PRIMI MATERIALI PER L’ASSEMBLEA DEL 2 DICEMBRE
Il MA di papa Francesco dopo quale storia della chiesa
Gli interventi di papa Francesco propongono, fin dall’inizio del pontificato, un riorientamento di atteggiamenti che si sono sedimentati nella chiesa cattolica nel corso di una storia bimillenaria. Si tratta di una sollecitazione a misurare comportamenti individuali e collettivi ereditati dal passato alla luce di un principio fondamentale: riletto nel contesto del mondo attuale, il Vangelo ha nella misericordia il suo nucleo essenziale e costitutivo. E’ evidente che tale ottica comporta un riesame complessivo cui ben pochi aspetti del retaggio accumulato dal tempo nella vita del credente possono sottrarsi. Risulta perciò inevitabilmente arbitrario scegliere nella lunga vicenda della chiesa cattolica qualche elemento rispetto al quale l’insegnamento papale marca una differenziazione.
Prima di provare ad affrontare l’argomento, occorre però notare un dato, solo apparentemente secondario, che già consente di apprezzare la novità di papa Francesco. Nella pratica della Storia della chiesa, come moderna disciplina critica, la libertà dell’indagine – uno dei presupposti fondamentali della ricerca – era stata sottoposta al controllo di chi nella chiesa deteneva la responsabilità di governo anche senza aver mai praticato il lavoro scientifico. La repressione antimodernista aveva segnato l’acme di tale indirizzo. Nella visione di Francesco il giudizio morale e giudizio storico, invece, hanno i loro propri ambiti, frutto del riconoscimento della rispettiva indipendenza di percorsi.
Fatta questa premessa, provo ad identificare nel secondo millennio della storia cristiana, alcuni momenti che mi pare abbiano determinato nella comunità ecclesiale effetti significativi e duraturi sui quali le indicazioni di Francesco implicano una trasformazione tale da prospettare l’avvio di nuovo cammino:
1. La riforma gregoriana dell’undicesimo presenta il papa come signore della chiesa su cui esercita un potere personale assoluto, illimitato e universale. A seguito della costatazione che la centralizzazione romana nel governo della chiesa universale ha costituito un ostacolo alla dinamica missionaria della chiesa, rendendola inadeguata allo spazio e al tempo in cui operava, il papa non solo ricorda che occorre attribuire alle conferenze episcopali una “autentica autorità dottrinale”, ma avvia anche un’ecclesiologia di comunione che coinvolga tutto il popolo di Dio nel suo governo.
2. Il Concilio di Trento ridefinisce, in polemica con i protestanti, i tratti dell’identità cattolica attraverso decreti la cui formula conclusiva suona anathema sit per chi non aderisce alle concezioni in essi espresse. Francesco, invece, non solo sottolinea che la diversità fra cristiani non è un limite, ma una ricchezza; aggiunge anche che tutte le chiese sono chiamate ad un continuo processo di riforma alla luce di una migliore comprensione del messaggio di Cristo, di cui nessuno può rivendicare un pieno possesso, ma la cui intelligenza si approfondisce nella storia col contributo di tutti.
3. A partire da Pio IX il magistero papale ha fatto della cultura intransigente il criterio del rapporto tra cattolicesimo e mondo moderno. Essa si basa sul presupposto che, possedendo la chiesa la verità non solo religiosa, ma anche politica e sociale, la pretesa dell’uomo moderno di autodeterminare le forme organizzative della vita collettiva costituisce una minaccia mortale alla sua presenza nella società. Alla volontà dei contemporanei di costruire, in piena autonomia, la loro storia, Francesco non contrappone la richiesta di subordinazione alle corrette regole della convivenza elaborate dal magistero, propone invece una chiesa che offre un aiuto ai mali, alle ferite, ai dolori che essi incontrano nel loro libero percorso: la figura dell’”ospedale da campo” si sostituisce a quella della “cittadella assediata”.
Schema della relazione di Giuseppe Ruggieri
Il MA del Vangelo nella sofferenza del mondo
1. La novità rappresentata da papa Francesco sta tutta nella centralità del vangelo, che non è identico alla dottrina e alla disciplina della chiesa, ma è la stessa forza dell’amore di Dio che esplica la sua energia nel cuore dei credenti.
2. Questo vangelo ha come destinatari privilegiati i sofferenti a qualunque titolo, perché esclusi, perché poveri, perché malati, tutti coloro cioè che sono sotto il dominio del male. Il primo movimento del vangelo, della comunicazione dell’amore di Dio, non è la purificazione dal male. Questa è secondaria, è la risposta umana al movimento di Dio, il quale ci ama mentre siamo ancora peccatori. Il mistero del vangelo è ben descritto nel testo paolino di 2 Cor 5, 17-21 che gira tutto attorno a questo primo movimento di Dio attraverso Gesù: 17 Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha scambiati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero dello scambio. 19 Era Dio infatti che scambiava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola dello scambio. 20 In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi scambiare con Dio. 21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.”
3. Il vangelo manifesta la sua forza solo se diventa comandamento concreto, vincolante per l’uomo e la donna che lo hanno accolto nel loro cuore. Ma diventa questo comandamento solo se viene arrischiato nella libertà e nella storia concreta vissuta dai credenti. Per questo occorre che questa realtà concreta sia effettivamente conosciuta e interpretata alla luce del vangelo. Bonhoeffer affermava che la conoscenza della realtà è “il sacramento del comandamento”, cioè del vangelo che diventa vincolante e dà origine all’azione. Ma questa non è la lettura che ogni sociologo sa fare sui segni che caratterizzano un’epoca rispetto alle altre, bensì è la realtà umana assunta dentro il movimento dello “scambio” con il quale, come Gesù, ci si carica del peccato e delle contraddizioni della storia. La grammatica che deve guidare in questa lettura è quella delle Beatitudini, che ci trasmettono la maniera con la quale il Padre di Gesù guarda il mondo degli uomini.
4. Il vangelo non è rivolto solo ai cristiani e alle chiese, ma ad ogni uomo e a ogni donna che si vogliono caricare del peso della storia attuale, con tutte le contraddizioni e i drammi che la caratterizzano. Questo spiega perché, quando il vangelo viene effettivamente annunciato, allora tutti gli uomini ne percepiscono il significato, anche quando lo rifiutano. Questo è quanto sperimentiamo adesso con papa Francesco, così come i più vecchi di noi sperimentarono con papa Giovanni XXIII. Allora le formule dentro cui le chiese riassumono la loro dottrina e la loro disciplina non sono neutrali rispetto alla situazione storica nella quale esse vengono formulate. Nella misura in cui esse pretendono di trasmettere il vangelo, esse devono diventare anche prese di posizione, comandamento concretissimo avrebbe detto Bonhoeffer. Credo che sia questo il senso ultimo dell’invito di papa Francesco: puzzare di pecora, in maniera tale che le pecore perdute sentano e riconoscano la voce del vangelo.
Una pagina dal libro in uscita di Luigi Ferrajoli (editore Laterza)
Persone senza diritti: i migranti
- L’immigrazione oggi: due novità rispetto al passato
La violazione più drammatica del principio di uguaglianza, in entrambe le sue dimensioni, è oggi, indubbiamente, il trattamento cui le nostre democrazie sottopongono i migranti. Costretti a fuggire dalle guerre, dalla fame e dalle disuguaglianze sostanziali provocate in gran parte dalle nostre politiche, presenti e passate, costoro incontrano, nei nostri paesi, le discriminazioni delle loro differenze personali legate al loro status di stranieri. Certamente il fenomeno migratorio non è nuovo. Sempre il proletariato è stato formato dai diversi flussi migratori: dall’emigrazione dalle campagne alle città nell’Inghilterra del Settecento e del primo Ottocento; dall’emigrazione irlandese e italiana negli Stati Uniti e nell’America Latina tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento; da quella dal Sud al Nord dell’Italia nel nostro secondo dopoguerra. Sempre i nuovi venuti sono stati oggetto di discriminazioni, di soprusi e di sfruttamento e messi in concorrenza con il vecchio proletariato, volta a volta mobilitato contro di loro da spinte e sentimenti xenofobi e razzisti. L’emigrazione odierna, tuttavia, presenta due drammatiche novità.
La prima novità consiste nella messa fuori legge e perciò nella clandestinizzazione e nella penalizzazione dell’immigrazione irregolare. Questa pesante discriminazione rischia di compromettere, ben più di qualunque altro fenomeno migratorio del passato, l’identità democratica dei nostri paesi. Si è infatti creata una nuova, assurda figura sociale dalla quale questa identità è vistosamente contraddetta: quella della persona illegale, fuori-legge in quanto persona, priva di diritti perché giuridicamente invisibile e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione e sfruttamento; destinata a identificare un nuovo proletariato, discriminato giuridicamenpte e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente; in contraddizione, perciò, con l’articolo 1 della Costituzione italiana, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e quindi anche sul lavoro, oggi il più duro e il più sfruttato, degli immigrati.
La seconda novità è data dalle dimensioni di massa del fenomeno, dovuta alle sue ragioni più che mai terribilmente vitali. L’emigrazione non è più, come in passato, all’interno dell’Occidente, ma dai paesi del sud del mondo, dapprima colonizzati e depredati e poi impoveriti e devastati dalla globalizzazione senza regole. Soprattutto, essa è un effetto dell’esplosione delle disuguaglianze globali più sopra ricordate, della miseria crescente e senza speranza, delle guerre, della fame e talora delle persecuzioni, quale fuga di massa dettata dalla necessità della sopravvivenza. Qualunque riflessione e qualunque politica razionale in materia di immigrazione dovrebbe perciò muovere dal riconoscimento di un dato di fatto irreversibile, frutto dell’iniquo assetto economico del pianeta: il fenomeno migratorio non è un’emergenza, ma un fatto strutturale e inarrestabile, che coinvolge ormai centinaia di milioni di persone, è in crescita costante ed è destinato a svilupparsi indefinitamente. Attualmente, secondo i dati relativi alla fine del 2015, i migranti nel mondo sono 244 milioni (il 41% in più rispetto al 2000). In Italia sono 5.800.000, quasi il 10% della popolazione (tre volte di più rispetto al 2000); in Germania sono ben 12 milioni e 9 milioni nel Regno Unito. In Europa sono 76 milioni (erano 56 milioni nel 2000) e negli Stati Uniti sono 47 milioni. Ben 65 milioni di persone – una persona su 113, in maggioranza bambini – sono state, solo nel 2015, costrette alla fuga.
- Una contraddizione alle origini della civiltà giuridica europea: lo ius migrandi come diritto universale e asimmetrico
Si capisce che se prevarranno le attuali politiche di esclusione, non certo in grado di limitare il fenomeno ma solo di clandestinizzarlo e drammatizzarlo, l’Occidente rischia il crollo della credibilità di tutti i suoi conclamati valori. L’Europa, in particolare, non sarà più – non è più – l’Europa civile della solidarietà, dello stato sociale inclusivo, delle garanzie dell’uguaglianza e della dignità delle persone, bensì l’Europa dei muri, dei fili spinati, delle disuguaglianze per nascita e dei conflitti razziali. Sta infatti vivendo una duplice contraddizione: in primo luogo la contraddizione delle pratiche di esclusione dei migranti quali non-persone con i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; in secondo luogo la contraddizione tra la proclamata liberalizzazione della circolazione delle merci e dei capitali e la negazione, al contrario, della libera circolazione delle persone, pur teorizzata dalla filosofia politica occidentale alle origini dell’età moderna.
Per comprendere in tutta la loro gravità queste contraddizioni e i loro effetti perversi nella formazione della pubblica opinione, è utile andare indietro nel tempo: alla concezione originaria, agli inizi dell’età moderna, del fenomeno migratorio quando fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto naturale universale e, insieme, come il fondamento del nascente diritto internazionale[1]. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una grandiosa concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale[2] e all’universale titolarità, oltre che dello ius migrandi, dello “ius communicationis ac societatis”, cioè del diritto di tutti di comunicare con tutti, dello “ius commercii”, dello “ius praedicandi et annuntiandi Evangelium”, dello “ius peregrinandi in illas provincias et illic degendi” e ivi “accipere domicilium”[3]. Sul piano pratico essa era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, in forza del principio vim vi repellere licet, ove all’esercizio di quegli edificanti diritti fosse stata opposta illegittima resistenza[4]. E la medesima funzione fu svolta da questo diritto nei quattro secoli successivi, allorché servì a legittimare la colonizzazione del pianeta da parte delle potenze europee e le loro politiche di rapina e di sfruttamento.
[1] F. de Vitoria, De indis recenter inventis relectio prior (1539), in Id., De indis et de iure belli relectiones. Relectiones theologicae XII, a cura di E. Nys, Oceana, New York 1964, sect. III, 1, p. 257: “Parlerò ora dei titoli legittimi e pertinenti in forza dei quali è stato possibile sottoporre gli indigeni all’autorità degli Spagnoli: 1. Il primo titolo è il principio che possiamo chiamare della naturale socialità e comunicazione tra gli uomini.- 2. Se ne può trarre una prima conseguenza: gli Spagnoli hanno il diritto di circolare in quei territori e di stabilirvisi, senza però procurar danno agli indigeni, i quali non possono opporvisi”.
[2] Dal principio della “naturale socialità e comunicazione tra gli uomini” consegue che “‘per diritto naturale ci sono beni comuni, come l’acqua corrente, il mare, i fiumi e i porti, presso i quali, da qualunque parte provengano, è permesso alle navi, in base al diritto delle genti, di approdare’ (Inst., De rerum divisione). Si tratta infatti di beni di pubblica utilità. Per questo non è consentito a nessuno privare taluno del loro godimento. Ne deriva che gli indigeni recherebbero offesa agli Spagnoli se vietassero loro l’accesso ai loro territori” (ivi, 2, prob. 10, pp. 257-258).
[3] F. de Vitoria, De indis recenter inventis cit., III, pp. 257-263.
[4] “Ne consegue che i barbari recherebbero offesa agli Spagnoli, se impedissero loro l’esercizio delle loro ragioni” (ibid.). “Se poi i barbari volessero proibire agli Spagnoli l’esercizio dei suddetti diritti, come per esempio l’esercizio del diritto di commercio, allora gli Spagnoli dovranno dapprima, con la ragione e la persuasione, manifestare scandalo e mostrare che non sono venuti per nuocere ma per essere pacificamente ospitati e per circolare […] Dopodiché, esposte queste ragioni, se i barbari non le dovessero accettare ma reagissero con violenza, allora gli Spagnoli ben potranno difendersi e fare tutto ciò che conviene alla loro sicurezza, dato che vim vi repellere licet. Non solo. Potranno altresì, se non ci saranno altri modi per tutelarsi, armarsi e respingere le offese con la guerra” (ivi, sect. III, 6, p .260). Rinvio, su questa edificante costruzione, al mio La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari 1997, cap. I.
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