PER UNA CHIESA SINODALE IN PROSPETTIVA MESSIANICA
PER UNA CHIESA SINODALE IN PROSPETTIVA MESSIANICA
Il vero segno dei tempi è caricarsi del peso dell’altro che soffre
Giampiero Forcesi
Questa intervista è stata pubblicata in due parti dal sito “I Viandanti” e nello stesso tempo dalle riviste: Dialoghi (Lugano/CH), Esodo (Mestre/VE), Il gallo (Genova), il tetto (Napoli), Koinonia (Pistoia), l’altrapagina (Città di Castello/PG), Matrimonio (Padova), Nota-m (Milano), Oreundici (Roma), Tempi di fraternità (Torino). Queste riviste, che aderiscono alla Rete dei Viandanti, con tale iniziativa hanno voluto dare visibilità ad un progetto comunicativo unitario, che intende anche promuovere una riflessione sui temi che papa Francesco indica per la riforma della Chiesa, a partire proprio dalla questione della sinodalità.
Forcesi:
Hai intitolato il tuo ultimo libro – un libro impegnativo ma affascinante – Chiesa sinodale (Ruggieri G., Chiesa sinodale, Editori Laterza, Bari 20172, pp. 280). Nell’introduzione dici che, se non fosse per pudore, l’avresti potuto intitolare Esistenza, chiesa e pensiero sinodale,perché i capitoli che lo compongono, hanno un nesso forte con il tuo cammino personale, le esperienze che hai fatto, il pensiero che hai elaborato. Un cammino e un pensiero che nella dimensione della sinodalità, cioè del camminare insieme, hanno trovato un punto di fusione, sebbene mai in modo definitivo. Ecco, forse, possiamo incominciate di qui. Dalle tappe della tua vita e del tuo pensiero in cui l’aggettivo sinodale è emerso in modo più significativo…
Ruggieri:
Decisivi sono stati nel mio cammino, ai fini della riflessione sulla natura sinodale della Chiesa, soprattutto due momenti. Ho avuto la fortuna di partecipare da “stenografo” ai primi due periodi del Concilio Vaticano II. E poi, a distanza di un quarto di secolo, il vescovo della mia diocesi, Noto in Sicilia, mi ha chiesto di aiutarlo a gestire il sinodo diocesano.
Ma queste date dicono poco da sole. Giacché laddove ho maturato i criteri per comprendere il tutto è stata la mia collocazione pastorale. Per 25 anni, dal 1972 al 1997, assieme ad alcuni amici, preti e laici assieme, decisi di vivere vicino a quelli che in quel momento consideravamo ultimi, assumendo la responsabilità collettiva di una parrocchia cosiddetta “a rischio”. Lì maturai la prima forma “sinodale” del mio pensiero e non a caso scrissi un libro che non parlava ancora di sinodi, ma portava come titolo “La compagnia della fede”.
La tappa attuale della mia riflessione teologica è infine quella che ho cercato di testimoniare nell’ultimo capitolo del libro che, apparentemente, non ha nulla a che fare con il tema della sinodalità, giacché il capitolo porta il titolo di “antropologia messianica”. In quel capitolo ho cercato di indicare quello che dovrebbe essere il criterio ultimo di ogni prassi sinodale.
“Messianico”, per chi non lo ricordasse, significa semplicemente “cristiano”, cioè seguace di Cristo, l’attributo greco che traduce l’ebraico “unto”, messia. E Gesù è stato confessato come il Messia dalla prima generazione cristiana, perché ha realizzato le promesse contenute nel profeta Isaia, cioè perché, caricandosi del peccato di tutti (Is. 53), ha portato il lieto annuncio ai poveri, ha liberato gli oppressi (Is. 61) ecc. ecc.
Sinodalità vuol dire stare con gli ultimi
E lo ha fatto, dicono i Sinottici, “mosso fin nelle viscere” dalla loro sofferenza (è illuminante nei Sinottici l’uso del verbo splanchnizomai con la sua connotazione messianica). Questa è la convinzione riassuntiva della mia esperienza di prete. Nella chiesa non si dovrebbe parlare d’altro, se non delle modalità in cui rendere presente oggi il vangelo del Messia. Ma questo implica una compagnia effettiva con gli con gli ultimi.
Forcesi:
Nel tuo libro, spieghi che i sinodi, a tutti i livelli, sono stati celebrati, per lo più, per elaborare un consenso nella chiesa sulle questioni per le quali un consenso ancora non esisteva. E scrivi che non può esserci vita della chiesa se non come evento sinodale, qualunque sia la forma che questo evento assuma, e che relegare la prassi sinodale solo a circostanze contingenti significa “affermare che l’essere della chiesa è senza vita propria, che appartiene al regno dei minerali e non delle realtà viventi e organiche”. Guardando ai nostri giorni, aggiungi che la sinodalità vive nella chiesa spesso nascosta sotto forma di “surrogati”, e annoti che “si potrebbe scrivere la storia della chiesa del Novecento, soprattutto quella della promozione dei cosiddetti ‘laici’, come una storia dell’invenzione di surrogati sempre più deboli da opporre alla piena riscoperta della comunione ecclesiale”. Puoi spiegare il tuo pensiero sulla natura di questo “consenso”? Pensi realmente a una forma sinodale, che vada oltre i surrogati, come prassi di vita quotidiana della chiesa, a tutti i livelli, fino alle singole parrocchie?
Ruggieri:
L’affermazione che i sinodi appartengono alla quotidianità della chiesa non è mia, ma l’ho ripresa da uno dei più grandi storici dell’idea sinodale, il gesuita tedesco Hermann Sieben. Ovviamente, in quest’affermazione, “quotidiano” vuole indicare semplicemente “abituale”, nel senso che ogni orientamento nella chiesa non può essere espressione di una parte soltanto del popolo di Dio, fosse pure la gerarchia episcopale, ma lo deve essere del popolo cristiano tutto, rispettando il contributo che i vari ministeri e carismi, col proprio preso specifico, possiedono.
Nel libro riporto un pensiero del Cusano, che egli applicava al consenso tra i vari ministeri: “la vera concordia è intessuta con fili diversi” (vera concordia ex diversitate contexeretur)”. Ciò non avviene senza conflitti, a volte aspri, come la convivenza ecclesiale e la storia dei concili dimostrano a sufficienza.
Non ci sono pecore cui spetta obbedire
Questa convinzione è stata progressivamente dimenticata dopo il concilio di Trento, fino all’assurda affermazione di Pio X secondo il quale nella chiesa ci sono le pecore a cui spetta obbedire e i pastori a cui spetta comandare. Il Novecento ha sperimentato invece la ripresa progressiva della convinzione della comune dignità dei cristiani, a partire dalla cosiddetta “collaborazione dei laici alla gerarchia” che, pur essendo un surrogato, era tuttavia la timida ripresa della responsabilità originaria e propria dei cristiani, cioè dei messianici tutti.
Ma questa presa di coscienza dovrebbe attuarsi già nella prassi delle parrocchie. A mio avviso almeno una volta l’anno esse dovrebbero celebrare i propri sinodi, anche senza chiamarli così. La cosa importante è la loro preparazione, con la scelta degli argomenti e l’effettiva presenza delle varie componenti della realtà parrocchiale, rompendo i vari “cerchi magici”.
Il “modello” della loro celebrazione, con gli ovvi adattamenti, dovrebbe poi essere lo stesso di un qualsiasi Concilio, soprattutto con le preghiere di inizio e fine, l’intronizzazione del Vangelo, il diritto di parola di tutti, senza gerarchie fasulle.
Per capire lo spirito di queste riunioni basterebbe meditare la tradizionale preghiera di apertura dei sinodi, quella che porta il nome del verbo con cui essa inizia Adsumus.
Forcesi:
Il capitolo centrale del libro ha per titolo “Repraesentatio”. Sostieni che al centro di un evento sinodale c’è il rendersi presente di Cristo mediante il suo Spirito, e che è questa presenza operante che crea il consenso fra i partecipanti. Questa categoria (la repraesentatio Christi, o la repraesentatio ecclesiae) è la chiave – dici – per comprendere la profondità di ogni evento sinodale nella chiesa. Il consenso, infatti, è reso possibile per l’influsso in atto della presenza dello Spirito; e, d’altra parte, è proprio l’accordo, il consenso, che permette di parlare di una presenza dello Spirito, e dunque di un permanere nella verità. Un evento sinodale è autentico, dunque, se ha la capacità di suscitare consenso. Dopo aver osservato che, viceversa, nella teologia attuale l’espressione repraesentatio Christi è utilizzata solo nell’ambito sacramentale (l’eucaristia) e in quello ministeriale, concludi sostenendo che la comprensione del senso autentico della repraesentatio “è utile per discernere ciò che costituisce la verità dell’esperienza ecclesiale nella storia, distinguendolo da quanto ne costituisce una forma di sterile autoritarismo ovvero una deriva corporativa e sindacale”. Puoi aiutarci a capire meglio questo tuo pensiero?
Ruggieri:
In quel capitolo ho avuto di mira quelle che considero due opposte derive della vera concezione della prassi sinodale. Per un verso agisce infatti ancora in molti una concezione discendente dell’autorità: dal papa, ai vescovi, ai preti e infine ai laici. Dall’altra la crescita della consapevolezza dell’eguale dignità e responsabilità di tutti i credenti rischia di scivolare nella concezione “democratica”, validissima sul piano politico-civile, della delega dal basso, per cui il consenso ottenuto deve rispettare la volontà delle persone rappresentate e deleganti.
Come si rende presente la Chiesa
La grande tradizione conciliare, invece, espressa nel modo più maturo nei concili del Quattrocento, ha affidato l’origine dell’autorità dei sinodi al “mistero” della “repraesentatio” della chiesa (espressione che va tradotta non con “rappresentanza” ma con l’atto del “rendersi presente”).
Ogni concilio o sinodo “perfetto” (categoria antica che non equivale a “infallibile”) infatti “rende presente” la chiesa nella misura in cui Cristo stesso si rende presente mediante il suo Spirito quando due o tre si riuniscono nel suo nome (cf. Mt. 18, 20: testo di riferimento tradizionale delle varie teologie conciliari, al di là del suo contesto originario).
Il consenso è quindi un evento che lo Spirito stesso crea quando esistono le condizioni, che non sono in primo luogo quelle giuridiche, ma quelle del comune ascolto sia dei presenti che della tradizione del Vangelo di Gesù (che il Sieben chiama rispettivamente ascolto orizzontale e verticale).
I meccanismi della “rappresentanza”, che sono anch’essi necessari e variano secondo le contingenze storiche, sono soltanto la condizione materiale esterna perché si verifichi l’evento del consenso, o della “sinfonia spirituale” (nome che in Oriente equivale a quello di consenso sinodale).
E la “sinfonia spirituale”, suscitata cioè dallo Spirito, trova poi la sua “conferma” e la sua “messa in sicurezza” (espressioni di papa Martino I nella lettera del 31 ottobre 649, a conclusione del sinodo Laterano) nella recezione comune del popolo di Dio.
Un sinodo è “perfetto”, quando esso dà luogo a tre “accordi”: quello con la tradizione viva del Vangelo di tutti i tempi, quello tra i presenti, quello con la base ecclesiale che lo riceve e lo mette in pratica. Questa concezione non è quella che classifica l’autorità dei singoli sinodi o concili (i due termini si equivalgono) secondo il loro grado di “infallibilità”.
La discussione sulla “infallibilità” ha terribilmente distorto, a mio modesto avviso, il significato delle decisioni nella chiesa, a partire da un significato di “verità” che non è quello evangelico, ma quello filosofico della verità come corrispondenza tra il linguaggio e la realtà che il linguaggio vorrebbe tradurre.
La verità cristiana, almeno secondo il vangelo di Giovanni, è invece testimonianza del mistero del Padre e si oppone alla menzogna, che è un parlare a partire da sé (cf. Giov. 8, 43-47). La verità di un sinodo sta cioè nella capacità di tradurre o meno il vangelo dell’amore del Padre del Messia Gesù nelle condizioni attuali della vicenda umana, di essere quindi testimone della verità nel senso in cui Gesù proclamò dinanzi a Pilato di essere venuto per testimoniare la verità.
In ogni Chiesa c’è tutta la Chiesa
Forcesi:
Nel tuo libro “Chiesa sinodale” la questione dei rapporti tra chiesa universale e chiese locali occupa un posto centrale. E scrivi che uno dei limiti del Vaticano II è stato di non aver esplicitato la dinamica dell’ordinazione episcopale e, di conseguenza, di non aver valorizzato la chiesa locale. Un esempio delle conseguenze negative di questa carenza, che alcune decisioni romane hanno acuito nel post-concilio, è stata la progressiva messa in sordina dell’esperienza ecclesiale dell’America Latina. Guardando alla tradizione della chiesa antica, scrivi che la località della chiesa non è un fatto casuale o un’esigenza amministrativa ma è un fatto di grazia. Puoi esplicitare questa tua riflessione e le sue implicazioni?
Ruggieri:
Questo pensiero, che la località di ogni chiesa sia un fatto di grazia, non è originariamente mio, ma del compianto padre Jean-Marie Tlllard ed è stato molto sottolineato da un allievo del Congar, il padre Hervé Legrand. Nel Vaticano II, con la preoccupazione di riscoprire la collegialità e l’autorità dei vescovi non derivata dal papa ma dal sacramento della consacrazione episcopale come tale, mancò l’approfondimento del rapporto “costitutivo” tra ogni vescovo e la sua chiesa.
Nella chiesa antica invece il rapporto era fondamentale: lo stesso cambio di sede episcopale era considerato un fatto anomalo, e non si potevano dare ordinazioni cosiddette “absolutae”, sciolte cioè dal legame dell’ordinato con una chiesa locale (canone 6 del concilio di Calcedonia). È in forza di questo legame che un vescovo partecipa alla “sollecitudine per tutte le chiese”. E la consacrazione episcopale era un fatto che coinvolgeva anzitutto il presbiterio, poi il popolo che doveva confermare la decisione, e quindi i vescovi vicini che dovevano consacrare l’eletto, giacché il vescovo rappresentava l’anello di unità con tutta la chiesa. Ogni chiesa locale portava per ciò stesso dentro la chiesa tutta la sua storia, le sue scelte, i suoi doni, ma anche le sue debolezze.
Ma l’apporto di grazia di ogni chiesa non appartiene soltanto al passato. Penso soprattutto al più grande fatto di rinnovamento della chiesa dopo il Vaticano secondo, cioè la maturazione dell’atteggiamento nei confronti dei poveri in America Latina, che ha dato origine alle varie forme di teologia della liberazione. Quella teologia nella sua ispirazione fondamentale non era un insieme di concezioni partorite dalla mente dei teologi, ma espressione di una rinnovata coscienza evangelica da parte di quelle chiese, in primo luogo dei loro vescovi (come non pensare a dom Helder Camera o a dom Pedro Casaldaliga o a Oscar Romero?). Tutto ciò è grazia, cioè esistenza umana concreta vivificata dallo Spirito di Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. Giacché la grazia di Dio non è astratta, ma concreta e raggiunge uomini e donne in carne e ossa, con tutti i loro condizionamenti storici. La comunione ecclesiale è quindi vitalmente incontro, correzione reciproca, non soltanto nel rapporto tra i singoli, ma nei rapporti tra gruppi, istituzioni, chiese.
Forcesi:
Il capitolo del libro intitolato “Per una chiesa della fraternità e della sororità” riprende il testo che hai presentato a Firenze nella prima tappa di quel percorso a cui era stato dato il nome “Il vangelo che abbiamo ricevuto”.
Nello spiegare il senso di quella proposta avevi scritto: “Non ci appelliamo a una chiesa alternativa ma esprimiamo la volontà che la libertà di parola, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano”; e avevi tracciato la via di una chiesa che, da un lato, “si oppone all’autoritarismo clericale” e, dall’altro, in positivo, “esige la responsabilità di tutti, nella varietà di ministeri e carismi, attraverso il criterio principe del consenso dei fedeli”. “Il motivo ultimo” che vi aveva spinto a promuovere quell’iniziativa, dicevi, era “la sofferenza di non vedere al centro dell’attenzione della chiesa il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri e ai peccatori, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge”. Il vostro appello era a una chiesa non della condanna ma della misericordia. L’iniziativa si è interrotta, tu racconti, perché, con la sua venuta nel marzo del 2013, le istanze da cui avevate preso le mosse erano finalmente testimoniate da papa Francesco, e in primis proprio l’annuncio della misericordia, in questo sulle orme di papa Roncalli. Nel libro non lo hai fatto, ma vuoi qui abbozzare – proprio a partire dall’istanza di una chiesa sinodale – una prima lettura dell’impatto di Francesco sulla chiesa, in particolare quella italiana?
Ruggieri:
L’iniziativa a cui ti riferisci nasceva, come hai detto, da una sofferenza. Per coloro che, come me, avevano vissuto la primavera del concilio dal di dentro, era molto forte la sensazione dell’“inverno” (l’espressione era del padre Karl Rahner) che era progressivamente sopravvenuto nella chiesa. All’atmosfera di apertura degli anni conciliari, determinata dall’affermazione del primato di quella che papa Giovanni XXIII chiamava la “sostanza viva” del vangelo, quella che nutre il cuore di ogni uomo e di ogni donna che credono, era subentrata per vari motivi, non ultimi quelli culturali legati alla stagione postsessantottina, la paura, la difesa della “dottrina”, la ripresa delle condanne, la delegittimazione delle scelte di intere conferenze episcopali (soprattutto quelle latino americane).
Non vorrei apparire un pessimista: non mancavano infatti segni che mantenevano la speranza, come la richiesta di perdono per tutta la chiesa da parte di Giovanni Paolo II, gesti profetici come l’incontro di Assisi fra i rappresentanti delle chiese e delle religioni nel 1986, ecc. L’iniziativa del “Vangelo che abbiamo ricevuto” voleva, in quel clima, mantenere la speranza nella forza del Vangelo come tale. L’elezione di Bergoglio a vescovo di Roma ha cambiato l’atmosfera. La sua esortazione Evangelii gaudium, senza molte citazioni della lettera del Concilio Vaticano II, ha ridato spazio a molte delle correnti calde dell’evento conciliare: la centralità del Vangelo rispetto alle dottrine, il primato della misericordia, l’attenzione privilegiata ai poveri, e via dicendo.
Le resistenze a papa Francesco
Non meraviglia quindi che il messaggio di papa Francesco incontri anche forti resistenze. Credo che il motivo principale di queste resistenze stia nella non accettazione da parte di alcuni della centralità del Vangelo rispetto alla dottrina e alla disciplina ecclesiastica. Vedi, in questo senso, il tentativo dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, di suscitare un procedimento di impeachment del papa in quanto non ortodosso, dopo l’esortazione postsinodale Amoris laetititia. Per altri invece, anche vescovi, il motivo è la difficile assimilazione di una mentalità alla quale non erano preparati. La diagnosi della situazione attuale resta tuttavia molto complessa. Papa Francesco, che ha espresso la sua convinzione sulla natura sinodale della chiesa, ha per altro verso una concezione alquanto “gesuitica” del suo ministero: ascoltare tutti, ma alla fine decidere da solo.
E in ogni caso non credo che sia possibile la cosiddetta riforma della curia. Nel Novecento le varie riforme della curia, compresa la sua cosiddetta internazionalizzazione, non hanno prodotto una effettiva riforma. In ultimo, infatti, la riforma della curia presuppone quella del papato. Fin quando il papa non rinuncerà ai “privilegi” accumulati nel secondo millennio nella chiesa latina, la curia continuerà ad avere un ruolo esagerato nella vita della chiesa, con grave pregiudizio delle chiese locali. La curia, non dimentichiamolo, è un organo del papa per l’esercizio del suo governo. Francesco ha fatto un gesto importante in questa direzione: la devoluzione ai tribunali diocesani delle cause di nullità matrimoniale. Ma questo è solo un piccolo passo, anche se fino adesso è, a mio avviso, accanto alla decisa affermazione e testimonianza personale della priorità del Vangelo, il fatto più importante sulla via per la riforma istituzionale della chiesa latina.
Forcesi:
La parte conclusiva del tuo libro la dedichi al pensare la fede nel tempo presente. Parli di una pratica della teologia che è anch’essa sinodale, risultato dell’azione dei diversi soggetti della comunità ecclesiale. E riprendi l’invito, che è stato di Giovanni XXIII e del Vaticano II, di leggere i “segni dei tempi”, osservando però che il Concilio non ha offerto una spiegazione adeguata del loro significato, perché mancava, e forse ancora manca, una appropriata ermeneutica teologica, e cioè quella che chiami una “prospettiva messianica”. Si tratta, scrivi, di porre tutta la storia sotto la luce messianica. Questo mi pare un punto cruciale: la chiesa sinodale che è al centro di tutto il libro ha la responsabilità di vivere e di comunicare “il vangelo che abbiamo ricevuto”, e dunque ha il bisogno di interpretare i segni dei tempi. Ma, dunque, quale è la chiave interpretativa che tu indichi per leggere i segni di Dio nella storia che viviamo?
Ruggieri:
La chiave interpretativa dei segni dei tempi sta, a mio avviso, nella comprensione delle parole di Gesù stesso, laddove rimprovera i farisei di saper distinguere l’aspetto del cielo ma di non riuscire a discernere i segni dei tempi, con la conclusione che “una generazione malvagia e adultera richiede un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno del profeta Giona” (Cf. Mt. 16, 1-4).
Il segno che è Gesù con la sua morte, accolta da Dio nella risurrezione, è il segno dei tempi per eccellenza, quello in cui irrompe il Regno di Dio. Nella prassi di Gesù, e nella prassi di coloro che lo seguono, emergono, anzi si “costituiscono”, nel senso letterale della parola, i segni dei tempi. Questi segni infatti non vanno identificati con un qualsiasi fenomeno umano, sia esso il più alto e spirituale possibile, ma “nascono” dalla partecipazione alla sofferenza della creazione. La domanda fondamentale e decisiva, rispondendo alla quale viene determinato ultimamente il criterio che comanda un’interpretazione dei segni dei tempi, deve essere allora così formulata: come possiamo costituire anche noi dei segni dei tempi, quelli nei quali si avvicina a noi il regno di Dio, a imitazione di colui che fu e resta il segno dei tempi per eccellenza, Gesù Messia?
Cosa vuol dire che il Regno si avvicina
La risposta mi sembra allora molto semplice, anche se poi è estremamente difficile tradurla in pratica: si costituisce una prassi messianica, si pone un segno dei tempi nei quali il Regno di Dio si avvicina all’uomo, quando, a imitazione del Messia Gesù, ci si carica del peso dell’altro che soffre (cf. Gal. 6,2: compiere in noi la legge del Messia portando i pesi l’uno dell’altro). Il caricarsi del peso dell’altro non dipende dalle sue qualità morali, ma dalla sofferenza come tale.
C’è un passaggio del libro di Giobbe che getta un lampo straordinario di luce, quasi abbagliante, a questo proposito: “All’uomo sfinito è dovuta pietà/hesed dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timor di Dio” (6, 14). La distretta umana – anche quella del peccato – esige la pietà/hesed, termine che nell’Antico Testamento comprende quello di misericordia. La sofferenza, a prescindere dall’atteggiamento morale di chi la subisce, acquista allora come tale spessore “teologico”. E questa è la grammatica delle Beatitudini.
A cura di Giampiero Forcesi
Redattore del sito web di “Costituzione Concilio Cittadinanza” (www.c3dem.it)