PIÙ BELLI, PIÙ INTELLIGENTI, PIÙ FORTI, PIÙ SANI, PIÙ FELICI
Il mito dell’uomo artificiale
PIÙ BELLI, PIÙ INTELLIGENTI, PIÙ FORTI, PIÙ SANI, PIÙ FELICI
Si è aperta l’era del “superuomo” e la rincorsa all’ “eccellenza”, come via del successo mentre cambia lo statuto della medicina volta non più alla cura della vita ma alla perfezione e alla selezione. Ma l’uomo è ancora cosa molto buona. Così come è stato plasmato. Così, come è.
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Daniela Turato all’assemblea di “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” del 6 aprile 2019, su “Il grido del volto. Dove sei? L’uomo artificiale”.
Nel 1997 è uscito un film di fantascienza del regista Andrew Niccol dal titolo “Gattaca”, che ha riscosso un enorme successo di pubblico. Il film racconta di un futuro prossimo e ipotetico in cui la suddivisione in classi della società viene determinata dal codice genetico: più, cioè, si è perfetti, più si può ambire ad occupare le classi sociali più elevate e quindi ottenere maggior prestigio e riconoscimento dagli altri. Il mondo di Gattaca è suddiviso in Validi e Non-validi: i primi, concepiti in laboratorio e selezionati dai propri genitori sulla base di caratteristiche genetiche di eccellenza, possono avere accesso ai ruoli più importanti, mentre i secondi, nati semplicemente dall’amore tra un uomo e una donna, senza alcun intervento esterno, devono occuparsi delle faccende più umili. «Si diceva che un figlio concepito nell’amore avesse maggiori probabilità di essere felice… oggi non lo dicono più», è la triste constatazione di Vincent Freeman, il protagonista del film. Una società dunque, quella prefigurata da Niccol, basata sull’eugenetica, in cui, come afferma Vincent, «la discriminazione è elevata a sistema»: solo chi ha i “geni giusti” ha diritto a spaziare in altri mondi e conquistare, in tal modo, la piena felicità.
E questo è quanto pare stia accadendo esattamente vent’anni dopo l’uscita del film. Con l’avvento delle nuove tecnologie, soprattutto – ma non solo – in campo genetico, e con il dominio culturale tecnocratico si è, infatti, ufficialmente aperta l’era del “superuomo” e la rincorsa al nuovo oro che è “l’eccellenza”, unico biglietto di accesso al successo e, pare, alla felicità. Da alcuni anni siamo entrati nell’era dell’enhancement, ovvero del potenziamento umano: un’era in cui, grazie al progresso della tecnologia, sempre più naturale e artificiale convivono, sollevando nuovi e difficili interrogativi in ambito etico e antropologico.
L’uomo potenziato
Ma che cos’è l’enhancement?
Con questo termine, usato in ambito bioetico, si fa riferimento a tutti quegli interventi non strettamente terapeutici finalizzati a migliorare le caratteristiche di individui normali e sani. Ciò cui si mira è, appunto, creare – come ipotizzato da Niccol – una società in cui gli uomini siano più belli, più intelligenti, più forti, più sani e, come diretta conseguenza di tutto questo, più felici. Tutto questo va compreso all’interno di un orizzonte culturale in cui la medicina si sta trasformando sempre più da curativa a migliorativa[1]. E, conseguentemente, anche selettiva, lì dove non si raggiunga l’eccellenza[2]. Questo cambiamento di paradigma rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana perché mentre la medicina curativa ha come supremo valore quello della vita, la medicina selettiva ha come supremo valore quello della perfezione, la quale vale più della vita stessa, perché se la vita non risponde a certi canoni, viene soppressa.
Su tre principali ambiti di enhancement è attualmente posta l’attenzione del mondo scientifico e della società: la realizzazione dell’uomo cyborg, il potenziamento cognitivo attraverso l’uso di sostanze nootrope e il potenziamento genetico.
La cibernetica
La cibernetica, che per molto tempo ha rappresentato un fecondo terreno di immaginazione per la fantascienza, rappresenta ormai una realtà. Nel 2004, il giovane artista inglese Neil Harbisson, affetto da acromatopsia, una malattia che rende totalmente incapaci di percepire i colori, si è fatto impiantare un’antenna sulla testa, che egli considera come un nuovo organo facente parte integrante del suo corpo, una vera e propria estensione del suo cervello. Questa antenna è in grado di trasformare le onde dei colori in 360 onde sonore: in tal modo, Neil sente i colori attraverso l’antenna. Non solo: l’occhio bionico ha un dispositivo bluetooth che può connettersi alle reti wi-fi, permettendo a Neil di vedere direttamente nel suo cervello informazioni che viaggiano in rete. Nello stesso anno, Harbisson è diventato il primo uomo cyborg (uomo robot) riconosciuto per legge da uno Stato. Secondo Neil, la possibilità di diventare cyborg dovrebbe estendersi sempre più in quanto la conoscenza viene dai nostri sensi quindi, se ampliamo i nostri sensi, siamo anche in grado di ampliare le nostre conoscenze. «Ci sono un sacco di teenager che vogliono un pezzo del corpo da cyborg», afferma[3]. E non solo teenager, a quanto pare. L’ultracinquantenne transumanista David Orban, ad esempio, si è fatto installare un chip nella mano grazie al quale egli è in grado di aprire alcune porte e pagare con la carta di credito associata attraverso le onde radio. Secondo il docente della Singularity University, per giocare ad armi pari con i computer, i dati che ci arrivano dai cinque sensi non bastano più, ma servono nuovi paradigmi di interazione con il mondo[4] È la stessa convinzione di alcune start up che intendono utilizzare i chip che i ricercatori stanno cercando di mettere a punto per curare malattie come l’Alzheimer al fine di potenziare la memoria delle persone sane.
Il potenziamento cognitivo
Un secondo modo attraverso cui è possibile raggiungere un potenziamento cognitivo (o neuro-enhancement) è attraverso l’uso delle cosiddette smart drugs (ovvero “farmaci intelligenti” o “furbi”). Si tratta di sostanze psicoattive legali (e per questo “furbe”), facilmente reperibili anche online a basso costo, in grado di procurare una sorta di doping cerebrale, migliorando per un periodo limitato di tempo l’attenzione, l’apprendimento e la memoria, come anche in grado di far diminuire la sensazione di stanchezza e attenuare la fame. Questi farmaci, normalmente prescritti, ad esempio, a persone che soffrono della sindrome da deficit di attenzione e iperattività (o ADHD), o di Parkinson o, ancora, di narcolessia, se assunti da persone sane provocano un miglioramento generale delle capacità cognitive, un’aumentata resistenza alla fatica, un’alta efficienza lavorativa e mentale. Proprio per questo sono largamente utilizzati in ambienti lavorativi fortemente competitivi come, ad esempio, quello accademico. Indagini basate su interviste condotte tra gli studenti di alcuni college e università nordamericani hanno infatti messo in evidenza che tra l’11 e il 25% di essi fa uso di sostanze nootrope che aumentano concentrazione e memoria, e questo particolarmente durante le sessioni di esame. La percentuale sale al 26% per gli studenti della prestigiosa Università di Oxford. Ma i farmaci psicostimolanti sono già utilizzati anche da persone che fanno lavori in cui è fondamentale mantenere un alto livello di concentrazione come, ad esempio, i chirurghi o i piloti d’aereo. Uno studio condotto nel 2011 in Germania ha rilevato che il 9% dei medici intervistati aveva fatto uso almeno una volta di sostanze per il potenziamento cognitivo al fine di contrastare la fatica, aumentare il livello di concentrazione e combattere la depressione derivante da una situazione lavorativa che comporta stress intenso e privazione di sonno.
Sempre nell’ambito del potenziamento cognitivo, un importante settore di ricerca inerisce la possibilità di mettere a punto dei farmaci che siano in grado di rimuovere o, almeno, rendere più sbiaditi i ricordi indesiderati. Se inizialmente questa ricerca è stata avviata al fine di migliorare lo stato di salute psicologico in persone affette da sindromi quali il disordine post-traumatico da stress, attualmente si guarda con grande interesse ad essa in quanto pare utile come prevenzione psicologica, per esempio, per permettere ai soldati di andare a combattere o a coloro che si prestano ad operazioni di soccorso, di poter lavorare in una situazione di emergenza mantenendosi mentalmente equilibrati.
Ma oltre alle importanti problematiche di tipo etico correlate all’uso delle sostanze psicoattive (e, in generale, a tutte le forme di potenziamento) cui si accennerà più avanti, va considerato il fatto che ad oggi gli effetti collaterali delle smart drugs sul sistema nervoso centrale si conoscono solo in parte. Secondo uno studio del 2014, l’uso (e l’abuso) di sostanze nootrope sembrerebbe associato a una riduzione di plasticità del cervello con conseguente perdita, a lungo termine, di tutti i miglioramenti acquisiti, se non, addirittura, a una regressione. Di alcuni di questi farmaci sono, invece, già noti gli effetti avversi quali, ad esempio, disturbi cardiaci, perdita di appetito, allucinazioni, insonnia, psicosi paranoide, ideazione e comportamento suicidari, come anche un alto grado di dipendenza.
Il potenziamento genetico
Il terzo promettente ambito di potenziamento è quello genetico. L’enhancement genetico inerisce l’impiego di sofisticate tecnologie per aggiungere geni non presenti nel genoma umano o per alterare geni presenti “non malati” dotando in tal modo un individuo di nuovi e migliori caratteristiche o capacità. Questo intervento si configura come “eugenetica positiva” in quanto la sua finalità non è terapeutica, bensì migliorativa. Si colloca, ad esempio, in questo orizzonte il potenziale utilizzo della nuova tecnologia Crispr/Cas 9, messa a punto nel 2012 e salutata come una vera e propria rivoluzione in campo genetico. La Crispr è una sorta di “taglia e cuci” genetico attraverso cui è possibile correggere alterazioni del Dna responsabili di malattie genetiche o introdurre nel genoma caratteristiche desiderate. Se l’utilizzo al fine di curare malattie molto gravi è certamente visto come una grande conquista della scienza, il dibattito è molto acceso per quanto concerne il suo impiego a fini migliorativi. Ciò che molti temono è, infatti, che, come si è già tentato di fare, l’editing genomico venga utilizzato per manipolare il Dna di cellule umane riproduttive (ovuli e spermatozoi) o di embrioni, intervenendo in tal modo su individui futuri senza aver preventivamente chiesto il loro consenso (il che si configurerebbe come una palese violazione di diritti umani) e provocando delle alterazioni ereditabili, ignorando ad oggi quali siano i possibili rischi conseguenti alle modificazioni genetiche prodotte dalla tecnica in oggetto. Altri, inoltre, sollevano la questione del rischio eugenetico, ovvero il rischio che con questa tecnica si arrivi a potenziare individui sani e a creare dei bambini “su misura”, cioè aventi le caratteristiche desiderate dai genitori. In tal modo, verrebbe progressivamente a cambiare il significato antropologico della genitorialità come “apertura al non cercato” (M. Sandel)[5]. Inoltre, si amplierebbe ancora di più il divario fra sani e malati, arrivando a comprendere la categoria dei “superdotati”, e con ciò stesso le discriminazioni. E «la discriminazione – direbbe Vincent Freeman – è un reato… si chiama genoismo».
Il dibattito, su questo fronte, è molto acceso.
Sulla base del diritto all’autonomia procreativa, infatti, i sostenitori dell’enhancement genetico affermano che il potenziamento è un obbligo morale[6]. Scrive il filosofo Julian Savulescu, bioeticista dell’Università di Oxford: «Sostengo che c’è un’obbligazione morale nei confronti dell’enhancement degli esseri umani. (…) Sostengo che questo non è un progetto eugenetico ma espressione della nostra natura umana fondamentale, che consiste nel prendere decisioni razionali e provare a migliorarci. Essere umani significa provare a essere migliori». Ciò che si tenta di fare, con qualunque forma di potenziamento, è sottrarsi, grazie ai progressi della scienza, alla lotteria genetica. «Dio, o la natura, non si sforzano di essere ugualitari. Nel mondo ci sono grandi squilibri in facoltà fondamentali come intelligenza, memoria o motivazione. La scienza offre l’opportunità di correggere queste disuguaglianze»[7]. Ciò che colpisce, nelle affermazioni dei sostenitori del potenziamento umano, è la diretta corrispondenza fra potenziamento stesso, aumento del benessere del singolo individuo (e della società, più in generale, man mano che esso diventa accessibile ai più) e conquista della piena felicità. Avere più abilità pare, infatti, per gli stessi, essere garanzia di vita migliore. Ma filosofi anti-enhancement, come il bioeticista inglese Michael Parker, mettono in evidenza che essere migliori, ad esempio, dal punto di vista genetico, non significa affatto assicurarsi una vita, per ciò stesso, migliore. Perché la felicità e la qualità della vita dipendono da tanti fattori (ambiente, relazioni…), e non semplicemente dall’avere o meno capacità eccellenti. Anzi, afferma Sandel, questa cultura del controllo e del dominio sul “non cercato” rischia di minare tre caratteristiche chiave del nostro paesaggio morale: l’umiltà, la responsabilità e la solidarietà[8].
Quello che possiamo fin d’ora asserire è che certamente il potenziamento, in qualunque sua forma, trova terreno fertile in una società, come quella attuale, che ha fatto della competizione la sua regola prima e dell’eccellenza il fine ultimo di ogni sforzo. Ciò si accompagna a una visione meramente riduzionistica e biologistica dell’uomo, che ha perso di vista l’essere umano nella sua integralità, concentrandosi sul miglioramento di singole capacità. Il superuomo vale perché eccelle, e il suo essere è un essere totalmente isolato, non concepito all’interno di una rete di relazioni, anche solidali, che possono portare e supportare eventuali debolezze e inabilità. Ma un essere solo, da sempre, per quanto eccellente, è un essere infelice. Perché la felicità si costruisce sempre e solo con gli altri che ci sono dati.
Di fronte a questo scenario che può apparirci così inquietante, mi pare particolarmente significativo concludere questo intervento con le parole del saggista francese Fabrice Hadjadi: «L’uomo del futuro è l’uomo usa e getta, obbligato a comprarsi l’ultima protesi o a cambiare il cervello elettronico per non essere troppo rapidamente gettato in discarica. La novità dell’uomo di una volta era ben più duratura. Dio gli aveva dato un certo modello di corpo, o più esattamente due modelli appaiati, maschio e femmina, e si era fermato a quel punto, vedendo che era cosa molto buona. Senza sbagli né vanità era certo di aver creato una perenne novità, un flusso sorgivo che sgorga da quell’Eterno che resta più venerabile dell’antico e più giovane dell’avvenire. Tale garanzia divina chiamava ciascuno a rinnovare il proprio sguardo su ciò che c’era già, a riscoprire le proprie mani capaci di ricevere più che di prendere, la bocca dove entra il pane e da dove esce la parola, il sesso come un dito puntato o una coppa sempre rivolta verso l’altro… Quell’epoca sembra terminata. Il senso è stato sostituito dal progresso. Se le cose hanno senso è molto difficile sostituirle con nuova mercanzia. Occorre dunque che siano insensate. È usuale opporre frontalmente i “declinisti” e i “progressisti”. (…) Per quanto mi riguarda non sono progressista ma neanche declinista. Il mondo è ancora fin troppo bello per me. Un lombrico non smette di stupirmi. E so che nessuna tecnologia mi permetterà mai di comprendere mia moglie, né di amarla di più. La mia resistenza al progressismo procede dal mio accogliere il mondo così come dato, con tutto il suo dramma. Non ho ancora imparato a costruire una casa, coltivare un orto, pensare come Sant’Agostino, poetare come Dante, perché dovrei gettarmi su un casco con realtà aumentata? Non sono ancora abbastanza umano, perché dovrei cercare di diventare cyborg? Sarebbe, con la scusa di essere all’avanguardia, disertare il mio posto»[9].0
L’invito, dunque, per noi, è quello di non disertare il nostro posto “con la scusa di essere all’avanguardia”. E questo si può fare solo non abitando realtà aumentate, bensì cercando di stare nell’umile, drammatica realtà dell’uomo, essere animato dallo Spirito di Dio, sul cui senso è oggi più che mai urgente interrogarsi per poterlo contemplare con quello stesso sguardo divino capace di stupore, come in principio. Uno sguardo che ci permette di esclamare che l’uomo è ancora cosa molto buona. Così come è stato plasmato. Così, come è.
[1] Un chiaro esempio di questo è la chirurgia estetica.
[2] Si pensi, a tal proposito, alla selezione degli embrioni “migliori” attraverso la diagnosi preimpianto utilizzata per la fecondazione artificiale
[3] https://www.wired.it/ai-intelligenza-artificiale/storie/2017/04/14/neil-harbisson-uomo-cyborg/.
[4] http://www.lastampa.it/2017/03/31/tecnologia/intervista-al-professor-david-orban-i-cinque-sensi-non-ci-bastano-pi-mdA34WDfIC22AhyJ9VKe7N/pagina.html.
[5] M. SANDEL, (2007), The Case Against Perfection. Ethics in the Age of Genetic Engineering, Belknap, Harvard University Press, Cambridge; tr. it. di S. Galli, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e pensiero, Milano, 55.
[6] Cfr., ad es., SAVULESCU J., KAHANE G. (2009), The moral obligation to create children with the best chance of the best life, in “Bioethics”, 23(5), 274-290.
[7] J. SAVULESCU, N. BOSTROM (eds), Human Enhancement, Oxford University Press (2009).
[8] M. SANDEL, (2007), Contro la perfezione, 89.
[9] F. HADJADI: Ultime notizie dall’uomo e dalla donna. Cronache di una fine annunciata, Ares (2018).