Una proposta per le Facoltà teologiche

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

25 Maggio 2022 / Editore / Dicono i Teologi / 0 Comment

Occorre non solo includere il tema della pace nella teologia, ma rinnovare la teologia per una fondazione della pace

Sergio Tanzarella

Pubblichiamo una lettera di Sergio Tanzarella, ordinario di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, ai responsabili delle Facoltà e Istituti teologici, intesa a promuovere nuovi percorsi didattici ispirati a una teologia della pace

Ai Rettori delle Pontificie Università in Italia
Ai Presidi delle Pontificie Facoltà Teologiche in Italia
Ai Direttori degli Studi Teologici e degli Istituti Teologici
Ai Direttori degli Istituti Superiori di Scienze Religiose

Gentilissime Autorità Accademiche,  

per molti anni la propaganda della  bontà della guerra fredda fondata sul principio della deterrenza ha cercato di  convincerci che con i lampi nucleari di Hiroshima e Nagasaki la guerra fosse stata  archiviata e resa di fatto impossibile. Era evidentemente una buona illusione ma  anche una menzogna perché le guerre e le stragi in Indocina, in Corea, in Vietnam,  in Cambogia, in Algeria con i loro milioni di morti, l’uso frequente di armi chimiche,  il ricorso sistematico alla tortura erano lì a smentire questa tesi ottimista e  negazionista. Contemporaneamente in Africa era un continuo susseguirsi di altre  guerre, spesso ignorate ma non meno letali, premesse per gravissime carestie ed  epidemie. Tutte guerre dove i morti civili sopravanzavano di molto i morti militari.  Dopo quell’agosto 1945 vi fu, quindi, un susseguirsi di guerre coloniali e post  coloniali, tutte direttamente o indirettamente provocate e armate dalle nazioni più  ricche del mondo, cui si aggiunsero sanguinose forme di repressione militare in  Sud e Centro America con decine di migliaia di assassini e desaparesidos. Nel 1989  il crollo del muro di Berlino e due anni dopo la dissoluzione dell’impero sovietico  illusero molti che nessuna guerra si sarebbe ormai più combattuta e che anche gli  arsenali atomici capaci di distruggere molte volte la Terra, frutto della guerra fredda e del principio della deterrenza, sarebbero stati dismessi. Così tutti i popoli  avrebbero potuto vivere occupandosi di istruzione e di salute in un nuovo tempo di  pace. La previsione fu totalmente sbagliata e le guerre si moltiplicarono con  maggiore intensità e ferocia pur avendo sempre meno il coraggio di pronunciare il  proprio nome divenendo con abili eufemismi operazione di polizia internazionale,  missione umanitaria, operazione chirurgica, operazione militare speciale. Così in  questi ultimi trent’anni vi è stato un susseguirsi di altre guerre: dalle due in Iraq,  a quelle in Afghanistan, alla Libia, allo Yemen, a quelle della ex Jugoslavia, alla  Siria e ancora sempre intere regioni dell’Africa fino alla guerra in corso in Ucraina,  guerre solo geograficamente circoscritte ma che hanno visto impegnate coalizioni  internazionali con eserciti enormi e con armi sempre più sofisticate, letali e costose.  In questa condizione di guerra diffusa e continuata – quella terza mondiale a pezzi  denunciata più volte da papa Francesco – mentre produttori e commercianti di armi  (assassini dal volto pulito, dalle labbra imburrate e dalle prodighe beneficenze)  continuano a far festa, dovremmo aver capito che tutte le guerre sono destinate a  non concludersi mai e ciò non solo per il danno economico irreparabile e per la  fame, per i lutti e per i mutilati, per le vedove e gli orfani, per l’essere potenti  fabbriche di profughi, ma soprattutto per la conseguenza dell’odio che non si  estingue nemmeno attraverso il succedersi delle generazioni e che potenzialmente  produrrà altre guerre. Si può dire, purtroppo, che dal 10 dicembre 1948 la  Dichiarazione universale dei diritti umani è stata costantemente violata. 

Dinnanzi a questa catastrofe di umanità che sono state e sono le guerre moderne  il magistero pontificio ha sempre più affinato una posizione chiara che da  Benedetto XV in poi ha espresso una totale condanna e il rifiuto ad offrire alla  guerra giustificazioni morali e divine. Soprattutto dopo la Pacem in terris questo è  apparso ancora più evidente! E tuttavia vi è da interrogarsi se ancora ha senso riproporre quella teoria della guerra giusta concepita ancor prima che le armi da  fuoco fossero utilizzate per la guerra. Qui non si tratta più di schioppi o di  bombarde ma di bombe a grappolo o al fosforo, di proiettili all’uranio impoverito,  di mine antiuomo e di mine giocattolo, quelle per mutilare i bambini, e degli altri  mille ordigni e sistemi d’arma con i quali oggi si fa la guerra, e di testate nucleari  con le quali si minaccia di farla. Non solo l’uso di quelle armi ma anche il semplice  possesso non chiede oggi a noi una condanna senza appello come già fece Giacomo  Lercaro durante il Vaticano II? Ma soprattutto l’insegnamento della teologia mi  appare oggi chiamato a porre attenzione al disarmo degli spiriti e dei cuori, al  superamento dei nazionalismi e delle contrapposizioni tra i popoli, alla condanna  di ogni tentativo religioso di giustificare la guerra, al superamento dei neo  costantinismi, alla crisi ecologica umana in atto con la sistematica distruzione  dell’ambiente e della fraternità. Urge che la teologia oggi insegni, con i propri  strumenti di studio e con rigorosa scientificità, al rifiuto di ogni guerra ai migranti  – cioè quella realizzata con respingimenti, annegamenti, muri, filo spinato,  legislazioni persecutorie, spostamento dei confini nazionali, campi di prigionia, nuove forme di schiavitù e soprattutto aiuti a comprendere che il meticciato non è  un pericolo ma uno dei segni dei tempi che dobbiamo con gratitudine accogliere e  comprendere. 

I nostri studenti vorrebbero capire, vorrebbero soprattutto scoprire quanto il  cristianesimo e le altre religioni possono collaborare per opporsi alla guerra e come  contribuire alla costruzione di quella fratellanza umana di cui parlano il documento  di Abu Dhabi e l’enciclica Fratelli tutti. E soprattutto se non è giunta l’ora – forse  non più per scelta libera e responsabile ma perché costretti dall’urgenza della storia  presente – di ricostruire tutto il sapere teologico sul senso profondo della Pace,  senso costitutivo e fondante per il cristianesimo e per la evangelizzazione. Non si  tratta di prevedere un corso specifico, iniziativa pur meritoria. Io stesso posso  affermare che quasi sempre le autorità accademiche delle istituzioni presso cui ho  insegnato sono state, su richiesta, disponibili a concederlo. Oggi non c’è bisogno di  un corso ma di un nuovo impianto teologico adeguato alle emergenze della storia e  attento ai segni dei tempi. Papa Francesco nella Veritatis gaudium – dopo avere  osservato che «non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare  questa crisi» – ha efficacemente indicato che  

«Questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della  formazione accademica e dell’indagine scientifica l’impegno generoso e  convergente verso un radicale cambio di paradigma, – anzi mi permetto di dire  – verso “una coraggiosa rivoluzione culturale”. In tale impegno la rete mondiale  delle Università e Facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo  contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della  Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte»  (3).  

A me sembra che l’invito del Papa al cambio di paradigma e alla rivoluzione  culturale, a partire anche dai quattro criteri suggeriti nel documento, non sia stato  ancora avviato. Mi appare anzi che possa prevalere una ossificazione didattica della  teologia, una incapacità alla sperimentazione e una paura del rinnovamento. 

E ciò nonostante Francesco abbia ulteriormente esplicitato le sue indicazioni nel  discorso di Napoli del 21 giungo 2019 La teologia dopo Veritatis gaudium nel  contesto del Mediterraneo:

«occorre partire dal Vangelo della misericordia, dall’annuncio fatto da Gesù  stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione. […] è necessaria una seria  assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto all’incontro  con il Signore. […] È necessaria la libertà teologica. Senza la possibilità di  sperimentare strade nuove non si crea nulla di nuovo, e non si lascia spazio  alla novità dello Spirito del Risorto […]. Questo significa una adeguata  revisione della ratio studiorum. […] dotarsi di strutture leggere e flessibili che  manifestino la priorità data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans disciplinare e in rete. Gli statuti, l’organizzazione interna, il metodo di  insegnamento, l’ordinamento degli studi dovrebbero riflettere la fisionomia  della Chiesa “in uscita”. Tutto deve essere orientato negli orari e nei modi a  favorire il più possibile la partecipazione di coloro che desiderano studiare  teologia: oltre ai seminaristi e ai religiosi, anche i laici e le donne sia laiche che  religiose. In particolare, il contributo che le donne stanno dando e possono dare alla teologia è indispensabile e la loro partecipazione va quindi  sostenuta». 

A distanza già di tre anni sarebbe importante che ogni istituzione accademica  avviasse un processo di revisione alla luce di queste istanze e che i risultati fossero  resi pubblici per diventare esemplari per altre istituzioni e di incoraggiamento per  tutti. Il Papa, a “partire dal Vangelo della misericordia e da una seria assunzione  della storia in seno alla teologia”, ci suggerisce uno straordinario spazio di libertà  e di responsabilità operativa e creativa, non vi è più alcun pretesto per le  giustificazioni di un immobilismo ripetitivo. In questa assunzione del tempo e dello  spazio è implicita una seria presa in carico dei mondi vitali e delle condizioni di vita  degli uomini e delle donne, in una teologia contestuale in un ascolto non distratto  delle domande rilevanti e urgenti.  

Una delle piste da percorrere è quella della costruzione di un nuovo progetto  didattico di baccalaureato ispirato alla teologia per la Pace al quale occorre si  adegui la auspicata e attesa nuova ratio studiorum. Sacra Scrittura, Storia civile e  Storia della Chiesa (non storia evenemenziale, aproblematica, apologetica ma  analisi critica delle fonti e decostruzione delle menzogne e delle generalizzazioni,  superamento dell’uso pubblico della storia e di tutte le costruzioni di memorie  funzionali all’asservimento degli esseri umani) con adeguati spazi nel monte ore  dovrebbero fornire le basi ad un sapere teologico che ponga al centro la Pace del  Vangelo non come aggettivo opzionale ma sostanza stessa dello studio teologico  fondato sui principi della nonviolenza. Le possibilità sono qui enormi e tutte da  sperimentare. Si pensi, solo per fare qualche esempio, al contributo che può offrire  lo studio degli scritti di autori come Erasmo da Rotterdam, fino ad arrivare a Luigi  Sturzo, della grande tradizione del pensiero nonviolento classico da Tolstoj a  Gandhi, da Giorgio Capitini a Danilo Dolci fino ai cattolici Lanza del Vasto, Jean  Goss e Hildegarde Mayr, delle straordinarie testimonianze del XX secolo di Primo  Mazzolari, Lorenzo Milani, Giuseppe Dossetti, Thomas Merton, Giorgio La Pira,  Tonino Bello, Arturo Paoli, Desmond Tutu e di martiri come Martin Luther King,  Oscar Romero, Marianella García Villas, Juan José Gerardi e Pierre Claverie. Sono  esempi, tra i tanti, di figure che restano ad oggi praticamente sconosciuti ai nostri  studenti. Ritengo che i loro scritti potrebbero dare alla didattica teologica una  ricchezza straordinaria fino ad oggi sottovalutata e nei fatti negata. Come resta  ancora ignorata la ricca tradizione dell’obiezione di coscienza cristiana dalla recluta 

Massimiliano fino a Franz Reinisch, Franz Jägerstätter, Max Josef Metzger, Josef  Mayr-Nusser, Jean Claudel, Jean Pezet, Giuseppe Gozzini, Rosemary Lynch e tanti  e tante che hanno offerto una testimonianza esemplare della nonviolenza  evangelica.  

Ma siamo in ritardo, la teologia è in grande ritardo. Siamo chiamati dalle domande  della storia ad una conversione della teologia. Chiamati a far confluire i nostri  campi di ricerca, spesso molto specialistici, in una elaborazione collettiva e  coraggiosa di una Teologia per la Pace fondata sul senso profondo della nonviolenza  ispirata al Vangelo. Gli studenti ci guardano e ci chiedono di aiutarli a comprendere  la complessità, a formare la propria coscienza ad un disarmo delle menti, a  formulare un giudizio dirimente dinnanzi agli armamenti, alle stragi, alla tortura,  ai bombardamenti e soprattutto di fronte ad un sistema finanziario militarizzato  che produce fame, impoverimento, morte e che di fatto con ferocia governa il  mondo, condiziona i parlamenti e che pretende di giustificare le disuguaglianze.  Non vorrei che anche in un’ora così terribile si continuino a programmare studi  teologici che lasciano gli studenti indifferenti, o rassegnati, rispetto alla realtà  dell’inumanità e dell’ingiustizia sistemica. Se il risultato del nostro insegnamento  è l’indifferenza, o la rassegnazione, allora è certo che abbiamo fallito. Anche perché  non c’è traccia di indifferenza e di rassegnazione nel Vangelo. Ispiriamoci invece a  quanto ancora ci raccomanda il Papa: 

«Sogno Facoltà teologiche dove si viva la convivialità delle differenze, dove si  pratichi una teologia del dialogo e dell’accoglienza; dove si sperimenti il  modello del poliedro del sapere teologico in luogo di una sfera statica e  disincarnata. Dove la ricerca teologica sia in grado di promuovere un  impegnativo ma avvincente processo di inculturazione».  

Saranno certo queste convivialità, queste pratiche, queste sperimentazioni e questi  processi ad essere il nostro contributo – di istituzioni teologiche ed insegnanti – alla  costruzione della Pace.  

Napoli, 15 maggio 2022

Sergio Tanzarella 

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