PROFESSIONE TEOLOGO O PESCATORE?
La figura del papa nella Chiesa
PROFESSIONE TEOLOGO O PESCATORE?
La mitizzazione del papato nel secondo millennio cristiano ha anchilosato la Chiesa e ne ha contrastato la vocazione al rinnovamento. Il mito, sopravvissuto anche come dramma in eminenti papi del Novecento, è stato alfine rimosso da papa Benedetto XVI. La riforma di papa Francesco comincia da qui, non è della teologia ma della vita
Raniero La Valle
Gli arruolati a tempo pieno al partito antipapista hanno preso molto male la testimonianza dell’ex papa Benedetto a sostegno di papa Francesco, con tanto di riconoscimento della sua sapienza teologica e della continuità del suo pontificato con quello precedente. Così hanno cercato di distruggerne il significato, svelando che nella lettera in cui Ratzinger si compiaceva per l’iniziativa della Libreria Editrice Vaticana che aveva pubblicato una collana di commenti sui primi cinque anni dell’attuale pontificato, c’era anche una riserva per uno dei teologi che vi aveva collaborato. In realtà per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto del vecchio papa di prendere le parti o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio.
Piuttosto c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di posizione dell’ex papa, ha avuto il merito di portare alla ribalta, come oggetto di riflessione nella Chiesa, la natura stessa del papato, anche al di là del giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato. Riforma ormai matura nella coscienza della Chiesa, come doveva risultare nel Conclave che ha eletto Bergoglio e come doveva annunciare lo stesso papa Francesco nel programma del suo pontificato, la “Evangelii Gaudium”, in cui al n. 32 scriveva: “Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato”, e come doveva ripetere il 17 ottobre 2015 nel discorso per il cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo, dicendo che la Chiesa è una piramide capovolta, dove il vertice si trova al di sotto della base.
L’ostacolo a questa riforma era però che nel corso del secondo millennio cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di Dio. La mia generazione ne ha visto il culmine nella figura ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni XXIII, la mitizzazione è giunta ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Ma è in Paolo VI che il mito giunse alla sua massima crisi. Egli se ne era fatto custode, quando al Vaticano II aveva imposto (e aggiunto in via “previa”) una sua interpretazione restrittiva al documento conciliare sulla collegialità episcopale, per toglierne qualsiasi ombra che potesse minacciare di offuscare la dottrina del primato e scolorire la figura del papa; e il 1 settembre 1966 in una sosta ad Anagni dove Bonifacio VIII aveva ricevuto il mitico schiaffo francese, rivendicò i meriti di quel papa “che più degli altri aveva affermato la più piena e solenne autorità pontificia” nel quadro concettuale “dei due poteri, uno spirituale l’altro temporale” disposti però su una “scala dei valori” per cui lo spirituale doveva “condizionare gli altri valori umani”, e infine interpellò i fedeli così: “Questa comunità (la Chiesa) è organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia. Figlioli miei, è la Gerarchia che vi sta parlando, è il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi… Posso domandarvi, figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa, amate il Papa, perché senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore. Non guardate a noi, guardate il Signore di cui rappresentiamo…”, e la frase non finì per gli applausi. Ed è certamente per la forte coscienza di questa rappresentanza ricapitolata in lui che papa Montini compì i suoi gesti più estremi, come la Humanae Vitae, disattesa dalla Chiesa, o la decapitazione e riduzione al silenzio della Chiesa di Bologna.
Ma il mito si rovescia in tragedia quando Aldo Moro, nonostante la supplica montiniana alle Brigate Rosse che lo hanno rapito, viene ucciso. E nella preghiera agli agghiaccianti funerali di Stato che Moro aveva detto di non volere, Paolo VI si mostra sgomento perché lo scambio con Dio non ha funzionato, e lo interpella con un lamento che assomiglia più al “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” di Gesù, che alle rimostranze di Giona a Dio che si era pentito di voler distruggere NInive e non l’aveva distrutta. In tale lamento Paolo VI rompe nel grido e nel pianto il sigillo “dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente – dice – soffoca la nostra voce”, e si duole, quasi incredulo, con Dio: “Tu, o Dio della vita e della morte, Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, quest’uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”; e tanto ne fu il dolore, che dopo pochi mesi Paolo VI morì.
E infine giunge Benedetto XVI, “il papa teologo”, che pone soavemente l’atto più eversivo del mito, con le sue dimissioni da papa, demitizzando in tal modo il papato. E proprio da lì comincia la riforma della Chiesa.
Ma in quale direzione? La disputa intorno alla lettera di Ratzinger su Bergoglio si è svolta come se la discussione vertesse sul tasso di teologia dei papi: Ratzinger legittimato come papa teologo venuto dalle cattedre della dotta Europa ma poco esperto in umanità, Bergoglio fuori posto come papa ma atto a comprendere la concretezza della vita cristiana, venuto dalle strade della fine del mondo; disputa che Ratzinger risolve dicendo che né lui è un teorico senza umanità concreta, né Francesco è un uomo pratico senza teologia. Ma l’errore di questa disputa sta nel presupposto secondo cui il necessario predicato del papa è “professione teologo”. Certamente c’è un senso in cui si debba parlare di papi teologi, come anche a vescovi teologi pensava il Concilio e come anzi ci si attenderebbe che fossero tutti i cristiani. Altra cosa però è fare della teologia la professione del papa. La professione di Pietro non era teologo, ma pescatore. Così lo prese Gesù, e con lui anche gli altri. Del resto anche come pescatori lasciavano a desiderare, e se non era per Gesù che faceva gettare le reti e distribuire i pesci, le folle restavano digiune.
Il papa non è lo scienziato di Dio, ma ne è il messaggero. Il termine stesso “teologia” del resto è esagerato. Non c’è una “scienza” di Dio, Dio non si può racchiudere nella nostra conoscenza, non sta lì, sta “in una brezza leggera”. Dice il vangelo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, è il Figlio che lo svela, che lo racconta, che ne fa “l’esegesi”. Dunque a rigore c’è un solo teologo, che è Gesù, come un solo maestro, che è lui.
Perciò papa Francesco non deve passare al vaglio di un’accademia, e non sono su questo piano la continuità e le differenze col suo predecessore. Ed è proprio qui che comincia allora il fascino della ricerca, la fatica dell’interpretazione, l’impegno a capire il “mistero Bergoglio”, come ai tempi del Concilio fummo sfidati a comprendere “le mystère Roncalli”, come fu chiamato dai francesi il segreto del papa che col Concilio stava cambiando la Chiesa. Per questo è così affascinante la domanda su chi è veramente Francesco, e per quale forza sta cambiando, presso l’uomo moderno, l’idea stessa di religione e l’immaginario di Dio.
Raniero La Valle