PERCHÉ CI SIAMO LIBERATI
PERCHÉ CI SIAMO LIBERATI
È la ragione stessa per la quale ci siamo poi dati una Costituzione antifascista. Ma abbiamo anche voluto un costituzionalismo democratico, in cui i pubblici poteri realizzino la giustizia sociale mediante la rimozione degli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone. Un discorso a Carpi
Valerio Onida
Pubblichiamo il discorso dell’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida tenuto a Carpi (Modena) il 25 aprile scorso per la festa della Liberazione
Siamo qui per celebrare la festa della Liberazione. Liberazione da che cosa o da chi?
Liberazione del territorio nazionale dall’occupazione delle truppe naziste; e, insieme, liberazione definitiva dell’Italia dal regime fascista, già caduto nel suo vertice il 25 luglio 1943, ma ripristinato sotto altra forma e sotto la protezione degli occupanti nazisti, nel centro-nord d’Italia, con la Repubblica Sociale Italiana di Salò. Dunque liberazione con la chiusura definitiva di quella “era fascista” che era stata consacrata perfino nel calendario civile[1].
Il regime fascista, nei venti anni decorsi da quando aveva preso il potere, aveva (via via, nel tempo):
– soppresso e ristretto le fondamentali libertà civili;
– messo in carcere o mandato al confino gli avversari politici e vietato i partiti diversi dal partito nazionale fascista, trasformato in una istituzione statale;
– introdotto nel 1930 un codice penale (la cui cornice purtroppo sopravvive ancora) che ripristinava fra l’altro la pena di morte abolita col codice del 1889[2];
– concentrato tutti i poteri politici significativi nella persona del “Capo del Governo, Duce del fascismo”, Benito Mussolini, nell’ambito di un sistema pienamente autoritario;
– svuotato e poi soppresso tutte le istituzioni elettive, dai Sindaci dei Comuni e dai consigli comunali (sostituiti da Podestà di nomina governativa) fino alla Camera dei deputati, sostituita nel 1939 da una “Camera dei fasci e delle corporazioni” di nomina governativa;
-introdotto le infami leggi razziali del 1938 (dovrebbero essere rilette, specie in questo ottantesimo anniversario della loro emanazione), che discriminavano pesantemente gli ebrei e pretendevano di salvaguardare la “purezza” della supposta ”razza italiana”;
-sviluppato una politica colonialista ed espansionista (così che negli anni più recenti il Re era ufficialmente indicato come “Re d’Italia e di Albania, Imperatore d’Etiopia”);
-infine portato l’Italia a combattere nella seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, cioè da quella dei regimi autoritari (primo il nazismo) nati in Europa nella prima metà del Novecento e fondati sulla idea del primato dell’autorità statale sugli individui e sulla società, contro la coalizione degli Stati che si professavano eredi ed assertori (sia pure in modi molto diversi e anche in conflitto fra loro) dei principi di libertà ed eguaglianza affermatisi con le rivoluzioni anti-assolutiste della fine del Settecento.
La liberazione giunge al termine di un lungo periodo di lotta, di guerra anche civile, di dolorosa transizione, segnata non tanto dall’incertezza sull’esito finale, quanto dalla durezza dello scontro, con le sue numerosissime vittime, militari e civili, e dall’entità della rovina materiale e morale del paese. Due anni in cui si manifesta il disfacimento delle preesistenti istituzioni statali (il Governo del Re, trasferitosi a Brindisi, l’amministrazione, le truppe), si raggiunge presto l’armistizio con gli Alleati, a cui fanno seguito immediatamente il regime di occupazione da parte delle truppe naziste di tutto il centro-nord del Paese, la nascita della Repubblica di Salò, la comparsa di nuovi decisivi protagonisti, i partiti antifascisti riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, che danno vita a governi provvisori, e la lotta di resistenza condotta dai partigiani. Decisiva, dopo la “tregua istituzionale” stipulata fra i partiti antifascisti ed il Re (che cede il proprio ruolo al figlio come “luogotenente del Regno”), la “decisione costituente”, cioè l’atto (il decreto legge n. 151 del 25 giugno 1944, emanato subito dopo la liberazione di Roma) con cui si stabilisce che “dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali” sarebbero state “scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato”.
Dopo la Liberazione si apre un nuovo periodo di transizione, in cui si definiscono le scelte e le determinazioni necessarie per portare a effetto il processo costituente (legge elettorale per l’Assemblea, costituzione della Consulta Nazionale, commissioni di studio sui temi costituzionali formate dal Ministero della Costituente, ecc.). La determinazione più rilevante fu quella di prevedere il referendum, contemporaneo all’elezione dell’Assemblea, per la decisione circa la forma monarchica o repubblicana dello Stato (scelta poi resa definitivamente irreversibile dall’art. 139 della Costituzione).
Con il 2 giugno 1946 si apre il terzo periodo di transizione, incentrato sul ruolo dell’Assemblea oltre che dei Governi (che della stessa godevano la fiducia) nell’ordinamento provvisorio. La Repubblica fu sin da subito voluta e vissuta come Repubblica di tutti gli italiani, nonostante la divisione politica e territoriale manifestata dal voto referendario (51% dei voti alla Repubblica, prevalsa in quasi tutto il centro-nord, 43% dei voti alla Monarchia, prevalsa in quasi tutto il centro-sud, 6% di voti nulli o bianchi): come fu reso anche simbolicamente evidente dalla scelta dell’Assemblea di eleggere a Capo Provvisorio dello Stato, con il voto del 74% dei deputati (superiore anche alla maggioranza richiesta di tre quinti dell’Assemblea), un esponente liberale, meridionale e monarchico, Enrico De Nicola.
In questa ultima fase di transizione si collocano la firma del Trattato di pace, vicende politiche che videro il venir meno della collaborazione al Governo dei tre maggiori partiti antifascisti (democristiano, socialista, comunista), ma soprattutto l’elaborazione e la definitiva approvazione del testo costituzionale.
Queste furono segnate costantemente dalla ricerca e dal riconoscimento – soprattutto da parte dei tre partiti di massa, che insieme rappresentavano più di tre quarti dei membri dell’Assemblea – del terreno comune costituzionale su cui edificare la Repubblica.
Quale è questo terreno comune? Credo possa essere sintetizzato in due punti. Il primo è quello di una Costituzione “antifascista”, cioè che si preoccupa di sancire il definitivo abbandono e il superamento degli elementi caratteristici dell’ordinamento dello Stato autoritario, quale si era affermato in Italia col fascismo, nonché di impedirne la reviviscenza o la rinascita. Ciò spiega ad esempio la cura messa, nel testo costituzionale, per fissare anche nei dettagli regole opposte a quelle che il regime fascista aveva adottato: così sancendo l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge senza distinzione, fra l’altro, di razza o di opinioni politiche (art. 3); il riconoscimento delle autonomie locali (art. 5); la tutela delle minoranze linguistiche (art. 6); il pieno riconoscimento delle libertà di associazione, di organizzazione sindacale, di associazione in partiti politici, ma il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista (artt. 18, 39, 49, XII disp. trans. e fin.); l’inviolabilità, garantita dall’intervento necessario dell’autorità giudiziaria, della libertà personale, delle libertà di domicilio, di corrispondenza, di circolazione nel territorio nazionale (artt. 13, 14, 15, 16); il divieto di autorizzazioni o censure sulla stampa (art. 21); il divieto della pena di morte (art. 27); il divieto di estradizione e di privazione della cittadinanza per motivi politici (artt. 10,22, 26); il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11); e così via.
Il secondo “terreno comune” è consistito nella fissazione dei fondamenti di un sistema che, raccogliendo anche le spinte della storia dei movimenti sociali e dei lavoratori in vista della costruzione di uno “Stato nuovo”, di tutto il popolo, superasse i limiti delle democrazie “elitarie” nate dalle rivoluzioni liberali della fine del Settecento per dare vita ad un nuovo costituzionalismo democratico, in cui obiettivo dei pubblici poteri sia non solo il mantenimento dell’ordine e delle libertà, ma altresì la “giustizia sociale” attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone e la partecipazione di tutti alla vita collettiva (art. 3, secondo comma).
Su queste basi la Costituzione proclama la Repubblica “fondata sul lavoro” (art. 1), quel lavoro che costituisce insieme diritto e dovere di ogni cittadino per “concorrere al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4); disciplina nei particolari i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (artt. 35-40); garantisce e insieme limita i diritti di proprietà e di iniziativa economica al fine di estenderne i vantaggi a tutti (artt. 41-47), sancisce il suffragio universale maschile e femminile (art. 48) e il diritto di tutti di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive senza pregiudizio per la posizione di lavoro degli eletti (art. 51) e il dovere di lealtà fiscale (art. 53).
Dunque una Costituzione in cui la “sovranità popolare” si esercita solo “nelle forme e nei limiti” di essa (art. 1, secondo comma), e dunque al di fuori di ogni forma di onnipotenza della maggioranza; in cui il catalogo dei tradizionali diritti di libertà si completa con i diritti “sociali” (al lavoro, all’istruzione, ecc.), e ai diritti inviolabili di tutti si accompagnano i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2); in cui l’eguaglianza non è declinata solo in termini formali, come divieto di discriminazioni, ma anche di eguaglianza “ sostanziale” come possibilità per tutti di sviluppare la propria personalità; in cui la democrazia non è fatta solo di procedure, ma è democrazia “sostanziale”; in cui, infine, la Repubblica proclama il superamento dell’antico assetto degli Stati “sovrani” assoluti, per accettare le “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, e per promuovere e favorire “le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” (a partire dall’ONU).
A sua volta l’ordinamento dei poteri, delineato nella seconda parte della Carta, è mirato ad assicurarne la divisione e l’equilibrio. Perciò la Costituzione si presenta da un lato come presidio delle libertà conquistate o riconquistate, anche attraverso gli istituti di garanzia della stessa Costituzione (la giustizia costituzionale, che si esercita nei confronti delle leggi, per verificarne la conformità costituzionale, e dei poteri supremi dello Stato), dall’altro come programma per il futuro, per l’edificazione dello Stato sociale e il conseguimento dei fini di giustizia, nella consapevolezza che si tratta di obiettivi sempre bisognosi di attuazione o di miglior attuazione, e perciò sempre attuali, pur nel mutamento delle condizioni di fatto.
La Festa della Liberazione è dunque memoria del passato, per ricordare ciò che ci siamo lasciati alle spalle (in particolare il fascismo come violenza politica, autoritarismo, razzismo, nazionalismo bellicista, ideologia della guerra); ed è richiamo a guardare al futuro, per riproporci il compito permanente dell’attuazione dei “programmi” costituzionali. Questo compito è anzitutto della politica, espressione della libertà e del confronto democratico, ma orientata e guidata, non solo limitata, dagli obiettivi costituzionali di giustizia. La politica come compito nobile, volto a custodire, costruire e sviluppare la casa comune, e dunque come compito non di un ceto o di una “casta”, ma di tutti gli appartenenti alla Repubblica.
La garanzia ultima di salvaguardia e di attuazione dei principi sanciti settanta anni fa sta dunque nel nostro necessario comune “patriottismo costituzionale”.
Valerio Onida
[1] A partire dal 29 ottobre 1927 fu stabilito che all’indicazione dell’anno dell’era cristiana, negli atti ufficiali, fosse accompagnata quella dell’anno dell’”era fascista” che si faceva decorrere dal 29 ottobre 1922 (giorno successivo a quello della “marcia su Roma”). Ogni anno di quell’”era” terminava il 28 ottobre dell’anno successivo: perciò, ad esempio, gli atti del 1938 emanati fino al 28 ottobre erano indicati con il XVI dell’era fascista; quelli successivi, fino al 28 ottobre 1939, con il XVII. Gli ultimi atti della Repubblica Sociale Italiana, emanati dopo il 28 ottobre 1944 e nei primi mesi del 1945, prima della Liberazione, vennero dunque ascritti al XXIII anno dell’era fascista.
[2] E che verrà subito abolita dopo la caduta del regime, con il decreto del 10 agosto 1944, n. 224