Popolo territorio proprietà moneta dalle origini alla sovranità del mercato

Oggi sembra una legge di natura l’impossibilità di dominare i processi, ma nella storia non è stato affatto così

Paolo Maddalena

Pubblichiamo la prima parte di un saggio sulla crisi della globalizzazione e i modi per uscirne di Paolo Maddalena, già vice-presidente della Corte Costituzionale e uno dei maggiori protagonisti della battaglia per l’attuazione della Costituzione

E’ diffusa nell’immaginario collettivo l’idea che la nostra epoca è caratterizzata dalla “globalizzazione”, ma si tratta di una idea ancora confusa e imprecisa, alla quale, tuttavia, si attribuisce un senso di necessarietà e quasi di fatalismo: essa è concepita come un “dato” indiscutibile intorno al quale dovrebbe ridisegnarsi la nuova struttura dell’economia e, in ultima analisi, delle società nelle quali viviamo.

  1. – L’orizzonte culturale in cui viviamo.

Vedremo di cosa in realtà si tratta. Ma intanto appare utile precisare che molti neoliberisti sostenitori della globalizzazione sono ora scettici sui suoi vantaggi e che lo stesso premio Nobel per l’economia, Stiglitz[1], uno dei primi sostenitori di questa nuova visione del mondo, ha riveduto e capovolto il suo pensiero, ponendo bene in chiaro che la globalizzazione è stata considerata in una prospettiva errata e che i danni sociali ed economici che questa ha prodotto, specie sotto il profilo della disoccupazione, sono pesanti e insostenibili per lo stesso nostro vivere civile.

Il problema è talmente grave ed importante che deve essere studiato nelle sue radici: si tratta in effetti di porre come oggetto di riflessione un vero e proprio “cambiamento epocale”, che ha travolto il nostro tradizionale modo di pensare e ci ha proiettati in una direzione tutt’altro che definita. La facilità delle telecomunicazioni, degli spostamenti da un luogo ad un altro, dell’essere informati in tempo reale di qualsiasi cosa accada anche nei posti più remoti del mondo, hanno offuscato lo stesso concetto di “confine”, che sinora aveva costituito, per così dire, anche lo spazio di dominio dei nostri convincimenti e delle nostre aspirazioni, per cui lo stato d’animo oggi imperante è quello di un totale “smarrimento”, nel quale tutto appare possibile e nel contempo difficile da raggiungere, poiché se è vero che la tecnologia ha fatto passi da giganti e l’orizzonte del sapere umano si è profondamente allargato, è anche vero che il nostro campo di affermazione rimane limitato dalle nostre reali capacità. A questo punto, sembra che l’uomo si sia ripiegato su se medesimo e che, preso atto della propria incapacità di governare se stesso e ciò che lo circonda, cominci a disinteressarsi anche del quotidiano, di quanto accade in politica, nell’economia e nel sociale, ritenendo che il bello e il buono coincida con il “nuovo”, anche se questo nuovo appare, ad una attenta riflessione, come un scatola vuota, che lascia, ovviamente, il vuoto in chi la percepisce. E’ per questo che in filosofia si parla di “pensiero debole”, in diritto si parla di “diritto debole” e nelle comunicazioni prevale, per così dire, la “rappresentazione debole”, declinata poi in “teatrino”, quando si parla di politica.

In sostanza, assistiamo ad una “fuga dal concreto verso l’astratto” e persino in economia, la più concreta delle realtà, si è tramutato lo “scambio reale di beni e servizi” in “scommesse” che comportano per il vincitore l’acquisto, non di un bene reale, ma di taluni diritti astratti, che altro non sono, come ricorda il Gallino, delle “promesse di beni”. Basti pensare alla “cartolarizzazione dei diritti di credito”, alla “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, ai “derivati”, ai “project bond” e altre simili fantasticherie, delle quali in seguito parleremo.

In questo stato di cose, è ovvio che si dilegua lo stesso “concetto di Stato” e che al posto dello Stato assume sempre maggiore potere la “finanza”, e cioè le “multinazionali”, che sovente provengono dalla “fusione” di più imprese, e le “banche”, le quali si sono quasi completamente sostituite allo Stato nella “creazione del danaro dal nulla”. La prospettiva è, così, quella di un mondo nel quale la “sovranità” spetta al “mercato”, cioè all’azione delle summenzionate multinazionali e banche, mentre principio costituzionale inderogabile diventa Il “pareggio di bilancio” e l’uomo, se non riesce ad essere “autoimprenditore”, non può altrimenti essere concepito se non come “uomo merce”, il cui lavoro, ovviamente, deve costare il minimo possibile, con buona pace di quanto dispongono i vigenti articoli 4, 36 e 38 della Costituzione.

  1. – La Comunità politica nella Storia: proprietà privata e proprietà collettiva.

Volendo indagare a fondo la situazione nella quale versano le nostre società sotto gli aspetti ordinamentale ed economico, è indispensabile volgere per un momento l’occhio al passato e riflettere, sia pur fugacemente, sulle origini della “Comunità politica” o “Stato”, che dir si voglia.

Quando esisteva soltanto l’“uomo branco” (pochi individui che vivevano di caccia e combattevano altri pochi individui), non si poteva parlare di civiltà e tanto meno di economia. La civiltà, nessuno può negarlo, nasce circa diecimila anni fa con l’insediamento di aggregati umani su terreni delimitati da confini, entro i quali si cominciarono a rispettare delle regole comuni e a dar vita così alle prime “città-Stato”.

E’ molto importante sottolineare che la creazione di queste Comunità dette luogo al nascere di tre fondamentali concetti giuridici, che tuttora si ricordano a proposito della costituzione degli Stati; il “Popolo”, il “territorio”, la “sovranità”.

Il “Popolo” è costituito dall’aggregato umano che si riconosce come aggregato unitario e permanente nel tempo, ritenendosi inoltre (e questo è un dato di grandissima importanza) che ciascun individuo, cioè ciascun cittadino, è da considerare “parte” dell’intera Comunità, con la conseguenza che il singolo può agire in giudizio, nello stesso momento, per sé e per l’intera popolazione, senza far ricorso al concetto di “rappresentanza”. Si ricordi, come del resto è noto, che gli antichi Romani usavano “l’actio popularis”, una azione giudiziaria che tutelava sia gli interessi del singolo, sia gli interessi di tutti, e potevano chiedere al Praetor anche un “interdictum populare”, un provvedimento d’urgenza che poteva essere “prohibitorium” o “restitutorium”, e che giovava nello stesso tempo al singolo e all’intera Comunità.

Il “territorio” è costituito dai terreni compresi entro i confini della città ed è “proprietà collettiva” del Popolo. La denominazione territorio viene da due parole: terrae torus, letto di terra, ed esprime bene di qual natura era considerato il rapporto di proprietà collettiva tra il popolo e il territorio, un rapporto di cura e di tutela (analogo a quello che si ha per il proprio letto), poiché è sul territorio che si dorme, si vive e si agisce, ed è dal territorio che provengono i mezzi di sussistenza. E’ di grande utilità, peraltro, porre in evidenza che, nelle visuali più moderne e avanzate, il territorio è considerato nel suo aspetto dinamico ed onnicomprensivo e comprende, non solo il suolo, come ci si era abituati a pensare, ma tutto ciò che esiste sul suolo e nel sottosuolo, nonché tutte le attività, agricole, industriali, edilizie, ecc., compresi i servizi che sul territorio si svolgono. E’ a questa concezione del territorio che faremo riferimento nel seguito della trattazione.

La “sovranità” è la somma dei poteri necessari a dettare le regole del vivere civile (la parola “civile” viene da “civitas”, “civis”), e cioè l’”ordinamento giuridico”. Essa, a Roma, benché esistesse il rex, è appartenuta, sin dalle origini, al Popolo e precisamente ai “Patres familiarum”, mentre il re era soltanto colui che dichiarava a tutti le decisioni adottate dai Patres. Il nome di lex, legge, proviene da “lego”, che significa “dire”. E’ importante ricordare che a Roma, come ha da tempo dimostrato il Niebuhr[2], la “proprietà collettiva” ha preceduto di gran lunga la “proprietà privata”, le cui origini risalgono al “dominium ex iure Quiritium”, che vide la luce, dopo una lunga e tormentata riflessione giurisprudenziale, solo agli albori del primo secolo a. C. E’ da sottolineare inoltre che una vaga forma di proprietà privata, chiamata “mancipium”, si ottenne nella Roma arcaica con la “divisio” dell’“ager publicus” da parte del Re Numa Pompilio, che conferì ai Patres familias una parte minima (si trattò di due iugeri a testa, e cioè di circa mezzo ettaro) dell’intero territorio romano. Molto più consistenti assegnazioni di terra avvennero tuttavia a partire dal V secolo a. C. a seguito delle conquiste man mano maturatesi, assegnazioni che venivano effettuate con il cerimoniale della “divisio et adsignatio agrorum” e dopo l’approvazione di una “lex centuriata” o di un “plebiscitum”. Il che conferma molto significativamente che il territorio apparteneva al Popolo e che per le “cessioni” ai privati, occorreva una espressa dichiarazione di volontà del Popolo stesso.

Si deve soggiungere che nell’antica Roma i beni immobili, oggetto di quel potere indifferenziato detto “mancipium”, raramente erano messi in commercio tramite la cosiddetta “mancipatio”, e che commerciabili erano normalmente le “res nec mancipi”, le cose mobili che non erano oggetto di “mancipium”, ma semplicemente di “possessio”, per cui erano trasferibili mediante la “traditio”, cioè la “consegna” dell’oggetto stesso. Resta il fatto, comunque, che lo scambio dei beni mobili, sia pure in forma limitata, sorse con lo stesso sorgere della Comunità politica e nella primitiva forma del baratto, che spesso avveniva dando in cambio di una cosa una pecora, da cui il nome di “pecunia” con il quale fu poi denominato il danaro.

I tre elementi di cui si compone la Comunità politica, come agevolmente si nota, sono strettamente interconnessi e questa “interconnessione” è indispensabile per il regolare svolgersi della vita civile. Si pensi, in proposito, che la stessa “appartenenza” del “territorio” rientra nel contenuto della “sovranità”, per cui il Popolo, che è “sovrano”, è anche il “proprietario collettivo” del territorio. Questo collegamento tra titolare della sovranità e territorio si è mantenuto nei secoli, considerato che nel medio evo, quando la sovranità si spostò dal Popolo al Sovrano, anche il territorio divenne “bene patrimoniale” del sovrano e si distinse tra un “dominium utile” del coltivatore diretto e un “dominium eminens” del Sovrano, il quale riacquistava la piena proprietà del bene qualora venisse meno il dominio utile dell’agricoltore. Il rapporto sovranità-territorio venne meno con la riforma restauratrice di Napoleone, che affidò la compilazione del code civil del 1804 al Tomalis, il quale diresse i lavori secondo il principio “l’imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. Fu un gravissimo errore, poiché il territorio fu distolto dal fine fondamentale di giovare a tutti e finì per essere soggetto al volere dei singoli proprietari privati, mentre lo stesso diritto di “proprietà privata” ebbe il sopravvento sulla “proprietà collettiva” del Popolo, come dimostra la cultura giuridica borghese ancora oggi persistente. La nostra Costituzione, tuttavia, ha riportato il territorio nel dominio del Popolo, statuendo che “la proprietà è pubblica e privata” (ci sono cioè due forme di proprietà: una che appartiene soltanto al Popolo, la “proprietà collettiva demaniale”, e l’altra che può appartenere indistintamente allo Stato a enti o a privati, la “proprietà privata”, come precisa il primo comma dell’art. 42 Cost.). E che la proprietà privata derivi per “cessione” da parte del Popolo di appezzamenti di “proprietà collettiva” è dimostrato dal secondo comma dello stesso art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà privata …. è riconosciuta e garantita dalla legge (cioè dalla volontà del Popolo), allo scopo di assicurarne la funzione sociale”: in sostanza, si cede la proprietà privata a condizione che sia mantenuta la “funzione sociale del bene”, con l’ineliminabile conseguenza che il mancato adempimento di questo che il Pugliatti[3] considerava un vero e proprio “ufficio” (il che si verifica con il licenziamento degli operai, la delocalizzazione, ecc.), fa venir meno anche la tutela giuridica della stessa proprietà privata e il bene torna da dove era venuto, cioè nella proprietà collettiva del Popolo sovrano.

Insomma la nostra vigente Costituzione repubblicana pone il principio fondamentale secondo il quale i beni, e in primis il territorio, devono giovare a tutti, secondo il principio già enunciato da Ermogeniano (D. 1. 5. 2) secondo il quale “hominum causa omne ius constitutum est”, tutto il diritto, e cioè l’ordinamento giuridico posto in essere dal titolare della sovranità, deve servire al bene comune di tutti gli uomini.

E fondamentale appare a questo proposito la distinzione di cui parla Gaio (Gai Inst. “2. 11) tra le cose in commercio e quelle extra commercio: “Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse: ipsius enim universitatis esse creduntur. Privatae sunt quae singulorum hominum sunt”, le cose che sono pubbliche appartengono a tutti, quelle private appartengono ai singoli. Ed è imbarazzante dover ricordare che ancor oggi si continua a credere nell’autonoma categoria delle “res nullius”, concetto del tutto estraneo al pensiero gaiano, il quale, esprimendo la concretezza del pensiero giuridico dei giureconsulti del tempo, certamente non poteva pensare che una cosa “appartenesse a nessuno”!

Il prevalere dell’interesse privato su quello generale ha ristretto di molto, come tutti sanno, il concetto di proprietà pubblica, identificata oramai con la sola “proprietà collettiva demaniale”, la quale, proprio per essere nella proprietà di tutti è “inalienabile, inusucapibile e inespropriabile”, anche se un decreto legislativo, sicuramente incostituzionale, il decreto n. 85 del 28 maggio 2010, denominato “federalismo demaniale”, prevede, addirittura, l’alienabilità anche dei demani idrico, marittimo, minerario e culturale.

Questa fugace storia della “Comunità politica”, e in sostanza dell’evoluzione della nostra civiltà, pone in evidenza che, per un verso, l’economia sorge con il sorgere della stessa Comunità politica, e, per altro verso, che il “diritto” ha sempre prevalso sulla “economia”, fino al punto di distinguere i beni in commercio da quelli fuori commercio, dai beni cioè che assicurano per loro natura il soddisfacimento dei bisogni primari dell’uomo e che oggi sono denominati “beni demaniali”. Ed è da sottolineare a questo riguardo che i Giureconsulti Romani erano arrivati anche a indicare i beni comuni più importanti. Ce ne dà notizia Marciano, giurista del terzo secolo dopo Cristo, affermando “Et quidem naturali iure omnium communis sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris” (D: 1. 8. 2. 1). Sono “beni comuni”, cioè sono beni in proprietà collettiva “naturale” di tutti gli uomini: l’aria, l’acqua corrente, il mare e i lidi del mare”. E si ricordi che la parola “communis” significa “cum” “munus”, e che quest’ultima parola ha due significati: quello di “funzione doverosa” e quella di “dono”, per cui si può dire che è “comune” la cosa che, appartenendo gratuitamente a tutti, è doverosamente usata e scambiata da parte di tutti in modo che possa assicurarsi il pari uso da parte di ciascuno: in sostanza, “un dono che si scambia”.

Per quanto poi riguarda i “beni commerciabili”, posto che il “benessere dell’uomo” costituisce il fondamentale fine da perseguire, vengono in rilievo, sia il Popolo, sia il Territorio, o, se si preferisce, le “risorse della terra” da un lato, e il “lavoro dell’uomo” dall’altro. Si tratta dei due fondamentali “fattori produttivi” sui quali si fonda “l’economia reale” e, quindi, il progresso della società. Ed è da rimarcare che fra di loro c’è un legame inestricabile per cui non si può parlare dell’uno senza parlare dell’altro. Come presto vedremo, parlando in puri termini costituzionali, non è possibile tutelare il “diritto al lavoro”, se prima non si pongono “limiti” alla “libertà economica” e al “diritto di proprietà privata”. Non sfugge, infatti che se questi ultimi sono illimitati, il diritto al lavoro, come del resto è avvenuto, diventa indifendibile sul piano giuridico.

  1. – La moneta nella Storia e al giorno d’oggi.

Sorge in evidenza, a questo punto, la rilevanza del “commercio”, e quindi della “moneta”, la quale è conosciuta sin dall’antichità, ma non ha mai avuto tanta importanza come oggi, di fronte al fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati” e alla necessità, da più parti proclamata, di un ritorno all’”economia reale”.

La moneta è un “mezzo di scambio” dei “beni economici” (cioè commerciabili) “reali” e non importa se ha un valore intrinseco, come le monete di oro o di argento, o è priva di tale valore, come è la moneta cartacea o, come si usa oggi, un “bip” sul computer. Essa è sostanzialmente una “convenzione”, e quello che conta è che tale convenzione sia accettata da tutti, come avviene nel caso delle monete cartacee a corso legale, per le quali si parla, come avverte Gallino, di “moneta piena”, proprio perché si tratta di una moneta accettata da chiunque. Seguendo lo stesso principio, si possono avere anche monete cosiddette “parallele” o “complementari”, le quali presuppongono l’individuazione di un certo numero di aderenti che accettino convenzionalmente il loro l’impiego.

Quello che più interessa, comunque, è che la moneta costituisca il corrispettivo della reale ricchezza nazionale ad essa sottostante, e sia di una quantità sufficiente per soddisfare le esigenze del commercio. Ed è questo il compito fondamentale delle Banche Centrali, alle quali è affidata, per l’appunto, la delicata funzione di mantenere un fermo equilibrio tra il valore dei beni in commercio e la quantità della moneta necessaria alla loro circolazione, in modo da tenere a bada, usando la cosiddetta “leva monetaria”, il grave e dannoso effetto dell’l’inflazione, e di favorire al tempo stesso l’espansione della ricchezza nazionale attraverso consumi, investimenti e spesa pubblica.

E’ da porre nel dovuto risalto, a questo punto, che la moneta dovrebbe essere emessa direttamente dallo Stato o dalla Banca centrale per conto dello Stato (e non presa a prestito dalla BCE), e che essa, in quanto corrispondente alla reale ricchezza nazionale sottostante, è proprietà collettiva del Popolo e va distribuita in modo che possa circolare tra i cittadini, secondo il fondamentale principio di eguaglianza, sancito dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, secondo il quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Paolo Maddalena

1 – continua

[1]J. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Ed. Einaudi, Torino 2006.

[2] B. G. Niebuhr, Romische Geschichte, Berlin 1811, I, p. 245 ss. 4

[3] S.Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Ed. Giuffrè, Milano 1954, p. 276.

 

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