ai non-mafiosi ovvero alla stragrande maggioranza della gente?
Per questo chiedeva a tutti di “fare qualcosa”, di fare poco ma concretamente e costantemente.
Non è forse urgente che, finalmente, nella coscienza dei non-mafiosi si apra una qualche crisi che sollevi il dubbio se, tra mafiosi e non mafiosi, fatte le necessarie differenze, le responsabilità, specie di carattere morale, pendano tutte e solo sui mafiosi colpiti dal diritto penale, e i nonmafiosi possano starsene tranquilli, al riparo da ogni concreta responsabilità?
La mafia comincia a finire dal momento in cui si smette di pensare che mafiosi sono solo gli altri: i noti, o gli immaginari, che devono convertirsi.
Come se prima dei mafiosi non dovessero convertirsi i non-mafiosi.
La realtà è che mafiosi si diventa. Lo si diventa vivendo nello stesso ambiente dei mafiosi e comportandosi come loro. Nei vari modi con cui si svolge la vita. Per cui c’è una scuola di mafia fatta di lezioni e di connessi tirocini.
Se c’è scuola c’è tirocinio. Il contesto sociale, la mentalità, i giudizi (im)morali, l’esempio, il vantaggio sociale e pure economico non provengono da luoghi imprecisati. Si apprendono nella propria città, grande o piccola o piccolissima che sia. Su ciò la letteratura è abbonante.
Basta leggerla attentamente, soffermandosi nelle pieghe, nei dettagli in cui, si dice, abita nascosto il demonio.
Senza sorvolare sul fatto che la mafia – come si legge nella relazione di minoranza della commissione parlamentare antimafia del 1975-76 firmata, tra altri, da Pio La Torre e Cesare Terranova – «è un fenomeno di classi dirigenti [non popolari]. Come tale… non è costituita solo da soprastanti, campieri e gabellotti, ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell’isola».
Fa tristezza costatare che un’attenta riflessione, uno studio sul fenomeno dell’apprendimento ambientale mafioso siano stati accuratamente e irresponsabilmente evitati.
Luogo di apprendimento mafioso è la città e forse più specificamente le sue periferie. Brancaccio, che don Pino da pastore conosceva bene, è solo un esempio.
Non è ambiguo affermare che i mafiosi sono una sparutissima minoranza, mentre i non-mafiosi “puri” sono la quasi totalità della città e dell’isola?
Infatti è particolarmente irresponsabile. Perché con essa si afferma, di fatto, che i cattivi, i mafiosi sono come un’isola circoscritta (nelle periferie popolari, non nei quartieri bene) che si autoalimentano, si riproducono e poi si ammazzano tra loro. Che bello! I cattivi mafiosi un’isola isolata! I quali, nel caso tentassero di fare incursioni negli spazi “sani” abitati dai buoni “non mafiosi”, sarebbero fermati da chi interviene a proteggere e a colpire quei cattivi con durezza e senza riguardi.
Queste si chiamano cultura e etica borghesi compiaciute e rassicuranti. Oltre che prive di cristianesimo.
Quanto la fede cristiana (non quella del cristianesimo borghese) faccia a pugni con questo modo di “pensare” e di agire non c’è essere pensante che non s’accorga. Solo una piccola, e irresponsabile, ideologia di classe va sicura: asserendo che la stragrande maggioranza della città, anzi della popolazione siciliana, è immune dal “morbo mafioso”.
Si può escludere che gli sparuti mafiosi siano solo dei marziani scesi casualmente in terra dal pianeta rosso? Sì, si deve escludere. La maggioranza non-mafiosa può andare tranquilla.
Non “convertitevi” ma “convertiamoci”
Dai mafiosi ai non-mafiosi. Forse è ora, dopo don Puglisi, di fare un piccolo passo in avanti.
Perché non si può continuare a ripetere per sempre lo stesso discorso: Convertitevi! signori mafiosi “incancreniti” nel peccato, come qualcuno si è espresso senza far caso al mondo, al contesto generale che sono mutati. Sono cambiati i destinatari.
Non è più giusto e più corretto – dopo don Puglisi – dire: Convertiamoci! anziché ripetere monotonamente: Convertitevi voi mafiosi? Sarebbe il segno, senza bisogno di spiegazioni, di un coinvolgimento umile e cristiano, di un appello umano a una nuova responsabilità da parte di tutti. Nessuno escluso. Ognuno per la sua parte, anche piccola. Come chiedeva Puglisi.
1. Josif Brodskij, Profilo di Clio, Adelphi, Milano 2003, pp. 91-92.
2. Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo 2015.
3. Francesco Montenegro, cardinale arcivescovo di Agrigento, L’omelia di san Calogero, in «Segno», 337-338, luglio-agosto 2012, pp. 7-9.
Da: Nino Fasullo, Il pastore di Brancaccio. Don Puglisi la chiesa la mafia, Il Palindromo, Palermo 2018