Salvezza a caro prezzo? Rivisitare il sacrificio
La categoria del sacrificio, trasferita dai testi biblici al contesto culturale attuale, non appare più atta ad evocare il mistero della salvezza. La soluzione teologica più radicale è abbandonarla
Giovanni Ferretti
Il 14 marzo 2017 veniva pubblicato su questo sito un articolo del gesuita Felice Scalia “Contro la società e la legittimazione teologica del sacrificio”, in cui si riprendeva anche un’intervista del papa emerito Benedetto XVI del 13 marzo 2016 che qualificava come “del tutto errata” la tesi avanzata da S. Anselmo della croce come sacrificio riparatore preteso dal Padre. Sull’articolo di padre Scalia interveniva il successivo 26 marzo il teologo Carlo Molari con questo commento:
«Credo sia necessario distinguere tra l’espiazione biblica, che è un atto divino di offerta di perdono (un atto discendente della misericordia di Dio) e la soddisfazione di cui parla la teologia anselmiana che è un atto ascendente (l’uomo soddisfa).
«Nello Yom kippur ancora oggi gli ebrei invocano l’espiazione divina cioè la sua misericordia. Anche il Catechismo della CEI “La verità vi farà liberi” (1995) scriveva che l’espiazione è “da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo. L’amore di Dio ha fatto di Cristo lo strumento di espiazione (cfr Rom 3,25; 1 Gv 4,10) cioè di purificazione dei nostri peccati, di riconciliazione dei peccatori e di restaurazione dell’alleanza” (“La verità vi farà liberi”, n. 256).
«Per fedeltà biblica non dovremmo mettere in continuità i due concetti di espiazione e di soddisfazione. Anselmo aveva studiato Diritto a Padova e ragionava da giurista e non solo da teologo. Per ora mi fermo qui».
La discussione tra i teologi come si vede ferve su questo tema. Delle tappe di tale discussione pubblichiamo qui un’ampia rassegna, da una relazione tenuta da Giovanni Ferretti a un convegno dell’Associazione Teologica Italiana
Come premessa ricorderò alcune linee metodologiche che mi hanno accompagnato nella riflessione su questo tema e che ritengo ormai ampiamente diffuse nella impostazione o coscienza ermeneutica della teologia contemporanea; anche se forse non se ne traggono sempre le dovute conseguenze o non le si tengono adeguatamente presenti nella prassi del lavoro teologico.
Premesse metodologiche
La prima riguarda il carattere analogico o più propriamente simbolico e metaforico dei concetti e dei termini che la teologia usa per parlare del nostro rapporto con Dio e tanto più del mistero di Dio. Un carattere che condiziona lo stesso evento fontale del discorso teologico cristiano, ossia la parola rivelata e la sua fissazione nelle Scritture, dato che Dio non può parlarci che attraverso il linguaggio umano, attraverso il modo con cui noi parliamo di Lui[1].
La seconda riguarda il fatto che data la natura simbolica o metaforica del linguaggio teologico, nessuna formulazione teologica sarà in grado di esprimere in modo concettualmente determinato o preciso il mistero di Dio e tanto meno in modo esaustivo. Resterà sempre un margine di ulteriorità, di imprecisione, di inadeguatezza, nonché la possibilità di altri approcci, simboli, metafore, ovvero di altre formulazioni che completino o correggano le precedenti, in un processo di approssimazione o di aggiustamento senza fine.
Donde l’avvertenza a non assolutizzare mai il nostro linguaggio teologico, fissandoci in maniera ossessiva sul alcuni termini come gli unici in grado di salvare l’ortodossia o un aspetto essenziale della fede; anche se tali termini sono presenti in modo massiccio nei testi fondatori o nella tradizione, tanto da farli ritenere dei “segni distintivi” o “formule kerygmatiche” della fede cristiana. Il che vale anche – ritengo – per il termine “sacrificio”, ampiamente usato nel NT e nella successiva tradizione cristiana per dire il senso della morte salvifica di Gesù Cristo. Benché, come ormai ampiamente noto, accanto ad altri termini, categorie, simboli o metafore non riportabili ad esso. Già la categoria di “prezzo” (che figura nel titolo di questa esposizione), la quale riguarda in questo caso una transazione economica di “riscatto” di un bene o persona, non equivale di per sé a quella di “sacrificio” che non implica, come tale, una transazione economica, un do ut des, o l’assolvimento di un debito. Anche se bisogna riconoscere che questa interpretazione “economicista” del sacrificio, che lo riduce ad «una pura economia di baratto dell’uomo con le potenze divine»[2], è stata effettivamente diffusa e vissuta ed è forse quella che ha costituito uno dei preferiti bersagli della critica al sacrificio che ha percorso l’Occidente, a partire dai filosofi greci e dal cristianesimo primitivo fino ai filosofi e agli antropologi moderni.
Non tutte le metafore su Dio sono buone
Questa consapevolezza dei limiti e della inevitabile pluralità del linguaggio teologico, per il suo carattere analogico o simbolico, non deve però far dimenticare che nel parlare di Dio vi è simbolo e simbolo, metafora e metafora. Il fatto che tutti i nostri termini siano inadeguati o insufficienti non vuole dire che siano tutti sullo stesso piano, dato che possono indirizzare in direzioni profondamente differenti nel modo di intendere Dio e il nostro rapporto con lui. In direzione di un “falso” Dio – di un idolo da noi stessi costruito – o del “vero” Dio, il Dio che si è rivelato nel cosmo, nella storia e in modo supremo in Gesù Cristo. Altro è infatti, ad esempio, pensare a Dio in termini di onnipotenza irrazionale violenta, altro in termini di logos – ragione e parola – (si ricordi la famosa lectio magistralis di papa Benedetto XVI a Regensburg il 12 settembre 2006); altro in termini di gelosia nei confronto degli uomini e altro in termini di benevolenza e magnanimità; altro in termini di “sacro” che premia e castiga e richiede sacrifici come mezzo per ottenere il perdono delle colpe, altro in termini di “agape” che ama incondizionatamente e incondizionatamente perdona. Ci dovremo quindi chiedere: il termine “sacrificio” applicato al modo con cui Gesù ci ha salvato, in che direzione ci invita a pensare il nostro rapporto con Dio? In che direzione ci invita a pensare il mistero della salvezza che Dio oggi ci offre in Gesù Cristo?
La risposta a questo interrogativo non è per nulla semplice dato che è nella natura del linguaggio simbolico o metaforico significare solo nell’interpretazione che ne riusciamo a dare e che esso è in grado di sopportare. E tale interpretazione non può prescindere sia dal contesto in cui la categoria di “sacrificio” è stata originariamente utilizzata nei testi biblici (per quanto da noi ricostruibile al fine di riuscire a comprendere non solo il suo significato in astratto ma anche l’esperienza religiosa vissuta che vi corrispondeva nella sua prassi cultuale), sia anche dal contesto culturale attuale, in cui dobbiamo di necessità “trasferirla” o “tradurla” per comprenderla e farla comprendere in una intenzionalità veritativa ed esperienziale di carattere effettivamente salvifico. Un processo ermeneutico di traduzione per nulla facile ed altamente impegnativo, dato che è proprio dei grandi simboli o metafore del linguaggio religioso, soprattutto quando riguardano esperienze fondamentali elevate ad esprimere il rapporto con il mistero di Dio, di implicare un’intera visione della vita e del mondo (una Weltanschauung), con un corrispettivo insieme di valori ed esperienze di vita che può essere profondamente differente dal nostro.
E ci si può chiedere se alcune categorie, come appunto quella del sacrificio, non siano talmente legate ad una particolare visione del mondo ormai obsoleta, da non poter essere in quanto tali felicemente “tradotte” nel nostro contesto attuale, ma vadano sostituite – nel caso con categorie non più sacrificali – per cercare di comunicare in forma accessibile ed amabile quella verità salvifica che con tali categorie si era cercato di interpretare e comunicare nel contesto culturale del Nuovo Testamento e nella successiva Tradizione cristiana.
In termini più diretti: in che misura utilizzare oggi la categoria del sacrificio per dire della salvezza di Cristo non rischia di portare con sé una visione del mondo inaccettabile dalla coscienza etica moderna, finendo per presentare il messaggio evangelico come “inumano”, un “disangélo”, come lo qualificava Nietzsche[3] per dire che ricorrendo a tale categoria si era stravolto lo stesso messaggio originale di Gesù quale lieta notizia dell’avvento del Regno di Dio, nella sua persona e nello stesso evento della sua morte in croce? Cosa che teologicamente ci interessa in massimo grado dato che il processo ermeneutico di traduzione in un nuovo contesto culturale, per fedeltà al destinatario del messaggio evangelico, lungi dal travisare o mutare il messaggio dovrebbe sfociare in una sua migliore comprensione – come ebbe a dire papa Giovanni XXIII al tempo del rinnovamento teologico conciliare: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che incominciamo a comprenderlo meglio!».
Delineato in questo modo l’interrogativo ermeneutico di fondo del nostro problema, cercherò di affrontarlo presentando anzitutto alcuni tratti del panorama della critica moderna al sacrificio – in particolare al sacrificio espiatorio, nella forma di sostituzione vicaria o rappresentanza solidale[4] – per poi esaminare alcune tipiche riflessioni teologiche che tenendo conto di tale critica propongono oggi una rivisitazione o un superamento del sacrificio quale categoria interpretativa della valenza salvifica della croce di Cristo.
Tipologie di critica moderna al sacrificio
La critica al sacrificio ha radici antiche nell’Occidente. Risale in particolare al periodo della tarda antichità, con la critica rivolta da filosofi e letterati alla pratica sacrificale della religione antica, giudicata indegna degli dei e degli uomini, e la critica cristiana ai sacrifici cruenti dei pagani, giudicati idolatri e che finì per condurre alla loro interdizione verso la fine del IV secolo[5]. Una critica che andava di pari passo alla profonda trasformazione o metaforizzazione “spiritualizzante” del sacrificio, che si ebbe sia nella cultura greco-romana, sia parallelamente nella religiosità ebraica, dopo la distruzione del Tempio nel ’70 d. C., e nel cristianesimo primitivo.
Guy G. Stroumsa, storico ebraico contemporaneo delle religioni ed in particolare proprio del cristianesimo, nel suo libro La fine del sacrificio[6], del 2005, dà una sintetica ricostruzione di tale critica e di tale trasformazione, conchiudendo con la tesi che ebraismo e cristianesimo, nei confronti dell’idea di sacrificio, sfociarono in una “ambiguità fondamentale”, tanto da poter essere qualificati come “religioni sacrificali” molto speciali, perché funzionanti “senza sacrifici cruenti”[7]. Ma mentre nel giudaismo rabbinico il distacco dai sacrifici cruenti sarebbe stato totale, dato che al posto della liturgia sacrificale del Tempio sarebbero subentrati sacrifici del tutto “spirituali”, come lo studio della Torah, la preghiera, l’elemosina, pratiche ove conta solo l’intenzione interiore e la conversione del cuore senza alcuna portata “ex opere operato” e senza più sacerdoti, nel cristianesimo si sarebbe avuto un «ritorno conservatore al sistema sacrificale di Israele» (Ivi, p. 76), data l’interpretazione della morte di Cristo come un vero e proprio sacrificio cruento e la celebrazione dell’anamnesis eucaristica come una sua «riattivazione svolta dai sacerdoti» (Ivi, 76). Così, egli conclude, «la religione dell’amore degli uomini è anche quella del sangue di Cristo» (85). In essa «il sacrificio non vuole morire», né come idea né come violenza (Ivi).
Una conclusione che purtroppo non possiamo del tutto disconoscere, dato che la mentalità sacrificale (nel senso di sistematica trasvalutazione della sofferenza in realtà positiva, cioè in sacrificio quale atto religioso per eccellenza) si è diffusa nell’Occidente anche in virtù della spiritualità ascetico-sacrificale cristiana, in stretta connessione con l’interpretazione teologico-sacrificale della morte di Cristo e della celebrazione eucaristica. Con l’esito che la critica alla mentalità sacrificale – soprattutto nella sua ripresa in forme nuove in epoca moderna – ha coinvolto in una critica radicale lo stesso cristianesimo, considerato tra i suoi ispiratori fondamentali.
Di questa critica – come vedremo – Nietzsche è certamente uno degli snodi più radicali ed influenti. Ma dopo di lui, essa addirittura dilagherà coinvolgendo nel ‘900 non solo filosofi, ma sociologi, etnologici, antropologi, psicoanalitici ed anche teologi, fino a formare – come ritiene Jean-Luc Nancy – la preoccupazione comune di un’intera epoca, convergente nell’idea di un «necessario “superamento” del sacrificio quale punto critico o cruciale del pensiero contemporaneo»[8].
Non è ovviamente possibile offrire un quadro completo del panorama della critica contemporanea al sacrificio. Ma vorrei ricordarne almeno alcuni momenti tipici, rifacendomi a testi significativi che ho avuto modo di prendere o riprendere in mano per questa occasione, e che ritengo possano essere di utile stimolo alla nostra riflessione. I testi sono di Nietzsche, di Horkheimer e Adorno, dell’appena citato Jean-Luc Nancy e di Roberto Mancini. In essi la critica al sacrificio è rispettivamente animata – come vedremo – dal motivo umanistico, da quello sociologico storico-critico, da quello finitistico e da quello evangelico.
La critica di Nietzsche
Come testimoniato ad esempio in Al di là del bene e del male (1886), Nietzsche è quanto mai netto nel considerare il sacrificio come caratteristica fondamentale e chiaramente negativa del cristianesimo.
«La fede cristiana è fin da principio sacrificio: sacrificio di ogni libertà, di ogni orgoglio, di ogni autocoscienza dello spirito, e al tempo stesso asservimento e dileggio di se stessi, automutilazione»[9].
Nella Genealogia della morale (1887) Nietzsche propone un’ampia ricostruzione dell’origine del sacrificio, anch’essa decisamente svalutativa, e presenta il cristianesimo come la religione che ha portato all’esasperazione il dinamismo psicologico perverso che ha dato origine al sacrificio religioso. Questo sarebbe nato dalla coscienza di essere in debito verso gli antenati e dal timore di loro interventi punitivi se non li si contraccambia a dovere con offerte sacrificali ed attestati di onore. Fino a trasfigurarli in dei e, come fatto dagli Ebrei, nel Dio assolutamente “santo”, di fronte a cui si è infinitamente in debito.
Dalla coscienza di non aver assolto a sufficienza il proprio debito deriverebbe poi quello della colpa; mentre il concetto di espiazione della colpa tramite una sofferenza – nucleo del concetto di sacrificio – deriverebbe dalla promessa di restituzione accompagnata dal pegno dalla concessione del diritto sul proprio corpo. Il che configura un vero e proprio “diritto alla crudeltà” sul proprio corpo[10]. In proposito Nietzsche si chiede criticamente: «Come può il far soffrire essere una riparazione?» (Ivi, p. 264). La risposta passa attraverso lo smascheramento di un meccanismo psicologico sadico, che trarrebbe soddisfazione o godimento dalla vista del soffrire altrui. Un godimento sadico che egli ritiene all’opera anche nella concezione di un godimento celeste dei beati allo spettacolo delle pene dei dannati nell’inferno, presente ad esempio in Tertulliano e che si ritrova in San Tommaso d’Aquino e in Dante (Ivi, pp. 248-250).
All’angoscia originata dalla prospettiva delle terribili punizioni divine, che possono giungere fino alla pena eterna dell’inferno e che sempre incombono data l’inestinguibilità della colpa umana di fronte alla “santità” infinita di Dio, il cristianesimo avrebbe portato un momentaneo sollievo con quello che Nietzsche considera il suo “tratto geniale”: il sacrificio stesso di Dio per le colpe dell’uomo (chiaramente nel senso – è facile per noi osservarlo – del paradigma anselmiano ampiamente diffuso a partire dal Medio Evo e radicalizzato da protestanti e cattolici in seguito alla Riforma).
«Dio stesso si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso si ripaga su se stesso, Dio come l’unico che può riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo poi crederci? -), per amore verso il suo debitore!…» (Ivi, p. 292).
Ma per Nietzsche, questa concezione del sacrificio, lungi dal risolvere il problema dell’angoscia umana, ha avuto come esito addirittura la “divinizzazione del sacrificio”, la “crescente spiritualizzazione e divinizzazione della crudeltà” (Ivi, p. 264). La redenzione dell’uomo tramite il sacrificio di Dio, alla fine si ritorce quindi ancora una volta contro l’uomo.
A tale concezione Nietzsche contrappone, quale alternativa radicale, il suo ideale umanistico di una “redenzione” che parta dall’uomo e sia a totale vantaggio dell’uomo, che sia animata da una “fede nell’uomo”. Il suo sguardo utopico nel futuro dell’uomo si rivolge infatti «a un uomo che giustifichi l’uomo, a una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana, in virtù della quale si possa mantenere la fede nell’uomo!..» (Ivi p. 243).
Nell’opera L’anticristo (1887), particolarmente polemica contro il cristianesimo come risulta dallo stesso sottotitolo “Maledizione del cristianesimo”[11], la critica al cristianesimo sacrificale ritorna radicalizzata. Significative, in proposito, le due tesi sull’origine del cristianesimo che egli vi sostiene: 1. Il suo svilupparsi sul falso terreno ebraico, estremizzandolo; 2. Il suo fraintendere e falsificare la figura di Gesù, con elementi tratti da tale humus. Il che fa pensare che il titolo di “L’anticristo” possa riferirsi anche allo stesso cristianesimo in quanto tradimento di Cristo.
Quanto al primo punto, il falso terreno ebraico viene caratterizzato dal rovesciamento, per “ressentiment”, dei valori naturali affermativi della vita, degli istinti della vita, per elevare in modo menzognero a valore la decadenza della vita, la debolezza e povertà della vita; veri valori non sono quindi più considerati i valori originari di forza, ricchezza, nobiltà, ma quelli della debolezza, povertà, bassezza. Un rovesciamento menzognero dei valori che si accompagna con la falsificazione della causalità naturale degli eventi del mondo, inventando un “ordinamento etico del mondo”, ove gli eventi sono visti quali premi o castighi di Dio in reazione al nostro comportamento nei confronti delle sue leggi.
Quanto al secondo punto, la falsificazione della figura di Gesù, Nietzsche ritiene possibile rinvenire “nei Vangeli a dispetto dei Vangeli” (Ivi, p. 37) l’originaria figura di Gesù, che egli individua nel “tipo psicologico del redentore”, contrapposta a quella dell’eroe o del genio indicate da Renan.
Gesù non è un “eroe” perché rifugge da ogni lotta contro gli avversari per predicare e praticare la mitezza, la pace, la beatitudine del “non-poter-essere-nemici”, una vita di amore senza esclusioni, distanze, perché tutti siamo ugualmente “figli di Dio”, non separati da Dio ma in rapporto filiale con Lui. La vita eterna, il regno di Dio è vivere questo sentimento interiore, è “l’esperienza di un cuore” (Ivi, p. 46).
Gesù non è neppure un “genio”, ma se mai un “idiota”, nel senso dostoevskijano di mescolanza di “sublimità, malattia e infantilismo”. Egli fugge istintivamente da ogni durezza della “realtà”, come pure da ogni formula concettuale, istituzione e chiesa. Ciò che egli predica non è una nuova fede, ma una nuova pratica ed esperienza di vita. Non fu certamente un avversario fanatico dei “teologi e dei preti” – come talora i Vangeli lo dipingono – ma la sua “buona novella” si presentava di fatto come un’alternativa all’intera dottrina ecclesiastica ebraica. Le mancano, infatti, le nozioni di colpa e di castigo come pure quella di ricompensa. Il “peccato”, come qualsiasi rapporto di distanza tra Dio e l’uomo, è eliminato. «Precisamente questa è la “buona novella”» (Ivi, p. 43).
Una degenerazione antievangelica dell’idea stessa di Dio
Quanto al senso della morte di Cristo, che gli fu comminata proprio per la sua valenza di alternativa radicale all’ordine politico-religioso del suo tempo, esso va visto in perfetta continuità con il senso della sua vita, senza alcuna intenzione aggiuntiva.
«Questo “lieto messaggero” morì come visse, come aveva insegnato – non per “redimere gli uomini”, ma per indicare come si deve vivere» (Ivi, p. 46).
«In sé, con la sua morte, Gesù non poté volere null’altro, se non dare pubblicamente la prova più forte, la dimostrazione della sua dottrina….» (Ivi, p. 53).
Ma il cristianesimo storico fu un fraintendimento, anzi una falsificazione – anch’essa per ressentiment – della figura e del Vangelo di Gesù.
«Già la parola “cristianesimo” è un equivoco -, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (Ivi, p. 50).
I suoi discepoli, in particolare, fraintesero e falsificarono il senso della sua morte, e ciò per ressentiment contro chi l’aveva ucciso, identificato con il nemico. E venne così a galla il sentimento più antievangelico: la vendetta, nella forma della ritorsione del castigo, dato che il regno di Dio verrà per giudicare i suoi nemici, vendicare l’uccisione del Figlio di Dio. Non si vide che «proprio una tale morte era appunto questo “regno di Dio”» (Ivi, p. 53).
Sorse inoltre l’assurdo problema: come poté Dio permettere questo? E si trovò una risposta ancora più assurda.
«Una assurdità addirittura spaventosa: Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto in bianco la fine del Vangelo! Il sacrificio espiatorio, e proprio nella forma più ripugnante e più barbara, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante paganesimo!» (Ivi, p. 54).
Il sacrificio cristiano, dunque, è questa la tesi di fondo della critica di Nietzsche, non è solo antiumano, ma anche antievangelico. Una falsificazione dell’umano e una falsificazione di Cristo. In ultima analisi una degenerazione dell’idea stessa di Dio. Una critica che ancora oggi ci fa pensare e ci stimola a pensare. Come è potuta nascere questa convinzione? Quali occasioni vi abbiamo dato? Come riuscire a sfatarla? E’ possibile, ad esempio, svincolare il sacrificio cristiano dalla concezione ormai obsoleta di un “ordinamento morale del mondo” in cui Dio direttamente interviene nel corso del mondo con premi e castighi ed in cui con sacrifici si può scontare (personalmente o in forma vicaria) la doverosa pena per le colpe commesse ottenendo salvezza? Come svincolare il sacrificio dalla visione sacrale di Dio quale mysterium tremendum et fascinans, che può beatificare e dannare, premiare e castigare, dare la vita e chiedere il sacrificio della vita? Un Dio da cui la coscienza etica moderna ha preso definitivamente le distanze e che Nietzsche dice di aborrire doppiamente, sia perché in quanto ateo aborre Dio (ogni forma di trascendenza sul mondo, ogni figura di un “retromondo”), sia perché aborre questo tipo cristiano di Dio:
«Il concetto cristiano di Dio. […] Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno sì» (Ivi, p. 21)[12].
Horkheimer Adorno e la dialettica contraddittoria dell’illuminismo
La celebre opera di Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo, del 1947[13], è un’altra significativa tappa nella storia della critica del ‘900 al sacrificio. Come in Nietzsche anche qui si critica il cristianesimo per la sua attribuzione di un significato positivo a quella negazione della vita che è il sacrificio.
«La sua falsità [del sacrificio] consiste in ciò: nella pseudoattribuzione di un significato affermativo all’abnegazione e all’oblio di sé» (Ivi, p. 190).
Ma la critica di questi autori al sacrificio acquista una particolare e nuova valenza in quanto è inserita in una più ampia analisi e critica storico-sociologica dell’illuminismo, fin dalle sue più antiche origini testimoniate nell’Odissea. Già in essa, infatti, emergerebbe quella “dialettica dell’illuminismo” che consiste nello sfociare in risultati contraddittori rispetto a quelli intesi con il processo di liberazione dai miti o dalla dipendenza dalla natura. Il dominio razionale della natura, divenuto logica strumentale universale, si ritorce infatti nel dominio della stessa natura dell’uomo, contraddicendo così quella nascita del soggetto o Sè individuale libero, a cui già il processo dell’illuminismo antico tendeva.
Nel racconto dell’Odissea, Ulisse cerca di dominare con l’astuzia gli dei, mitica espressione della natura, dominando se stesso e offrendo agli dei “doni ospitali”. Questi risultano essere qualcosa di mezzo tra lo scambio e il sacrificio, dato che:
«se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dei, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono» (Ivi, p. 58).
La critica illuministica del sacrificio – si osserva – ne ha rivelato la “falsità oggettiva” (Ivi, p. 60), la vanità e la superfluità (Ivi, pp. 60 e 62). Essa ha raggiunto il culmine con la critica alla “rappresentanza sacrificale”, «inseparabile dalla divinizzazione della vittima e dall’inganno della razionalizzazione dell’assassinio mercé l’apoteosi dell’eletto» (Ivi, p. 60). «L’istituzione stessa del sacrificio – si conclude – è il segno di una catastrofe storica, un atto di violenza subito insieme dagli uomini e dalla natura» (Ibid.).
Ciò però che l’illuminismo non ha avvertito è che il sacrificio continuava a vivere in esso per il permanere della “razionalità strumentale” che lo caratterizzava. Questa si è trasformata ma non è scomparsa nel sacrificio che il soggetto fa di sé per autoconservarsi. L’assurdità del capitalismo totalitario occidentale, con i suoi esiti oppressivi sull’uomo in nome della sua autoconservazione, è la più palese testimonianza di tale contraddittoria dialettica della razionalità strumentale sacrificale.
«L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende – nella sua forma oggettivata e determinata dal dominio – questa soddisfazione impossibile e tende alla distruzione dell’umanità: questa assurdità è esemplarmente preformata nell’eroe che si sottrae al sacrificio sacrificandosi. La storia della civiltà è la storia dell’introversione del sacrificio. In altre parole, la storia della rinuncia» (Ivi, p. 64 cc. nn.).
Nell’uomo illuministico “borghese” – forgiato e consonante con l’economia capitalistica trionfante – si è così avuta la «trasformazione del sacrificio in soggettività» (Ivi, p. 65), ossia nel sacrificio interiorizzato come dominio di sé, rinuncia, rimando della soddisfazione, pazienza, con la convinzione che per riuscire a sopravvivere avendo ragione delle forze avverse della natura o della società – che ne ha ereditato il dominio – bisogna sapere adeguarsi ad esse, ricorrendo alla sottomissione per astuzia al fine di dominarle. L’astuzia di Ulisse rivive così nella rinuncia borghese, caratteristica tipica della dialettica contraddittoria dell’illuminismo:
«Dominio della natura mediante questo adattamento (alla natura) è lo schema dell’astuzia di Ulisse» (Ivi, p. 66).
Ove è da notare lo stretto intreccio che nella dialettica dell’illuminismo si ha tra logica razionale strumentale, logica violenta del sacrificio e logica del dominio. Una logica, quest’ultima, che emerga come la logica di fondo del rapporto dell’uomo occidentale con la natura e con gli altri uomini nella società.
La diagnosi della dialettica del sacrificio come nucleo della dialettica dell’illuminismo, che Horkheimer e Adorno svolgono in quest’opera, non è fine a se stessa ma è in funzione di una ben precisa alternativa: la nascita di una società diversa, «una società che non ha più bisogno di rinunce e dominio: che prende possesso di sé non per fare violenza a sé e ad altri, ma in via della conciliazione» (Ivi, p. 65 cc. nn.).
Si tratta, possiamo chiederci, di una semplice utopia o della meta di una salvezza veramente a misura d’uomo, che non tenda all’abolizione del sacrificio con il sacrificio, ma con mezzi non sacrificali ad esso più adeguati? Possiamo vedervi un modello di conciliazione tra gli uomini, la natura e Dio in sintonia con la salvezza cristiana? In ogni caso, come sganciare il cristianesimo dalla compromissione storica con la logica sacrificale che dilaga secolarizzata nella società odierna impregnata dallo spirito dell’economia capitalistica globalizzata?
Jean-Luc Nancy e la finitezza radicale dell’esistenza.
L’opera già citata di Jean-Luc Nancy, Un pensiero finito, del 1990[14], mi è parsa particolarmente significativa perché riprende le varie fila della critica al sacrificio presenti nella cultura contemporanea[15], compresi i motivi umanistici e di teoria critica della società che abbiamo visto in Nietzsche e negli autori della Scuola di Francoforte, e li inserisce nel quadro di una storia della cultura giudicata alla luce del pensiero finitistico, ormai ampiamente diffuso nella post-modernità.
Con il titolo, l’autore ha inteso mettere in gioco tre cose: 1. la fine di una modalità di pensiero, quella con cui nell’Occidente si individuavano degli orizzonti del senso in Dio, nella Storia, nell’Uomo, nel Soggetto e simili; 2. la finitezza radicale di ogni senso se il senso è potuto finire; 3. la finitezza dello stesso pensiero che pensa la finitezza del senso.
Ciò che come esito si cerca di presentare e difendere è un pensiero della finitezza “radicale” (Ivi, p. 35), o “assoluta” (Ivi, p. 54), un «pensiero dell’assenza di senso come unica garanzia della presenza dell’esistente» (Ivi, p. 55). Ove l’esistente si esaurisce nella pura e semplice esperienza dell’hic et nunc, tanto che ogni rimando ad altro è già una “espropriazione”.
Se ogni rimando ad altro è una “espropriazione” ne segue che nessuna esistenza o forma di vita può essere sacrificata (Ivi, p. p. 40) e che noi non possiamo più ricorrere al sacrificio neppure per dare senso all’infelicità o alla malattia (Ivi, p. p. 36, n. 20). Nel capitolo finale dell’opera, intitolato “L’insacrificabile”, si potrà così sostenere la tesi che: «l’esistenza – nel suo senso proprio – è insacrificabile». E che, di conseguenza,“il sacrificio ha perduto qualsiasi diritto e qualsiasi dignità» (Ivi, p. 253 c. n.).
Nel libro, questa tesi di fondo non si riduce ad una semplice deduzione teorica a partire dalla finitezza assoluta dell’esistenza, ma si sostanzia tramite un’ampia analisi della storia della cultura occidentale, che ad un tempo conferma la tesi della “insacrificabilità” dell’esistenza e documenta l’esito finitistico dell’Occidente, che ne costituisce la motivazione di fondo.
Premesso che l’umanità, nei suoi inizi storici, ha ampiamente praticato il sacrificio per almeno trecento secoli, si constata che nell’Occidente il sacrificio è stato criticato, sorpassato e sublimato; ma per il modo singolare con cui ciò è avvenuto, esso vi rimane presente in modo ambiguo e indistinto. La presa di distanza dal sacrificio è, infatti, avvenuta attraverso una “rottura mimetica” – in atto già in Socrate e in Cristo – con cui se ne propone una metamorfosi o trasfigurazione in grado di rivelarne la vera natura. Alla luce del “nuovo e vero sacrificio” quello antico risulterà solo come un “grossolano abbozzo” (Ivi, p. 227). Ma questa “metamorfosi” – ci si chiede – non finisce per dissolvere ogni significato e valore del termine e così della stessa cosa cui esso si riferisce? (Ivi, p. 222).
La risposta passa attraverso l’analisi di quattro tratti che caratterizzano il “nuovo sacrificio”, quella che viene detta la sua “ontoteologia”.
- E’ un autosacrificio. La condanna di Socrate e di Cristo non sono considerate sacrificio né dalle vittime né dai carnefici. Ma il pervenire a tale condanna è rappresentato come cercato, voluto, rivendicato dall’essere tutto intero delle vittime. E così la loro vita è stata intesa come interamente sacrificio.
- E’ un sacrificio unico, consumato per tutti e in cui tutti i sacrifici sono raccolti, offerti e consacrati. Lo sostiene la Lettera agli ebrei, ma il tema è presente già in Platone e si ritroverà in Hegel, per il quale attraverso il sacrificio dei singoli si ha la realizzazione della sostanza universale. Ernst Jünger ne darà una particolare interpretazione in riferimento all’esperienza moderna della guerra totale affermando: «La somma immensa dei sacrifici consentiti costituisce un unico olocausto che ci unisce tutti» (cit. Ivi, p. 226).
- E’ la verità svelata di tutti i sacrifici, l’essenza del sacrificio. Questa infatti non si ritrova nella sua figura esteriore, ma nella sua realtà spirituale, quale sacrificio in spirito e allo spirito. Dopo Paolo, Agostino e tutta una tradizione, Pascal scriverà: «Circoncisione del cuore, vero digiuno, vero sacrificio, vero tempio. I profeti hanno indicato che tutto ciò andava interpretato in senso spirituale. Non la carne che perisce, ma quella che non perisce” (cit. Ivi, p. 227).
- Di conseguenza, il nuovo sacrificio «costituisce il superamento […] del momento sacrificale del sacrificio stesso», cioè del suo aspetto materiale, di carne che perisce. Hegel giungerà a dire che «in una vera religione spirituale non vi è più alcun vero sacrificio e ciò che si chiama sacrificio [cioè il processo dialettico di rinuncia all’esistenza finita immediata, naturale, come riconciliazione con se stessa dell’essenza assoluta, la mia vera sostanza spirituale] può essere inteso solo in modo figurato» (cit. Ivi, p. 228-229 c. n. , dalla Filosofia della religione di Hegel).
Il giudizio che Nancy dà di questa “spiritualizzazione occidentale del sacrificio” è che essa «termina in una formidabile denegazione di se medesima» (Ivi, p. 236, c. n.). Si nega il sacrificio antico, che si pretende di conoscere e di cui si denuncia l’economismo e la simulazione, ma al tempo stesso se ne fa proprio il “cuore cruento”, etichettando come “sacro” il momento dialettico della negatività. E così se ne subisce la fascinazione e al tempo stesso se ne prova profonda ripulsa.
«Superando il sacrificio, l’Occidente istituisce una fascinazione per mezzo e in vista del momento crudele della sua economia» (Ivi, p. 231)[16].
Tenere assieme “efficacia infinita della negatività dialettica e cuore cruento del sacrificio” (Ivi, p. 236) sfocia però in una “spiacevole ambiguità” (Ivi). Forse che l’efficacia della negatività dialettica può cancellare l’orrore del sangue? La fascinazione del sacrificio non può che essere per noi intollerabile. L’orrore deve essere lasciato all’orrore. Neppure l’arte – si osserva – riesce a superare l’impasse del sacrificio. Trasfigurare artisticamente l’orrore della morte in sacrificio «è un rimedio peggiore del male» (Ivi, p. 245, citando Bataille).
E noi potremmo chiederci se ciò non valga anche per la trasfigurazione “teologica” dell’orrore della morte in sacrificio.
La riflessione sulla interpretazione sacrificale dei campi di sterminio nazisti conferma tale conclusione. Essa è possibile, anzi necessaria per risvegliarci all’orrore, e quindi, per contraccolpo, alla ragione. Ma si rovescia inevitabilmente nel suo contrario: cioè nell’orrore per il sacrificio stesso, che finisce così per perdere ogni senso.
Ulteriore conferma di tale perdita di senso si può trarre dalla particolare tensione tra sacrifico e assenza di sacrificio che si ritrova nel pensiero nazista a partire dal Mein Kampf di Hitler. In esso si esalta l’ariano come colui che sacrifica il proprio io alla collettività, alla razza. Ma nel pensiero nazista si negherà ogni senso o onore sacrificale allo sterminio degli ebrei, neppure come “simulacro”. Così i campi di sterminio nazisti non sono più una forma di sacrificio occidentale, ma “l’occidente del sacrificio”, il suo definitivo tramonto. Dal momento che non è più possibile distinguere tra sacrificio e assassinio, “il sacrificio ha perduto qualsiasi diritto e qualsiasi dignità” (Ivi, p. 253), si è del tutto “decomposto” (Ivi, p. 257)[17].
L’esistenza non è sacrificabile
L’analisi storica della vicenda occidentale nei confronti del sacrificio sostanzia così il congedo che Nancy ne prende in nome della finitezza radicale dell’esistenza. La finitezza non è un “momento” all’interno di un processo o di una economia. Non deve far scaturire il suo senso da una conflagrazione distruttiva della propria finitezza. Non vi è sostanza o “Dio oscuro” quale istanza sovrana a cui la finitezza dovrebbe o potrebbe subordinarsi (Ivi, pp. 245, 256). Dunque «la “finitezza”, pensata rigorosamente e pensata secondo il suo Ereignis significa che l’esistenza non è sacrificabile» (Ivi, p 257, c. n.). Ogni fascinazione per il sacrificio (che Nancy ritiene ancora presenti in Bataille e Heidegger, come fascinazione verso un Altro, un Fuori assoluti), va quindi eliminata. Non c’è alcun sacrificio “vero”.
«L’esistenza non è da sacrificare, e non la si può sacrificare. La si può solamente distruggere, o con-dividere [… ]. (si condivide) il limite della finitezza e al tempo stesso il rispetto dell’insacrificabile» (Ivi, 262-263).
Il libro finisce con la delineazione dell’alternativa cui il “pensiero finito” sembra introdurci:
«Noi siamo sull’orlo di un’altra comunità, di un’altra methexis, in cui la mimesis della condivisione (partage) cancellerebbe la mimica sacrificale di un’appropriazione dell’Altro» (Ivi, p. 263).
La provocazione di fondo che un libro come questo pone al pensiero teologico è – mi pare – quella di vedere e far vedere come sia pensabile una trascendenza divina che non implichi il sacrificio della nostra esistenza finita, anzi ne fondi e motivi ancor meglio la sua “insacrificabilità”. Nella visione di piena immanenza della finitezza dell’esistenza – che sempre più sembra caratterizzare l’“umanesimo esclusivo” della nostra cultura secolarizzata – il sacrificio non ha ovviamente alcun senso. Dato che non c’è nulla a cui sacrificare, l’esistenza è chiaramente insacrificabile. Si tratta di un ragionamento perfetto, che ad un tempo si pone in profonda consonanza con il superamento critico occidentale del sacrificio antico e ne denuncia le vistose ambiguità, data la fascinazione che l’occidente mantiene per il nucleo cruento del sacrificio antico.
Penso che dovremmo prendere atto con Nancy che nell’Occidente, «il sacrificio ha perso qualsiasi diritto e dignità», perché ne conserva, sia pur secolarizzato, il “nucleo cruento”. Ma al tempo stesso dovremmo anche chiederci se questa perdita di dignità del sacrificio che caratterizza l’Occidente sia necessariamente in contrasto con il Vangelo o possa trovare in esso, riletto sotto la provocazione di un tale esito, una conferma o addirittura una motivazione fondamentale.
In effetti, nella nostra cultura non manca un filone di critica al sacrificio che si richiama ad istanze evangeliche di fondo, oltre che ad una analisi storico critica o filosofico umanistica. Si pensi ad esempio a René Girard o a María Zambrano. Roberto Mancini ha ripreso in proprio tale filone elaborandolo con considerazioni che vorrei qui ricordare, anche perché mi hanno molto sollecitato a prendere progressivamente coscienza della estrema problematicità dell’uso della categoria del sacrificio in teologia per esprimere e comunicare il mistero di Cristo e della salvezza cristiana.
Roberto Mancini: l’alternativa tra logica sacrificale e logica del dono
Ad avviso di Mancini il cristianesimo nel suo nucleo evangelico originario e nella stessa vicenda della croce di Cristo è profondamente antisacrificale. «I Vangeli – egli afferma – desacralizzano definitivamente la categoria religiosa del sacrificio»[18]. Come alternativa, essi propongono la categoria salvifica della misericordia, secondo il detto di Gesù «misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9, 13; 12, 7; v. Os 6, 6).
La visione sacrificale della morte in croce di Gesù, che ha finito per coinvolgere il cristianesimo storico nella mentalità sacrificale che ha dominato in Occidente, fino ad essere tra le principali cause della sua persistenza e diffusione, avrebbe capovolto il rapporto di causa ed effetto tra amore e sofferenza, presentando la sofferenza di Cristo come causa dell’amore misericordioso di Dio, invece di vedere nella croce l’amore assolutamente gratuito con cui «il Padre, nel Figlio, amò senza riserve l’umanità, fino ad accettare la crocifissione come tragica e libera risposta da parte degli uomini»[19]. Una visione, quest’ultima, che se tenuta con coerenza permetterebbe veramente di uscire dalla lettura sacrificale del cristianesimo e dalla mentalità sacrificale ad essa connessa.
Mancini, in particolare – e questo mi pare tra i suoi contributi più rilevanti – ritiene che non sia possibile confondere la logica della oblatività gratuita dell’amore con la logica sacrificale. Per questo egli è critico verso quelle teologie che pur prendendo le distanze dalle rozze letture della croce di Cristo nella forma anselmiana più diffusa – sacrificio espiatorio quale unico adeguato o giusto risarcimento di un Dio offeso dal peccato umano – finiscono per mescolare, fino a renderli indiscernibili, amore e sofferenza, gratuità e sacrificio, dono di sé e mortificazione, indulgendo ad una indifferenziazione terminologica fuorviante, che finisce per pervertire il messaggio evangelico (Ivi, pp. 175 e 199). Indifferenziazione favorita anche dalla “ambiguità” contenuta nella parola tedesca Opfer, che significa ad un tempo vittima, sacrificio e dono.
Non si può, ad esempio, come egli ritrova in Romano Guardini[20], sovrapporre il tema dell’oblatività amorosa del Padre, che in Cristo si dona pienamente all’uomo fino all’”annullamento” della morte, con il tema della offerta sacrificale espiatoria del Figlio, l’offerta del suo sangue come riparazione (Ivi, p. 206). Gesù che si sintonizza in tutto con l’autodonazione di Dio, non si offre a Dio perché Dio si autodoni o possa autodonarsi all’uomo! Se si sovrappongono i due temi si finisce per introdurre la logica sacrificale addirittura nell’intimità della comunione d’amore trinitaria, intendendo il darsi del Padre al Figlio e viceversa come un sacrificio, un autoannullarsi per l’altro o nell’altro! Invece di vedervi un rapporto di comunione, vi si vede un rapporto di separazione! E si ritiene che la gratuità si alimenti necessariamente di sacrificio e non possa essere comunione gioiosa e senza riserve.
È quanto mai importante, quindi, evidenziare l’alternatività radicale, nonostante le apparenze di vicinanza o coincidenza, tra la logica sacrificale e la logica del dono[21]. Cosa che Mancini cerca di fare con analisi fenomenologiche che sono – a mio avviso – tra i contributi maggiori che egli apporta al nostro tema. Eccone alcuni tratti.
Nel sacrificio, «ciò che è “donato” è al tempo stesso distrutto, si offre una negazione, una rinuncia, una morte». Nel dono, invece. «si offre qualcosa di vivo, di vitale, che alimenta la vita e il bene del donatario»[22].
Nel sacrificio «l’enfasi cade sul prezzo, sul costo, sulla fatica e sulla presunta sofferenza salvifica». Nel dono «l’accento sta sull’amore, sul bene che il donatore vuole all’altro, sul bene del donatario, sulla loro relazione» (Ivi, p. 67).
Nel sacrificio si compromette la libertà sia del donatore che del donatario, ricondotti entrambi «sotto la legge del dare e dell’avere, del risarcire e del premiare». Nel dono invece «la libertà del donatore permane e quella del donatario viene rafforzata» (Ibid.).
Nell’ottica del sacrificio si suppone «una differenza ontologica assoluta» tra il sacrificante umano e il destinatario divino, questi padrone e giudice assoluto, quello schiavo e giudicato. Nell’ottica della verità del dono il divino si trasmette all’umano, si incarna in esso e lo trasfigura dall’interno, senza coartarne la libertà (Ibid.).
Mancini non si nasconde che la sovrapposizione tra sacrificio e dono si alimenta di un “nucleo di verità” che vive, sia pur distorto, nella logica del sacrificio; e cioè che i pesi negativi dell’esistenza – sofferenza, perdite, male, morte, angoscia – «devono essere portati da qualcuno. Non si può vivere eludendoli o ignorandoli» (Ivi, p. 68). E riconosce che molte persone hanno dato e danno con autenticità – cioè in riferimento a tale nucleo di verità – un senso sacrificale al loro portare il peso di situazioni difficili proprie e altrui, con amore di dedizione, scegliendo di “sacrificare” se stessi ed evitando di “sacrificare” gli altri. Ma ritiene che la logica sacrificale stravolga per sua natura tale nucleo di verità in una concezione falsa, da cui è necessario prendere le distanze per due “inaggirabili” motivi: 1. evitare la complicità con la distruzione che in essa si annida. 2. Non travisare il senso della croce di Cristo.
Nella logica sacrificale, infatti, «si assume la distruzione stessa, o dei momenti di distruzione, come creativi, salvifici, persino rivelativi. Il che è falso» (Ivi pp. 71-72). Non si può piegare il male a strumento del bene, seppure in buona fede.
Il male deve essere risanato, guarito, annullato, da una logica completamente diversa, quella dell’amore di misericordia, che si esprime nella compassione, nel perdono, nella condivisione, e sa accollarsi il negativo senza assimilarsi ad esso, riprodurlo, diffonderlo. Ed è questa la logica che traspare dalla croce di Cristo, il cui senso viene quindi travisato se lo si traspone nel registro della logica sacrificale.
Chiarire il significato salvifico della misericordia diventa quindi in Mancini il necessario completamento della critica al sacrificio. Questa, infatti, rimane sfocata e incompleta se non si chiarisce la natura dell’alternativa salvifica che si propone. Una alternativa – osservo – che sia in consonanza con il Vangelo e con la verità dell’uomo e che anche per Mancini non si trova nelle alternative proposte dai tre tipi di critica al sacrificio che abbiamo sopra ricordato, per quanto possano essere stimolanti per cercarla in verità.
Alcuni lavori recenti di Mancini si impegnano con particolare efficacia nella individuazione di tale alternativa al sacrificio e mi piace qui citarli: l’articolo “Dio nella misericordia. L’identità evangelica di amore, giustizia e verità”, ripreso ed ampliato nel volume, di recente pubblicazione, La non violenza della fede. Umanità del cristianesimo e misericordia di Dio[23]. Mancini vi sostiene che nella prospettiva evangelica la misericordia di Dio non dovrebbe essere vista in contrapposizione alla giustizia e alla verità ma identica con esse. Il che presuppone che misericordia, giustizia e verità siano opportunamente ripensate, come egli fa con la illustrazione della “logica” dell’amore misericordioso quale “passione generatrice e salvatrice”, vera e propria “relazione salvifica”; della giustizia, non come retribuzione di meriti e colpe ma come l’”amore più grande”, che guarda alla dignità infinita di ogni uomo; della verità, come un “divenire veri” di fronte al fratello. E non si manca di affrontare il tema del rapporto tra misericordia e contrasto al male, che non si elimina con altro male quale la giusta “pena”, ma “portandolo” su di se con il perdono e rilanciando la relazione con amore.
Per una rivisitazione del sacrificio. Prospettive e problemi
La critica del sacrificio, dilagata in varie forme nella cultura moderna e contemporanea, di cui abbiamo dato qualche esempio caratteristico, non ha mancato di influenzare profondamente la teologia cristiana portandola a modificare o a calibrare diversamente la sua lettura sacrificale della croce di Cristo.
Procedendo a grandi tratti e per quanto sono riuscito a rendermene conto, indicherei alcuni snodi di tale ricalibratura, con i problemi che suscitano.
- L’indagine esegetica non solo ha rilevato – come già detto – che la categoria del sacrificio non è l’unica con cui nel NT – e poi nella Tradizione – si è letto il senso della croce di Cristo[24]; ma ha anche messo in luce, mi pare con buoni argomenti anche se non con unanime consenso, che essa non è stata utilizzata da Gesù per caratterizzare il senso della sua vita e della sua morte. Nelle tradizioni presinottiche non vi sarebbe, infatti, alcun accenno all’uso di categorie sacrificali nella predicazione e nella prassi con cui Gesù annunciava e testimoniava la salvezza che Dio stava offrendo agli uomini attraverso la sua persona. Neppure per indicare il senso della sua morte prevedibilmente prossima[25].
Anche se i celebri passi di Mt 9, 13 e 12, 7, ove si cita Osea 6, 6 : “misericordia io voglio e non sacrifici”, non risalgono a Gesù in quanto di redazione matteana[26], resta inoppugnabile che Gesù mai subordina l’annuncio della remissione dei peccati ad una qualche pratica di culto espiatorio sacrificale, ma la presenta sempre come un atto di amore misericordioso del tutto gratuito di Dio, che provoca bensì la conversione e non va a buon fine senza la conversione, ma non trova nella conversione il suo presupposto.
Anche la prefigurazione del senso della sua morte, che si ha nel racconto del gesto dell’ultima cena, non pare avere originariamente alcun riferimento ad un rito sacrificale espiatorio, essendo piuttosto l’espressione simbolica di una pro-esistenza che aveva caratterizzato tutta la sua vita e che stava per culminare nella sua morte quale dono supremo della vita.
Nessuna valenza sacrificale mostrano infine i racconti della passione, che sono in tutto e per tutto pervasi dallo stare dalla parte del giusto ingiustamente messo a morte o del profeta malvagiamente rifiutato – e solo in questo senso dalla parte della “vittima”. Morendo “in quel modo”, Gesù non risulta intendersi né essere inteso come vittima di espiazione dei peccati degli uomini. Semplicemente egli vive ed è visto vivere fino in fondo, con libera e coerente obbedienza a Dio, la sua missione di annunciare e praticare la misericordia perdonante incondizionata di Dio. Misericordia amorosa che in questo suo Figlio si esprime in modo sommo nella concretezza salvifica del portare su di sé, con la non violenza della mitezza e dell’umiltà, e senza quindi ributtarla sugli altri, la sofferenza che gli veniva inflitta. E proprio in ciò rivelando e mettendo in atto l’agape salvifica stessa di Dio. Nessun accenno ad un “prezzo” da pagare per ottenere il perdono di Dio.
Come si è giunti alla lettura sacrificale
- Come si è giunti allora alla lettura sacrificale della croce quale testimoniata ben presto nella letteratura neotestamentaria? Da quanto mi pare risultare dagli studi esegetici, il nocciolo della “nuova” comprensione iniziale di fede del senso della morte di Gesù da parte della comunità dei discepoli, quale si riflette nelle formule del kerygma primitivo, si ha nel passaggio dall’intendere la morte di Cristo come semplicemente a causa degli uomini (peccatori) – un esito che poteva far pensare ad una sconfitta di Gesù o addirittura ad un abbandono o ad una sua sconfessione da parte di Dio – al comprendere che essa era stata in verità affrontata in favore degli uomini (peccatori) – non solo di quelli che lo stavano mettendo in croce, ma di tutti gli uomini, per la loro salvezza. Un passaggio che ha evidentemente comportato uno straordinario evento di “conversione dello sguardo”, all’origine della fede cristiana.
L’espressione “per” (upér), presente ripetutamente nelle primitive formule di fede, ad es: “morto per noi, per gli empi” (v. es. Rom 5, 6.7.8.); “corpo dato per voi”, “sangue versato per voi”; (Lc 22, 19-20); “per i nostri peccati” (Gal 1, 4: ha dato se stesso per i nostri peccati; 1Cor 15, 3: morì per i nostri peccati secondo le Scritture…) esprimerebbe quindi soprattutto la scoperta/rivelazione di questo suo essere vissuto e morto per, nel senso di a favore di, per la salvezza di, che in Gesù si era realizzato e che Dio, con l’evento/esperienza della risurrezione, solennemente approvava e accoglieva dichiarandolo in sintonia piena con la sua volontà di salvezza, anzi come effettiva manifestazione/comunicazione della salvezza per tutti i peccatori.
Da un punto di vista esclusivamente filologico quel “per” i nostri peccati poteva avere diversi significati, che vennero scelti secondo i paradigmi messi in atto: «a causa dei nostri peccati» (paradigma della causa efficiente), «per i nostri peccati – al posto nostro» (paradigma della sostituzione vicaria o della rappresentanza, non come tale già sacrificale), «per (il perdono) dei nostri peccati» (paradigma della intercessione, come nel caso del martire), «in espiazione dei nostri peccati” (paradigma del sacrificio espiatorio)[27]. E fu proprio questo ultimo paradigma ad avere la più vasta diffusione, soprattutto tramite Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei. Il sacrificio espiatorio era infatti, nell’ebraismo del tempo, l’atto religioso per eccellenza con cui si pensava di ottenere il perdono dei peccati e quindi anche la categoria più comprensibile per intendere la valenza salvifica della croce di Cristo.
- L’originalità dell’evento della croce di Cristo, rispetto alla pratica ufficiale dei sacrifici espiatori del Tempio, doveva però indurre a modificare profondamente la categoria usata, fino a rinnovarne radicalmente il senso. Si ricordino anche solo i seguenti punti.
L’iniziativa dell’evento sacrificale è vista nell’amore assolutamente gratuito di Dio che tramite il sacrificio di Cristo ci vuole usare misericordia e riconciliarci con sé (v. Rom 5, 8-11).
Si tratta di un autosacrificio, in quanto Gesù non offre una vittima diversa da sé (non sacrifica nessuno), ma offre se stesso come vittima (v. Ebr. 9, 14).
Si offre in sacrificio “una volta per tutte” rendendo inutili e quindi abolendo tutti gli altri sacrifici materiali in cui si uccidevano animali e si versava sangue (v. Ebr. 9, 11-12; 10, 1-10).
Di conseguenza, già nel NT si verifica quella “spiritualizzazione” del sacrificio che lo trasfigura in “sacrificio spirituale” o “culto spirituale”, ossia nell’offerta di una vita buona secondo il Vangelo, ad imitazione di Cristo (v. Rom 12, 11; Ef 4, 32; 5,2; Ebr 13, 15 ecc.). Un processo che giungerà a considerare come sacrificio ogni atto che in qualche modo viene riferito a Dio con intenzione di culto, come teorizzato ad esempio da San Tommaso sulla scia di Agostino[28].
Ci si può chiedere se questa “metaforizzazione” crescente del termine sacrificio elimini del tutto il riferimento al “nucleo cruento” originario del sacrificio. Esso comunque resta ben presente nella stessa Lettera agli Ebrei, ove un posto non certo marginale viene assegnato all’assioma dell’espiazione sacrificale: “sine sanguinis effusione non fit remissio” (Ebr. 9, 22 con rimando a Lv 17, 11)[29]. E nella storia degli effetti del cristianesimo, più che non la “spiritualizzazione universalizzante” del termine sacrificio ha indubbiamente continuato a permanere, come riferimento principe della metafora del sacrificio, il riferimento alla “sofferenza”, al “rinnegamento o mortificazione di sé” come atti graditi a Dio e meritori. Donde quella identificazione del cristianesimo con il sacrificio così inteso e la critica al cristianesimo sacrificale e alla mentalità sacrificale che abbiamo sopra ricordata.
La risposta della teologia contemporanea
Nella teologia contemporanea vi sono diversi modi di rispondere alla provocazione di questa critica. Tentando una tipizzazione – con tutti i limiti che essa può avere – ne individuerei fondamentalmente tre. 1. La difesa apologetica della categoria nel suo “vero” significato cristiano. 2. Il riconoscimento della sua “ambiguità”, e il bisogno di disambiguarla pur senza lasciarla cadere. 3. La presa di distacco dalla categoria per il suo ineliminabile “nucleo cruento” o “distruttivo”.
- 1. La difesa apologetica della categoria del sacrificio cerca di mostrarne il senso “non cruento” tramite la rilevazione del suo autentico significato biblico e/o la sua doverosa rilettura nel mutato quadro culturale contemporaneo.
Così, ad esempio, Gerhard Lohfink, nel libro Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu (del 2012)[30], cerca di mostrare il significato autentico delle categorie sacrificali bibliche di “rappresentanza vicaria” (Stellvertretung) e di “espiazione” (Sühne), con cui Gesù nell’ultima cena avrebbe interpretato il senso della sua morte imminente.
Diversamente dal significato religioso che esse avevano nel mondo delle religioni (di capro espiatorio), nella Bibbia “rappresentanza vicaria” significherebbe esclusivamente che come l’uomo dipende sempre da altri così nella storia della salvezza l’esistenza di Israele dipese sempre da personaggi come Abramo, Mosé, Elia… E in tale senso andrebbe intesa anche la “rappresentanza vicaria” di Cristo. Lungi dal deresponsabilizzare, come obietta la critica che le si è rivolta, la rappresentanza abilita all’impegno nel bene.
Mentre nel mondo delle religioni il sacrificio espiatorio è un modo per ingraziarsi o placare gli dei, in Israele è «una nuova possibilità di vita donata da Dio» nonostante le proprie colpe, un «lasciarsi strappare da lui dalla morte meritata» (Ivi, p. 324). Date però le conseguenze del peccato, che autonomamente fa sentire i suoi effetti nella storia, e che Dio «non può perdonare perché sono radicate nella storia», l’amore di Dio, in quanto vero amore, non solo perdona il peccatore ma si assume la responsabilità delle conseguenze di ciò che l’altro ha fatto; il che costa qualcosa, non può essere fatto senza sacrificio (Ivi, p. 325).
Parlando della “morte espiatrice” di Gesù, la tradizione neotestamentaria intende quindi dire che la sua morte fu una morte per gli altri, spogliamento totale di sé, agape, che ha spezzato la catena deleteria del mondo, creando un terreno su cui diventa possibile rimediare alle conseguenze del peccato.
«La sua morte non è un’azione sostitutiva ma il detonatore che rende possibile l’avvio di un processo di liberazione, che continua ad andare avanti” (Ivi, p. 326).
Non molto dissimile la posizione di Jürgen Werbick nel libro Soteriologia (1990)[31]; anche se più esplicito nel segnalare che questa interpretazione suppone una profonda revisione del quadro concettuale in cui quelle categorie erano state pensate. Se si abbandona come culturalmente superata la “visione morale del mondo” di cui parlava Nietzsche, e la visione “sacrale” di Dio che premia e punisce, le conseguenze negative del peccato non vanno più intese come sanzioni esterne dovute ad un intervento punitivo di Dio, bensì come conseguenze immanenti del modo sbagliato di impostare la vita. E la espiazione o liberazione dal peccato non consiste nella rinuncia alla pena da parte di Dio in virtù del rito espiatorio di Gesù in nostra rappresentanza o sostituzione, ma perché in virtù dell’amore perdonante di Dio che Gesù vive e testimonia con la sua auto-donazione di amore, si innesca un processo di conversione dai meccanismi distruttivi del male. L’espiazione consiste quindi propriamente nella “conversione”.
Werbick può quindi opporsi radicalmente alla soteriologia dell’espiazione nella forma che si è diffusa a partire dal tardo medioevo e che – a suo avviso – ha frainteso la categoria biblica dell’espiazione e le intenzioni stesse della celebre dottrina anselmiana[32].
«Considerare il sacrificio – e alla fin fine lo stesso sacrificio di croce – come il prezzo che gli uomini o il Figlio dell’uomo devono pagare per ingraziarsi Dio, significa contraddire profondamente l’esperienza di Dio e la prassi di vita di Gesù» (Ivi, p. 315).
La vita di Gesù, vissuta nella obbedienza e dedizione al Padre fino alla morte di croce va quindi ancora detta “sacrificio”? La risposta è sì nel senso che essa realizza, sia pur con una profonda Aufhebung (superamento come toglimento ed elevazione ad un piano superiore), l’intenzione di fondo che presiede alla prassi religiosa dei sacrifici: offrire, con i propri doni, se stessi a Dio esprimendo il desiderio di essere da Lui accettati, di potergli appartenere, ripristinando l’unità compromessa dal peccato (Ivi, pp. 321-322)[33]. Gesù è il “nuovo Agnello pasquale” in quanto la sua vita, passione, morte e risurrezione sono «il simbolo reale della volontà di Dio intenzionato a stabilire con noi dei rapporti» (Ivi, p. 329).
«D’ora in poi – si conclude – il sacrificio può essere inteso soltanto come compartecipazione e riattualizzazione dell’(auto)donazione del Figlio dell’uomo all’accadere della volontà divina di salvezza. E questa autodonazione si attua, sul versante del peccatore, come conversione, come un lasciarsi crocifiggere insieme a Cristo. […] La conversione esige sacrificio, ma non per Dio, che non ne ha bisogno (v. già Sal 40, 7), bensì per la nostra stessa vita, per il Regno di Dio, in cui non si ‘entra’ per altre vie» (Ivi, p. 319).
Indubbiamente questa rivisitazione “apologetica” ben coglie il nucleo evangelico originario della salvezza di Dio che Gesù ha annunciato e testimoniato. C’è da chiedersi però se non sottovaluti gli aspetti negativi che il ricorso alla categoria di sacrificio ha comportato, data per lo meno l’ambiguità che anche nel cristianesimo tale categoria ha rivestito. Una ambiguità che invece mi pare non manchi di essere presente nella seconda tipologia che vorrei segnalare.
- 2. Il riconoscimento della ambiguità della categoria del sacrificio e la necessità di disambiguarla pur senza abbandonarla.
È questa, ad esempio, la posizione che mi pare emergere nel numero 4/2013 di «Conciliium» intitolato “L’ambivalenza del sacrificio”, già a partire dal contributo di Louis-Marie Schauvet che apre il fascicolo: “Sacrificio”: una nozione ambigua nel cristianesimo. Pur non condividendo molti aspetti della posizione di Girard sul sacrificio in genere e sulla portata non-sacrificale della morte di Gesù in croce, Schauvet ritiene valida la sua «denuncia degli effetti perversi dello schema rituale-sacrificale» (Ivi, p. 23). Esso va quindi profondamente disambiguato, come del resto già avvenuto nel NT e poi nella tradizione cristiana, sottolineandone la portata “metaforica” di vero e proprio “trapasso” di significato: dal significato rituale al suo significato di simbolo di una “vita donata” per amore.
«Nel cristianesimo non si può parlare di sacrificio che in un senso metaforico, poiché si tratta del “sacrificio” esistenziale della vita in quanto vita di servizio a Dio e agli altri. Chiamare “sacrificio” la morte di Gesù è possibile soltanto nel senso in cui questo evento storico “visibile”, sullo sfondo di ciò che significavano i sacrifici del tempio, è “il sacramento o segno sacro del sacrificio invisibile”, che è stata la sua vita donata» (Ivi, p. 26).
Per un verso si riconosce quindi che «lo schema sacrificale è troppo pieno di insidie perché lo si utilizzi senza precauzione nella catechesi e nella predicazione»; per cui nella cultura attuale «sarebbe preferibile lo schema iniziatico del “morire per vivere”» (Ivi, p. 30).
Ma per altro verso si ritiene che il vocabolario sacrificale sia “ineliminabile” nel cristianesimo per almeno tre ragioni: 1. Tale linguaggio è stato una delle vie che il NT ha utilizzato per mostrare che in Gesù «sono giunti a compimento non solo la Legge (Paolo) ma anche il Tempio, con il suo sacerdozio e il suo sacrificio (Lettera agli Ebrei)» (Ivi, pp. 29-30). 2. Perché implicato nel rituale dell’Eucarestia, ove anche se si interpreta “spiritualmente” l’atto di “mangiare e bere il corpo e il sangue di Cristo”, non vi si può eliminare il rimando – in esso strutturalmente presente – a schemi di tipo sacrificale profondamente radicati antropologicamente. 3. perché lo schema iniziatico, benché oggi più accessibile culturalmente, lascia nell’ombra un aspetto essenziale della soteriologia cristiana: Gesù non è morto di “morte naturale” ma di “morte violenta”. Senza tale “violenza” non avremmo infatti avuto quel processo di incontro/scontro tra la grazia di Dio e il peccato umano che si è consumato in Gesù come nostra salvezza.
Motivazioni che indubbiamente fanno pensare, ma che non mancano di sollevare interrogativi. Così, a proposito della terza motivazione, va riconosciuto che lo schema iniziatico è carente perché la croce di Cristo non si risolve nell’affrontare una rinuncia o sofferenza per ottenere una vita più piena – come nella rinuncia a volere tutto e subito che il bambino deve imparare per divenire Io cosciente e responsabile. Ma proporre come alternativa – e unica alternativa – il sacrificio non rende conto in maniera adeguata del momento “violento” che caratterizza la croce di Cristo. Nel sacrificio, infatti, il momento violento è inteso dal sacrificatore come momento positivo, che espia il peccato e rende gloria a Dio come tale; nella croce di Cristo, invece, il momento violento è visto come sommamente negativo e solo il suo “patirlo” con amore di dedizione ha una funzione positivo-salvifica. E per esprimere ciò è molto più adeguato ricorrere alla categoria della “autodonazione ad una causa”, perseguita con coerenza anche se si trova opposizione, fino ad affrontare la morte, a favore dei propri amici, della propria famiglia o della propria patria. Un categoria non-sacrificale pienamente comprensibile ed ampiamente sperimentata anche nel mondo contemporaneo e al tempo stesso profondamente evangelica, come nel detto: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13)[34].
Come uscirne
4, 3. La presa di distanza dalla categoria del sacrificio per il suo ineliminabile “nucleo cruento” o “distruttivo”.
Questo terzo tipo di risposta teologica alla critica al sacrificio e alla mentalità sacrificale è certamente la più radicale. L’abbiamo visto ben delineata nelle sue motivazioni di fondo in Roberto Mancini: la categoria del sacrificio, come la storia degli effetti ha mostrato nella diffusione della mentalità sacrificale in Occidente, porta indissolubilmente con sé la valorizzazione in positivo del momento distruttivo della vita. È quindi fuorviante mettere sotto lo stesso nome il dinamismo salvifico dell’autodonazione di amore per la causa del Regno di Dio e della salvezza degli uomini, fino ad affrontare con coerenza di vita la reazione omicida dell’”Antiregno” (come lo chiamano i teologi della liberazione)[35] e lo pseudo dinamismo salvifico del sangue versato nei sacrifici cruenti. Dono e sacrificio obbediscono a logiche del tutto diverse e confliggenti.
È quanto sostiene anche Pier Angelo Gramaglia nel suo poderoso volume Sacerdozio e sacrificio (2009) già sopra citato. Nel contesto di un ampio esame filologico-esegetico dei diversi paradigmi soteriologici presenti nel NT per dire della morte di Cristo ed in particolare di quello del sacrificio espiatorio, si osserva che il paradigma soteriologico dell’autodonazione amorevole di Cristo, cui corrisponde un atto di condono-perdono da parte di Dio, non solo è differente ed indipendente da quello sacrificale espiatorio ma è con esso confliggente[36]. Ed anche a suo avviso, la lettura sacrificale della sua croce, fatta sullo sfondo del rituale ebraico del sacrificio di espiazione – ove Dio viene placato o risarcito dal sangue delle vittime, dato che “senza spargimento di sangue non c’è remissione dei peccati” – è «in radicale antitesi con la prassi del perdono dei peccati da parte del Gesù storico» (Ivi, p. 368). Donde la proposta di lasciare cadere la categoria sacrificale limitandosi a quella dell’autodonazione.
«Una lettura più esplicita del senso salvifico della morte di Cristo come auto-oblazione della propria vita per gli uomini potrebbe disincagliarsi assai meglio dalle ideologie sacrificali espiatorie e porre la salvezza in un atteggiamento effettuale solo più vincolato alla preferenza di Dio nei confronti della vita di Cristo come fondamento della possibilità di perdono dei peccati per ogni uomo che si converte» (Ivi, pp. 373-374).
Riflessione filosofico-teologica e filologico-teologica sembrerebbero quindi convergere nel suggerire l’abbandono della categoria sacrificale perché in se stessa ambigua, in contrasto con lo spirito evangelico originario, comunque non più in grado di comunicarlo nel nostro contesto culturale nella sua autenticità di buona novella della salvezza di Dio portata da Gesù agli uomini di ogni tempo.
Non so se questa proposta di abbandono della categoria sacrificale possa avere qualche possibilità di recezione nella teologia cristiana, che pur avendo ampiamente modificato, metaforizzandoli e spiritualizzandoli, il concetto e la prassi del sacrificio, ne ha mantenuto il nome non solo in riferimento alla croce salvifica di Cristo ma anche ai più diversi aspetti della spiritualità cristiana e, massicciamente, nella liturgia eucaristica.
Mi pare però che la proposta si debba tenere in massimo conto come pungolo per un verso a non assolutizzare questa categoria, quasi che fosse indispensabile al messaggio cristiano, e soprattutto ad usarla con grande accortezza critica, dicendola e al tempo stesso disdicendola continuamente (per esprimermi con terminologia levinassiana), perché mentre la si dice essa porta inevitabilmente con sé qualcosa che va disdetto[37]. Altrimenti si rischia di non indirizzare lo sguardo nella direzione giusta del mistero di Dio. Il che invece dovrebbe essere il compito, rischioso e affascinante ad un tempo, del linguaggio teologico.
Giovanni Ferretti
(relazione tenuta al convegno dell’ATI, associazione dei teologi italiani, nel settembre 2015)
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[1] Sui limiti del linguaggio teologico, che “deve parlare dell‘incomprensibilità di Dio” e non può quindi parlarne che attraverso “affermazioni analogiche”, ha scritto pagine toccanti K. Rahner nella sua ultima conferenza dal titolo Esperienze di un teologo cattolico, tenuta in occasione del suo ottantesimo compleanno, poche settimane prima della morte, e che può essere considerato il suo “testamento intellettuale e spirituale”. Cfr. K. Rahner, Esperienze di un teologo cattolico (or. ted. 1984), tr. it. di C. Danna in A. Raffelt e H. Verweyen, Queriniana, Brescia 2004, pp. 159-180. E sono notissime le espressioni dialettiche con cui si esprime Karl Barth quando afferma che il teologo ad un tempo “deve” parlare di Dio e “non può” parlare di Dio. Cfr. K. Barth, La parola di Dio come compito della teologia (or. ted. 1922), tr. it. in Jürgen Moltmann (a cura di), Le origini della teologia dialettica, Queriniana, Brescia 1976, pp. 236-258 (cit. p. 238).
[2] Così si esprime, ad esempio, J.-L. Nancy, Un pensiero finito (or. fr. 1990), tr. it. a cura di Luisa Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992, p. 233. Un’opera su cui ritorneremo in seguito.
[3] Il termine è utilizzato da Nietzsche là ove qualifica Paolo un “disangelista”. Cfr. in Fr. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, tr. it. Adelphi, Milano 1977, p 55 (v. Opere, ed. Colli-Montinari, VI, III, 165-261).
[4] Per una discussione delle due categorie, con netta preferenza per la seconda, cfr. F. G. Brambilla, Redenti nella sua croce. Soddisfazione vicaria o rappresentanza solidale?, in G. Manca (a cura di), La redenzione nella morte di Gesù. In dialogo con Franco Giulio Brambilla, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, pp. 15-83.
[5] Tale interdizione si ebbe, come noto, da parte dell’imperatore Teodosio nel 385 d. C.
[6] Cfr. Guy G. Stroumsa, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, (or. fr. 2005), tr. it. di V. Zini, Einaudi , Torino 2006.
[7] Ivi, pp. 67 e 82.
[8] Cfr. Nancy, Un pensiero finito cit., p. 218, con particolare riferimento a G. Bataille e a G. Gusdorf. Di quest’ultimo si rimanda a L’espérience humaine du sacrifice, Puf, Paris 1948.
[9] Fr. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, ed. Colli-Montinari, VI, II, p. 54. Questa identificazione dell’essenza del cristianesimo nel sacrificio non è la peculiarità di un Nietzsche ormai inattuale. E’ diffusa a livello popolare ed è presente anche in filosofi religiosamente attenti e sensibili. L’ho ritrovata recentemente, con sorpresa, nel filosofo Jacques Rolland, uno dei migliori interpreti di Levinas. In una scambio epistolare con Silvano Petrosino sul significato comparato del sacrificio di Isacco e di quello di Cristo in croce, egli parla della «essenza insormontabilmente sacrificale del cristianesimo», aggiungendo che «è proprio questo che mi allontana da esso» (Cfr. S. Petrosino, Il sacrificio sospeso, Jaca Book, Milano p. 23).
[10] Fr. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, ed. Colli-Montinari, VI, II, p. 263.
[11] Fr. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, tr. it. Adelphi, Milano 1977 (v. Opere, ed. Colli-Montinari, VI, III, 165-261)
[12] Come non ricordare, in relazione a questo testo, l’affermazione di Paolo in 2 Cor 1, 19-20 ove Cristo è detto solo “sì” nei confronti nostri, il “sì” di tutte le promesse di Dio? Un passo che forse varrebbe la pena di tener presente e valorizzare anche a proposito del tema del sacrificio.
[13] M. Horkheimer e Th. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, (ed ted. del 1947), tr. it. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966.
[14] Nancy. Un pensiero finito cit.
[15] Oltre ai già citati Nietzsche e Horkheimer e Adorno, potremmo qui ad esempio segnalare, tra gli esponenti di tale critica, S. Freud, Marcel Mauss, María Zambrano, René Girard, Jacques Derrida, Paul Ricoeur.
[16] Il nostro linguaggio è indubbiamente ancora oggi impregnato di tale “fascinazione”, come risulta dall’attribuire ai “mercati finanziari” la richiesta di “sacrifici” ai singoli e ai popoli per salvarli dal fallimento. Ove i mercati appaiono come i nuovi idoli da ammansire e blandire con i nostri sacrifici per evitarne l’ira distruttiva.
[17] Cfr., in proposito, anche Stroumsa, La fine del sacrificio, cit, p. 81, ove si parla delle conseguenze aberranti della trasformazione del sacrificio in “autosacrificio” – in cui l’offerente si trasforma in offerta – che si ha nel fenomeno contemporaneo dei kamikaze, con riferimento alle annotazioni di Mohamed Atta, il leader terrorista dell’11 settembre 2001, ove si descrivono i rituali religiosi da compiere onde attuare il proprio autosacrificio in stato di purezza fisica e spirituale.
[18] R. Mancini, L’ascolto alla radice. Teologia dialogica della verità, ESI, Napoli 1995 (2^ ed. Ivi 2009), p. 196. Oltre che in questa opera, Mancini ha affrontato il tema del sacrificio in diverse altre opere successive. Ad esempio Il senso della fede. Una lettura del cristianesimo, Queriniana, Brescia 2010, pp. 134-143; La logica del dono. Meditazioni sulla società che credeva d’essere un mercato, Messaggero, Padova 2011, pp. 35-41; Per un cristianesimo fedele. La gestazione di un mondo nuovo, Cittadella, Assisi 2011, in particolare il cap. III, “Dal sacrificio alla misericordia”, pp. 53-72; Vivere la fede nella libertà dell’amore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014.
[19] Mancini, L’ascolto alla radice, cit., p. 170.
[20] Ma la sovrapposizione si trova già in Paolo. Cfr., ad esempio, Rom. 3, 24-26 con Rom 5, 8-11.
[21] Il “dono” che è in questione nell’analisi della “logica del dono” che Mancini sviluppa, non è ovviamente il “dono-regalo”, l’oggetto chi si dona isolato dalla persona che lo dona, ma il dono in quanto implicante una “autodonazione di amore”, l’offerta di una relazione coimplicante, vivificante, generativa, con assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro e appello ad una libera risposta di amore, ad una reciprocità gratuita.
[22] Mancini, Per un cristianesimo fedele, cit, p. 66.
[23] R. Mancini, Dio nella misericordia. L’identità evangelica di amore, giustizia e verità. In «Filosofia e teologia», 2/2015, pp. … , ripreso ed ampliato nel volume La non violenza della fede. Umanità del cristianesimo e misericordia di Dio, Queriniana, Brescia 2015.
[24] V. Un prezioso e ben documentato elenco (in numero di 13) e relativa illustrazione delle diverse categorie o paradigmi, tra loro diversificati ed anche indipendenti, presenti nei testi neotestamentari circa il senso della morte di Cristo in croce, si può trovare in P. A. Gramaglia, L’eucaristia in Paolo, Torino 2007 (pubblicato in proprio), pp. 645-751. Da parte sua J. Werbick, Soteriologia (or. ted. 1990), tr. it. di D. Pezzetta, a cura di G. Canobbio, Queriniana Brescia, 1993, elenca ed esamina quattro differenti modelli soteriologici in relazione all’uso di quattro metafore: la vittoria sulle potenze, la relazione che redime, la partecipazione che sana, l’espiazione. Jon Sobrino, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth (or, sp. 1993(, Cittadella, Assisi 1995, pp. 382 ss. esamina, oltre al modello soteriologico del “sacrificio”, quello della “nuova alleanza” e quello del “servo sofferente”. E si potrebbe forse anche ricordare, per una relativizzazione della categoria soteriologica del sacrificio, come San Tommaso in S. Th. III, q. 48, esaminando i vari modi con cui la passione di Cristo ha causato la nostra salvezza, elenca, oltre al sacrificio, il merito, la soddisfazione e la redenzione, tutti riportandoli all’amore (debbo questo ultimo riferimento a Giacomo Cannobbio).
[25] Cfr. ad esempio P. A. Gramaglia, Sacerdozio e sacrificio, Torino 2009 (pubblicato in proprio), con ampia documentazione.
[26] La loro introduzione rifletterebbe la rottura ormai consumata della comunità matteana con l’intero istituto sacrificale del culto giudaico e risponderebbe all’intento di fondare nei profeti quello che viene presentato come un atteggiamento sovversivo di Gesù (Cfr. Gramaglia, Sacerdozio e sacrificio cit, pp. 125-126; 138-139).
[27] Ibid., p. 361, n. 190.
[28] Per Agostino v., ad esempio, Città di Dio, X, 6: «Vero sacrificio è ogni opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità e che ha come fine quel bene che ci rende veramente felici». Per San Tommaso, che tra l’altro cita proprio questo testo di Agostino, v. ad esempio S. Th III, q. 22, 2 C, ove è detto che si può chiamare sacrificio «omne illud quod Deo exhibetur ad hoc quod spiritus hominis feratur in Deum»; e S. Th II.II, q. 85, 3, ad 2, ove si ricordano i vari beni che l’uomo può offrire a Dio: beni dell’anima: atti interiori di devozione e preghiera; beni del proprio corpo: nel martirio, nell’astinenza e nella continenza; beni esteriori, offerti a Dio direttamente o indirettamente, dandoli al prossimo propter Deum.
[29] Cfr. in proposito Gramaglia, Sacerdozio e sacrificio, cit., p. 796.
[30] G. Lohfink, Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu, (or. ted. 2012), tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 2014, nel cap. 16 intitolato “Morire per Israele”.
[31] Werbick, Soteriologia cit.
[32] Un’attenta rilettura del Cur deus homo di Anselmo ci convince che la sua celebre dottrina della soddisfazione vicaria non dipende essenzialmente da una visione feudale del rapporto Dio-uomo, ove Dio sarebbe il Signore indignato per il suo onore ferito, che richiede una riparazione/soddisfazione all’altezza della gravità infinita di una offesa alla sua infinita Maestà. Anche per Anselmo Dio è infinitamente misericordioso e vuole ad ogni costo la salvezza degli uomini peccatori. Onde il suo farsi uomo per soddisfare al posto nostro. Resta però che la sua concezione è legata ad una visione dell’ordine morale del mondo (anche con debiti stoici), ove il ristabilimento dell’ordine rotto dal peccato non si può avere che con una pena adeguata al peccato. Solo la pena, infatti, può rimettere il peccatore nell’ordine del mondo voluto da Dio. Donde la critica che egli, come già Agostino, rivolge ai “misericordes”, cioè a coloro che ritengono che Dio possa e voglia perdonare i peccatori per pura misericordia, senza un’adeguata pena. Sarebbe lasciare sussistere il disordine nel mondo: «quoniam recte ordinare peccatum sine satisfactione non est nisi punire: si non punitur, inordinatum dimittitur» (Ivi, I, 12). Se lasciamo cadere come inadeguata questa visione morale del mondo, con la sua concezione della pena come indispensabile al ristabilimento dell’ordine cosmico ferito, resta, come istanza implicita nella visione di Anselmo, che il perdono di Dio, sia pure per pura e gratuita misericordia, non va a buon fine se l’uomo non vi corrisponde con il pentimento e la conversione, non prive di fatica e sofferenza. Il perdono è sempre, infatti, l’offerta di una ripresa di relazione vitale, mai un semplice lasciare il peccatore nella sua situazione di peccato quale rifiuto della buona relazione con Dio e con il suo creato. Il che suppone, però, che si passi da una visione sostanzialistica ad una visione relazionale sia del peccato che della salvezza dal peccato o giustificazione/grazia.
[33] C’è da chiedersi se basta l’intenzione per qualificare la natura del mezzo che si usa per metterla in atto. Come se l’intenzione educativa di un padre che usa a tal fine il “castigo”, bastasse per chiamare “castigo” anche l’uso, a tal fine, del “dialogo”. Il “sacrificio” si chiamava così per l’intenzione di comunicare con Dio, che lo suscitava, o per la modalità usata a tal fine, l’offerta di una vittima? Istruttivi, per una risposta, potrebbero essere i due significati di sacrificio riportati nell’Oxford Advanced Learners Dictionary: a) “atto di offrire qualcosa a un dio, specialmente un animale che è stato ucciso secondo una procedura particolare” e b) “l’animale ucciso” nel sacrificio (cit. in S. Simonse, Il sacrificio come fattore di sostituzione tra la reciprocità negativa e la reciprocità positiva, in «Concilium», 4/2013, p. 52).
[34] Gramaglia, Sacerdozio e sacrificio, cit. p. 381, vede in Gv. 15, 13 un’eco del modello ellenistico della “morte nobile ed eroica a vantaggio di una collettività”, per salvare altre persone: una forma di sostituzione vicaria senza alcuna sacrificalità espiatoria.
[35] Cfr., ad esempio, Sobrino, Gesù Cristo liberatore, cit. pp. 166ss; 219ss. Particolarmente interessante, in questa opera peraltro pregevolissima per molti aspetti, l’individuazione della “necessità” della morte violenta di Cristo non in un imperscrutabile decreto divino, ma in una forma di “necessità storica”, quella della reazione dell’Antiregno alla proclamazione e testimonianza del “Regno di Dio” fatta da Cristo. Reazione che Gesù ben presto previde e che affrontò liberamente senza arretrare nel fare la volontà di Dio. Ed in questo la sua morte fu secondo il volere di Dio.
[36] Cfr. Gramaglia, Sacerdozio e sacrificio, cit., pp. 462-463.
[37] Sulla dialettica di “Detto” e “Disdetto” in Levinas, cfr. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, p. 188; tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M. T. Aiello, con introd. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983. Ma una simile dialettica è ben testimoniata, ad esempio, nella conferenza sopra citata di Rahner, ove si dice che le nostre affermazioni su Dio sono in qualche modo legittime «soltanto se, nello stesso tempo, le revochiamo, soltanto se sopportiamo la scomoda oscillazione tra il sì e il no quale vero e unico punto saldo della nostra conoscenza e lasciamo così anche sempre cadere le nostre affermazioni nella silente incomprensibilità di Dio” (K. Rahner, Esperienze di un teologo cattolico, cit. p. 163).