TORNA LA SCHIAVITU’
TORNA LA SCHIAVITU’
Ci sono nel mondo 45,8 milioni di schiavi, la maggior parte in India. In Italia 128.600. Per il persistere di vecchie culture e per gli effetti della globalizzazione, nuove schiavitù, anche se non chiamate così, si stanno diffondendo su vasta scala. Il lavoro schiavo e la proprietà sulle donne. Quali lotte e quali nuove garanzie per liberare le persone dall’essere cosa
Luigi Ferrajoli
1. La schiavitù purtroppo non è affatto un ricordo di un antico passato. Benché rappresenti la negazione più vistosa della dignità della persona e più in generale di tutti i valori della nostra civiltà – dall’uguaglianza, ai diritti della persona – essa è tornata ad essere, ad opera dei poteri selvaggi che dominano l’attuale mondo globalizzato, un fenomeno diffuso perfino nei nostri civili ordinamenti.
Vietata dal diritto, in crescita nei fatti
Ciò che distingue la schiavitù odierna dalla schiavitù del passato – non solo dalla “schiavitù degli antichi”, ma anche dalla “schiavitù dei moderni” affermatasi con le dominazioni coloniali [1]– è il suo carattere illegale. A differenza dalla schiavitù del passato, sia quella del mondo antico che quella del mondo coloniale, consistente nella “proprietà legale” degli schiavi, la schiavitù è oggi prevista come delitto in tutti i Paesi civili ed è stigmatizzata dal diritto internazionale come crimine contro l’umanità. E’ solennemente vietata dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani, il cui articolo 4 la proibisce “sotto qualsiasi forma” e aggiunge, nell’art. 23 comma 3°, che “ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana”. E’ prevista come delitto dai codici penali di tutti i Paesi avanzati, come per esempio quello italiano che la punisce nel suo art. 600 con la reclusione da otto a venti anni e la definisce come la condotta di chi “esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà” ovvero “riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento”, ove la condotta sia “attuata mediante violenza, inganno, abuso di autorità” o approfittando “di una situazione di inferiorità” della parte offesa. E’ infine prevista come crimine contro l’umanità dall’articolo 5 dello Statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma il 17.7.1998, [2] che definisce la riduzione in schiavitù, nella lettera c) del suo secondo comma, come “l’esercizio di alcuni o di tutti i poteri connessi al diritto di proprietà, incluso il traffico di persone, in particolare di donne e bambini a fini di sfruttamento sessuale” [3].
Tuttavia, il fatto che la schiavitù, quale trattamento di un essere umano come cosa anziché come persona, sia oggi un crimine non diminuisce affatto la gravità del fenomeno. Semmai il suo carattere illecito e di solito clandestino si associa al suo carattere occulto, cioè all’enorme cifra nera delle riduzioni di fatto in schiavitù, e perciò ai trattamenti crudeli e disumani ai quali la persona schiavizzata è sottoposta, grazie anche alla loro invisibilità. Soprattutto, poi, il fenomeno è in crescita. Benché il suo carattere invisibile ne renda difficile una precisa quantificazione, è stato calcolato che nel 2016 il numero delle persone che vivono in stato di schiavitù ha raggiunto i 45,8 milioni: 18,35 milioni in India, 3,39 milioni on Cina, 2,13 milioni in Pakistan, 1,53 milioni nel Bangladesh. Nella Corea del Nord si calcola che il 4,37% della popolazione, circa 1 milione di persone, di cui 200.000 prigionieri politici, vivono in condizioni di schiavitù. Perfino l’Europa non è esente da questa vergogna. In Italia, in particolare, è stato calcolato che ci sono 128.600 schiavi. E forse gli schiavi sono ancor più numerosi: secondo quanto sostengono talune organizzazioni non governative, il loro numero nel mondo arriverebbe a 200 milioni[4].
Insomma la schiavitù non è affatto un relitto di un lontano passato e perciò un problema di interesse solo storiografico, ma una realtà tuttora attuale, e perciò una questione aperta, drammaticamente, dagli innumerevoli fenomeni di segregazione, di sfruttamento e di sevizie. La sua fenomenologia – sia pure nel senso ristretto di riduzione di una persona a cosa di proprietà di un’altra, secondo le definizioni normative appena ricordate – è inoltre estremamente eterogenea: si va dalle svariate forme dello sfruttamento sessuale di donne e bambini alle tratte di esseri umani e principalmente di donne, dai traffici di organi alla vendita di spose bambine, fino alle molteplici forme del lavoro forzato e della servitù domestica.
Ebbene, è di queste due ultime forme di schiavitù che qui intendo parlare: non quindi della schiavitù chiaramente rientrante nella fenomenologia criminale, come la tratta delle donne avviate alla prostituzione, la segregazione al fine di trapianti di organi, o la schiavitù nel senso tradizionale della vendita di corpi umani che pure ha fatto la sua ricomparsa come ha mostrato il video della Cnn del novembre scorso che ha documentato la vendita all’asta, in Libia, a Tripoli, di giovani migranti. Parlerò invece in primo luogo del lavoro schiavo, in condizioni di totale soggezione e sfruttamento, e in secondo luogo della soggezione di molte donne quale è determinata, perfino nei nostri paesi, dal regime di violenza domestica al quale sono sottoposte. Si tratta di due fenomeni che sono sicuramente i più diffusi nella fenomenologia della schiavitù odierna – l’uno del tutto nuovo perché prodotto dalla globalizzazione, l’altro tra tutti il più antico – e che sono accomunati a) dalla mancanza di un confine rigido e netto tra subordinazione e schiavizzazione e b) dal fatto che, pur avendo tutti i tratti costitutivi del crimine di schiavitù, non vengono di solito perseguiti come crimini perché non denunciati, o peggio non percepiti come tali, o peggio ancora, perché neppure percepiti ma semplicemente occultati.
Lavoro schiavo e lavoro merce
2. La prima forma di schiavitù che voglio segnalare è dunque quella che si manifesta nei rapporti di lavoro. E’ chiaro che il confine tra riduzione in schiavitù e sfruttamento selvaggio del lavoro è un confine incerto. Abbiamo infatti gradi diversi di soggezione, che vanno dalla totale riduzione in schiavitù, generata dall’impossibilità del lavoratore di sottrarsi al dominio del padrone, alla semi-schiavitù riconoscibile in quella zona ampia di confine che separa la schiavitù dallo sfruttamento sia pure selvaggio del lavoro ma non totalmente coercitivo.
Il lavoro schiavo rappresenta gran parte della schiavitù presente in India, in Cina, in Pakistan, nel Bangladesh e in Mauritania. Impiega in larga misura il lavoro infantile e riguarda sia la produzione industriale manifatturiera, sia e forse più ancora la produzione agricola. Il fenomeno, peraltro, non è limitato soltanto ai Paesi poveri o comunque arretrati sul piano dei diritti. Fenomeni di lavoro agricolo schiavo sono stati denunciati nel Michigan, dove nella raccolta dei mirtilli vengono sfruttati, grazie alle loro piccole mani, soprattutto bambini immigrati dal Messico; o in Florida, dove un documentario ha mostrato il lavoro schiavo di braccianti che raccolgono pomodori lavorando 10 ore al giorno per un salario di 40 dollari la settimana (pari a 66 centesimi l’ora); oppure, qui in Italia, a Rosarno, in Calabria, dove nel 2010 si è scoperto l’impiego di migranti nella raccolta di agrumi in condizioni di schiavitù.
Ebbene, questa schiavizzazione del lavoro è all’origine dei bassissimi prezzi dei prodotti sul mercato globale. Dovremmo sempre pensare al carico di sofferenze e di violazioni della dignità umana che stanno dietro al nostro cibo, o ai giocattoli o agli indumenti e alle migliaia di inutili oggetti con cui riempiamo le nostre case. Questo lavoro schiavo rappresenta l’esito estremo di un gigantesco processo di svalutazione e di sfruttamento del lavoro che è stato messo in atto da oltre 20 anni di globalizzazione selvaggia dell’economia e che ha letteralmente demolito, anche in Paesi come l’Italia, il vecchio diritto del lavoro con tutte le sue garanzie conquistate in decenni di lotte operaie e sindacali. E’ una svalutazione massiccia del lavoro, provocata dall’azione congiunta di due fenomeni, tra loro connessi l’uno come effetto dell’altro: la crescita della disoccupazione nei Paesi avanzati e la concorrenza dei prodotti importati dai Paesi poveri, dove il lavoro è ancor più sfruttato fino a forme di vera schiavizzazione. Come ha scritto Luciano Gallino, sono stati messi “in competizione tra loro il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende con salari miserabili” [5]. La competizione è stata perciò generata da quel tratto costitutivo della globalizzazione che è la libera circolazione dei capitali, eufemisticamente detta “concorrenza tra ordinamenti”: una concorrenza nella quale ovviamente prevalgono, perché meglio attraggono gli investimenti, gli ordinamenti nei quali si può impunemente sfruttare il lavoro, fino alla schiavizzazione, oltre che inquinare l’ambiente, evadere le imposte e corrompere i governi.
E’ chiaro che questa concorrenza tra lavoratori, sotto il ricatto della fuga degli investimenti nei Paesi nei quali il lavoro può essere sfruttato in forme schiaviste o para-schiaviste, si è svolta totalmente al ribasso, con lo smantellamento di tutte le garanzie dei diritti dei lavoratori nei Paesi avanzati. La politica, infatti, non solo non ha contrastato, ma ha determinato e poi favorito questa corsa alla svalutazione e mercificazione del lavoro, dapprima con le leggi che hanno liberalizzato la circolazione dei capitali e degli investimenti e poi con la legislazione che ha soppresso tutte le garanzie dei diritti dei lavoratori, a cominciare da quella della stabilità del posto di lavoro – il diritto ad avere diritti, secondo una celebre espressione di Hanna Arendt – rendendo flessibili e precari tutti i rapporti di lavoro e rimodellandoli, come nel primo Ottocento, sulla base del rifiuto di ogni regola e sul potere assoluto e incondizionato dei datori di lavoro.
I risultati di questa aggressione al lavoro ad opera delle politiche liberiste sono stati due. Il primo è stato un gigantesco spostamento del reddito nazionale, senza precedenti nella storia, dal lavoro al capitale. Nel trentennio 1976-2006, ha scritto Luciano Gallino, la quota dei redditi da lavoro è calata, nei 15 paesi più ricchi dell’OCSE, in media di 10 punti, passando dal 68 al 58% del Pil e precipitando in Italia di ben 15 punti, al 53% [6]. Ciò significa, se si considera che in Italia un punto di Pil equivale a 16 miliardi di euro, che ben 240 miliardi di euro ogni anno sono stati sottratti ai lavoratori e trasferiti ai profitti e alle rendite. Si aggiunga la disuguaglianza abissale e costantemente in crescita tra gli stipendi più alti e i salari più bassi: negli anni Sessanta e Settanta i grandi manager guadagnavano 60 o 70 volte di più dei loro dipendenti; oggi la distanza è più che decuplicata, essendo gli stipendi dei primi 900 volte più elevati dei salari dei secondi.
Il secondo effetto di questa concorrenza al ribasso tra lavoratori è stata la crescita congiunta, come in una spirale, delle due mutazioni del lavoro sopra indicate: del lavoro schiavo nei Paesi poveri e del lavoro-merce nei Paesi avanzati; nei primi la crescita dello sfruttamento e delle condizioni disumane del lavoro schiavo o servile onde attrarre gli investimenti; nei Paesi ricchi la crescita della disoccupazione e della precarietà del lavoro e lo smantellamento dei diritti conquistati in decenni di lotte. Da un lato, dunque, lo sviluppo della schiavizzazione, dall’altro la svalutazione dei lavoratori ridotti, come nell’Ottocento, a merci in concorrenza tra loro, e perciò il loro senso di insicurezza, di mortificazione della propria dignità, di perdita dell’amor proprio, di angoscia e paura.
Naturalmente il lavoro precario e sotto-pagato generato, nei Paesi cosiddetti avanzati, dai processi di schiavizzazione del lavoro promossi nei Paesi poveri, non può essere, a sua volta, considerato lavoro “schiavo”. Esso consiste, all’opposto, nell’estrema mobilità della forza lavoro e nell’illusione della sua libera offerta come lavoro autonomo. I costi della flessibilità e della precarietà sono tuttavia enormi: non solo lo sfruttamento selvaggio, ma anche la costante esposizione del lavoratore alla minaccia della disoccupazione, e perciò l’incertezza del futuro, l’impossibilità di progettare la propria vita professionale e familiare, la necessità di rendersi disponibili sempre alle offerte di lavoro, il venir meno, a lungo andare, della fiducia in se stessi, la dissipazione di talenti e di competenze, il senso di solitudine e di abbandono, il crollo, infine, della solidarietà con gli altri lavoratori che in passato formava il presupposto della soggettività del movimento operaio e della lotta di classe e che oggi è sostituita dalla rivalità, dalla competizione e dal rapporto personale e diretto con i datori di lavoro. Non solo. Soprattutto, la possibilità del licenziamento senza giusta causa pagando una somma di denaro equivale, non meno del lavoro schiavo, alla mercificazione del lavoratore e alla sua trasformazione in cosa, priva di dignità e dotata non già di un valore intrinseco ma di un valore monetario. C’è uno splendido passo di Kant che enuncia con efficacia questa opposizione tra dignità della persona e prezzo: ciò che ha dignità, afferma Kant, non ha prezzo e ciò che ha prezzo non ha dignità [7]. Nel momento in cui si dà un prezzo al licenziamento, cioè alla persona di cui il datore di lavoro intende sbarazzarsi come se fosse una macchina invecchiata, si toglie dignità al lavoro e alla persona del lavoratore trasformandoli in merci.
La schiavitù femminile per effetto della violenza domestica
3. La seconda forma di schiavitù che voglio qui segnalare – forse la più diffusa, la più antica e la più invisibile – è quella che ha come vittime le donne. Non parlerò neppure in questo caso di fenomeni apertamente criminali come la tratta delle donne avviate alla prostituzione o le varie forme di sfruttamento sessuale, e neppure delle forme di schiavizzazione che si manifestano nella vendita di spose bambine, nella segregazione delle donne nei burqa e nell’imposizione ad esse di atti lesivi come l’infibulazione.
Parlerò invece della schiavitù domestica determinata dalla violenza maschile che nei casi estremi arriva al femminicidio: di un fenomeno, dunque, presente da sempre in tutto il mondo, anche nei nostri Paesi civili. Ci sono due tratti caratteristici della violenza maschile sulle donne che la distingue da qualunque altra forma di violenza: due tratti che di tale violenza sono, altresì, i principali fattori. Il primo consiste nella maggiore forza fisica degli uomini, che non consente alle donne nessuna legittima difesa. Il secondo consiste nella convivenza o comunque nella relazione domestica di solito obbligatoria, nella quale di solito l’uomo violento si trova con la donna che della violenza è vittima. La congiunzione di questi due fattori è alla base del dominio degli uomini sulle “loro” donne e della condizione di soggezione permanente delle donne ai loro padri o mariti nella vita domestica.
Si tratta di un dominio e di una soggezione totali, che ben consente di parlare di totalitarismo domestico, dato che la forza minacciosa del convivente violento genera uno stato di paura, di angoscia e terrore che annulla totalmente la libertà e la dignità della donna. Le violenze maschili del convivente o del coniuge – e più di tutte gli stupri, per il loro carattere traumatico e mortificante – è infatti, soprattutto, un atto di sopraffazione, con il quale l’uomo afferma il suo potere totale e annulla la libertà e la dignità femminile: un potere che ha i tratti del diritto di proprietà sulla donna, da esso ridotta a “cosa”, esattamente come nella definizione giuridica di schiavitù. La donna si trova, di fatto, letteralmente imprigionata nella sua casa, alla mercé della violenza maschile. Non può fuggire, anche perché la fuga non la salva dal pericolo della rappresaglia e della vendetta maschile.
Tutto questo, unitamente alla viltà dell’uso della forza contro una persona più debole, fa della violenza maschile domestica una violenza incomparabilmente più odiosa di quella che si manifesta nelle comuni percosse o lesioni. Non si tratta di una qualunque forma di lesione, conseguente a un diverbio contingente e occasionale. Si tratta bensì di una forma di annullamento dell’altro, esattamente come nella riduzione in schiavitù. La cosa straordinaria e inaccettabile è che questa specifica forma di violenza non è prevista né come reato autonomo né come specifica aggravante. C’è solo, nel diritto italiano, la circostanza comune a tutti i reati prevista dall’art. 61 n. 11 del codice penale e consistente nell’“aver commesso il fatto con abuso… di relazioni domestiche”, la cui applicazione comporta l’aumento della pena nella misura soltanto di un terzo.
Un paradosso della modernità: liberalismo e dominio privato
4. Ebbene, c’è un paradosso che accomuna queste due forme di riduzioni in schiavitù, quella nei luoghi di lavoro e quella nella famiglia, e sul quale voglio richiamare la nostra riflessione. All’origine di entrambe c’è l’idea liberale della sfera privata – famiglia e proprietà, vita domestica e mercato – come luogo non già di rapporti di potere e soggezione, ma unicamente di libertà negative: delle libertà, chiaramente, del maschio e del padrone, cioè della loro immunità dal potere, identificato a sua volta soltanto con il potere pubblico. L’immunità della famiglia come del lavoro e del mercato, quali sfere private di libertà, vale infatti a fondare una sorta di neo-assolutismo dei poteri privati selvaggi della moderna società capitalista e maschilista.
Quanto al lavoro schiavo, questa confusione è stata operata, con paradosso apparente, proprio dalla configurazione liberale dei rapporti di lavoro come rapporti di libertà. “Ognuno”, scrisse Locke, “ha la proprietà della propria persona”, e perciò della propria vita, della propria libertà e dei beni che sono il frutto del proprio lavoro. Per questo, egli aggiunse, “vite, libertà, averi [sono] cose ch’io denomino, con termine generale, proprietà” [8]. Di qui la legittimazione della proprietà, nel duplice senso di diritto reale di proprietà e di diritto civile di autonomia, come una libertà non diversa dalla libertà di coscienza o dalla libertà di stampa o di riunione o associazione, e dei rapporti di lavoro come rapporti di mercato tra soggetti formalmente liberi ed uguali anziché come rapporti asimmetrici di potere. Di qui la valorizzazione, nel pensiero liberale, della proprietà e dell’autonomia contrattuale come diritti della stessa natura e struttura delle libertà fondamentali. Laddove diritti di libertà, diritti reali di proprietà e diritti di autonomia contrattuale sono figure strutturalmente diverse e sotto più aspetti opposte: i primi sono diritti di tutti, in quanto tali base dell’uguaglianza, che non interferiscono, secondo il modello kantiano, con le libertà degli altri; i secondi sono situazioni singolari di potere, excludendi alios, che formano la base della disuguaglianza; i terzi sono a loro volta poteri il cui esercizio interferisce nella sfera giuridica altrui e sono alla base della disparità nei rapporti di lavoro, strutturati, in assenza di limiti e vincoli, come rapporti di sfruttamento e soggezione virtualmente estrema.
Un discorso in parte analogo può farsi per la servitù domestica delle donne. L’affermazione moderna dell’immunità del domicilio privato si risolve in una riduzione dei diritti della donna, in una sua maggior subordinazione all’uomo ‑ padre o marito ‑ e in una sua accentuata reclusione nella sfera privata della casa. Come è stato ampiamente documentato, le donne, di fatto, avevano maggiori diritti e maggior potere nel mondo rurale premoderno, allorquando la comunità domestica era autosufficiente, non c’era una netta distinzione tra pubblico e privato ed esisteva una divisione dei ruoli, in virtù della quale la gestione degli affari domestici e la cura dei figli era in gran parte affidata alla madre. Nell’età moderna, invece, la separazione dalla sfera pubblica della sfera privata, quale sfera affidata all’autonomia dell’individuo, equivale di fatto alla sua configurazione come sfera interamente maschile.[9] L’uomo appartiene al “pubblico”, che gli appartiene, mentre le donne ne sono rigidamente escluse, appartenendo al “privato”, che è poi il privato dell’uomo medesimo cui esse appartengono. Per questo, come ha scritto giustamente Maria Teresa Guerra Medici, “l’aria di città rende gli uomini liberi” mentre “non fa bene alle donne” [10]. Urbanizzazione e modernizzazione danno infatti luogo, in Italia fin dall’età comunale, a una restrizione dei diritti delle donne, che perdono ogni ruolo di potere, sono private totalmente della capacità civile d’agire, sono sottoposte allo jus corrigendi del coniuge che include il potere di picchiarle e punirle e, più in generale, sono messe sotto la tutela di padri, fratelli e mariti, proprio in forza dei diritti civili e di libertà a questi riconosciuti [11].
E’ questo il paradosso della modernità, segno e prodotto della confusione, che ho più volte illustrato, tra libertà e poteri privati [12].Vengono contrabbandate come libertà quelle che sono in realtà le potestà private nelle quali consistono i diritti civili: non soltanto la proprietà, ma anche i poteri dei datori di lavoro nella fabbrica e la patria potestà e la potestà coniugale nella famiglia, liberati gli uni e le altre, proprio perché concepite come libertà, da limiti e vincoli. La fabbrica e la famiglia, il mercato e l’universo domestico delle relazioni tra uomo e donna regrediscono così allo stato di natura: sono impenetrabili, immuni dal diritto perché in essi la potestà del padrone o del padre o del marito-padrone è tutt’uno con la sua libertà civile, inevitabilmente selvaggia.
Quali garanzie
5. Domandiamoci a questo punto: quali garanzie? Quali risposte e quali rimedi si possono opporre agli orrori di queste odierne schiavitù nelle quali possono trasformarsi il lavoro e la casa?
In materia di lavoro, la principale garanzia sarebbe un’unificazione dei rapporti di lavoro sulla base di una riforma globale del lavoro. Oggi il principale fattore di svalutazione del lavoro consiste nella possibilità delle grandi imprese di dislocare le loro attività produttive in Paesi – come la Cina, l’India, l’Indonesia, le Filippine, la Tailandia, il Vietnam, il Messico – in taluni dei quali si possono pagare i lavoratori, e soprattutto le lavoratrici, 50 o 60 centesimi di dollaro l’ora per 60 ore settimanali, in condizioni di lavoro spaventose, senza diritti né garanzie, sostanzialmente in stato di schiavitù. E’ chiaro che il solo limite a una tale concorrenza al ribasso tra lavoratori garantiti – o meglio, ormai, ex garantiti – dell’Occidente e lavoratori non garantiti del resto del mondo, sarebbe la stipulazione di un modello unitario e globale di diritti e di garanzie del lavoro, ad opera di adeguate convenzioni internazionali: in breve, una tendenziale unificazione giuridica dei rapporti di lavoro, all’altezza della globalizzazione. Più che mai attuale è insomma l’indicazione strategica di Marx “proletari di tutto il mondo unitevi!”, e perciò l’obiettivo della loro uguaglianza quale fattore della loro solidarietà e condizione della loro affermazione quale soggetto collettivo nel conflitto sociale.
Ciò che si richiede è insomma, come ha scritto Luciano Gallino, una “politica del lavoro globale”[13] idonea ad attuare una lunga serie di principi in materia di salari minimi, di orari di lavoro, di organizzazione sindacale e di altri diritti fondamentali elementari, proposti del resto fin dagli anni Settanta dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e dall’Organizzazione internazionale del lavoro e rimasti lettera morta. E’ chiaro che una simile politica globale del lavoro suppone a sua volta, quanto meno dai governi dei Paesi più ricchi, la volontà e la forza per imporsi ai mercati, quale solo può provenire da una sindacalizzazione sovranazionale del lavoro, da una ritrovata soggettività politica dei lavoratori e dallo sviluppo di lotte parimenti sovranazionali in difesa dell’uguaglianza nei loro diritti. Tutto questo appare oggi inverosimile. Ma sarebbe quanto meno un passo avanti verso l’uguaglianza nei diritti se un simile obiettivo fosse quanto meno, da qualche governo e ancor prima da qualche sindacato, posto all’ordine del giorno di una politica del lavoro razionale, oltre che egualitaria e garantista.
Non più facile è il processo di liberazione delle donne dalla violenza dei loro conviventi. Certamente non dobbiamo farci illusioni sulla capacità del diritto penale di porre fine alla sostanziale riduzione in schiavitù delle donne picchiate. Il diritto penale non è una bacchetta magica. Sarebbero tuttavia quanto meno necessarie una specifica configurazione della violenza domestica sulle donne come autonomo reato adeguatamente punito o, quanto meno, la sua previsione come una specifica aggravante dei reati di percosse o lesioni, con adeguati aumenti di pena: necessarie per la loro capacità di prevenzione ed anche per il ruolo performativo che sempre ha il diritto nella formazione del senso comune. Occorrerebbe inoltre introdurre ulteriori misure cautelari a tutela della donna, in aggiunta alle misure, introdotte dalle leggi n. 154 del 4.4.2001 e n. 38 del 23.4.2009, dell’allontanamento dalla casa familiare di chi è indagato per violenze domestiche e del divieto impostogli di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla donna lesa. Ho sempre criticato le misure di prevenzione personali. Ma almeno in questo caso si giustificherebbe, in aggiunta alla pena per le lesioni, il divieto di soggiorno del condannato nel comune di residenza della donna da lui offesa.
Segnalo infine due ordini di politiche e di riforme idonee a ridurre queste forme di schiavitù. La prima è una politica dell’uguaglianza diretta a ridurre le disuguaglianze e la povertà, sia a livello degli ordinamenti nazionali che a livello internazionale. Povertà e condizioni miserabili e degradanti di vita sono infatti, indubbiamente, le cause principali di simili violenze, la cui prevenzione richiede perciò, ben più che politiche penali, politiche sociali di redistribuzione della ricchezza iniquamente distribuita dal mercato capitalistico.
Il secondo ordine di misure consiste nel mutamento di paradigma che dovrebbe essere operato sia del diritto del lavoro che del diritto di famiglia, l’uno e l’altro sviluppatisi, nella nostra tradizione giuridica, nelle forme del diritto privato. Contro questa tradizione è necessario affermare la natura pubblica, e non privata, dei rapporti tra privati ove essi coinvolgono, come nella famiglia e nel lavoro, diritti fondamentali delle persone nei confronti di quanti, di diritto o di fatto, sono dotati, nei loro confronti, di poteri [14]. E’ il caso dei rapporti di lavoro, in ordine ai quali un secolo di lotte sociali ha conquistato una lunga serie di diritti fondamentali dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, oggi in gran parte vanificati dalla loro precarizzazione ma tuttora stabiliti nelle Costituzioni. Ma è anche il caso dei rapporti familiari, essendosi in questi ultimi decenni sviluppata un’espansione della dimensione pubblica del diritto di famiglia attraverso l’affermazione e la garanzia dei diritti fondamentali dei suoi membri: dei diritti dei minori e dei bambini, garantiti in forme sempre più penetranti dal diritto minorile, e dei diritti delle donne, emancipatesi infine, in tempi relativamente recenti, dalle loro secolari discriminazioni [15]. E’ stato insomma normativamente disegnato un modello costituzionale sia del lavoro che della famiglia, che richiede lo sviluppo di un costituzionalismo di diritto privato quale sistema di limiti e vincoli ai poteri altrimenti selvaggi che operano sia nei luoghi di lavoro che nelle case di abitazione [16].
Luigi Ferrajoli
(da una relazione tenuta il 18 dicembre 2017 a Napoli a un convegno di studio sulla schiavitù nel mondo antico e oggi)
[1] Si vedano, su questa distinzione, P. Castagneto, Schiavi antichi e moderni, Carocci, Roma 2001, pp. 97-100; Th. Casadei, Il rovescio dei diritti. Razza, discriminazione, schiavitù. Con un dialogo con Etienne Balibar, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 76-81, che associa la schiavitù dei moderni, legata all’età coloniale, a ragioni di tipo apertamente razzista, cioè all’idea dell’“inferiorità razziale dei neri”. L’abolizione della schiavitù moderna, sviluppatasi con la formazione degli imperi coloniali europei (di Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia e Olanda), avviene nel corso del secolo XIX. In Inghilterra, grazie anche all’impegno di William Wilberfoce (1759-1833), la tratta degli schiavi fu abolita con una legge del 25.3.1807 e la schiavitù con una legge del 26.7.1833. In Francia l’abolizione, già operata nel 1794 ma revocata da Napoleone nel 1802 su pressione dei coloni francesi, fu decretata nel 1848. Negli Stati Uniti l’abolizione della schiavitù avvenne, dopo la guerra di secessione, il 18.12.1865, con l’approvazione del 13° emendamento (pochi giorni dopo, il 24.12.1865, fu fondato il Ku-Klux Klan). Infine in Brasile la schiavitù fu abolita con la cosiddetta “Lei Aurea” del 13.5.1888. L’ultimo Paese in cui essa è stata abolita ufficialmente è la Mauritania, nel 1981.
[2] La prima dichiarazione internazionale contro la tratta e la schiavitù avvennero nel congresso di Vienna del 1815 con il Trattato per l’abolizione della tratta del 22.1.1815 e la Dichiarazione dell’8.2.1815. Il divieto della tratta degli schiavi dall’Africa fu poi stabilito da un trattato tra Francia e Inghilterra del 1831, cui aderirono il Regno Sardo nel 1834 e la Toscana nel 1838, e poi dal Trattato di Londra del 1841 tra Gran Bretagna, Austria, Francia, Russia e Prussia. Il divieto fu ribadito dall’Atto generale della Conferenza di Berlino del 26.2.1885 (in particolare dal suo art. 9) e dalla Conferenza di Bruxelles del 2.7.1890 e dal Trattato di San Germano del 10.9.1919. Si veda, su questi atti internazionali, M.R. Saulle, Schiavitù, c) Diritto internazionale, in Enciclopedia del diritto, vol. XLI, Giuffrè, Milano 1989, pp. 641-648
[3] La definizione riproduce la nozione di schiavitù già definita dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1926 promossa dalla Società delle Nazioni: “L’esclavage est l’état ou condition d’un individu sur lequel s’exercent les attributs du droit de proprieté ou certains d’entre eux” e poi dall’art. 7 lett. a) della Convenzione di Ginevra del 7 settembre 1956. Si ricordi inoltre l’articolo 4 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4.11.1950, che stabilisce che “nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù” né “essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio”, e che è ripreso quasi letteralmente dall’articolo 8 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16.12.1966 e dall’articolo 6 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo del 22.11.1969. Si ricordi anche il 9° Principio della Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 20.11.1959, secondo il quale “il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale o morale”; l’articolo 6 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo del 22.11.1969.
[4] T. Cardinale, La schiavitù oggi nel mondo, www.documentazione.info; Schiavitù moderna oggi nel mondo e in Italia, www.lifegate.it/persone/news/schiavitù-moderna . Si vedano inoltre K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale (1999), trad. it. di M. Nadotti, Feltrinelli, Milano 2000, che stima in 27 milioni il numero odierno di schiavi; M.G. Gianmarinaro, Neo-schiavismo, servitù e lavoro forzato: uno sguardo internazionale, in “Questione giustizia, n, 3, 2000, pp. 543-551; F. Resta, Vecchie e nuove schiavitù. Dalla tratta allo sfruttamento sessuale, Giuffrè, Milano 2008; Th. Casadei, Il rovescio dei diritti. Razza, discriminazione, schiavitù. Con un dialogo con Etienne Balibar, DeriveApprodi, Roma 2016, cap. III.
[5] L.Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2009, p. X e 38
[6] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paolo Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 104-105.
[7] “Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità” (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, [1785], sezione seconda, 434-435, trad. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, rist. in Id., Opere, Mondadori, Milano 2009, vol., III, p. 799).
[8] J. Locke, Due trattati sul governo. Secondo trattato (1690) tr.it. di L. Pareyson Utet, Torino 1968, cap. V, § 27, p. 260. “Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani”, prosegue Locke, “possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua” (ivi, pp. 260-261); cap. IX, § 123, p. 39
[9] Si veda, per esempio, M.T. Guerra Medici, L’aria di città. Donne e diritti nella città medievale, Esi, Napoli 1996. Non a caso questo rafforzamento del potere maschile sulla donna e sulla famiglia si produce simultaneamente alla nascita dello Stato moderno e dell’assolutismo regio: “quilibet in domo sua dicitur rex” è la norma fondamentale del nuovo ordine familiare, formulata da Giovanni d’Andrea a ripresa da Luca da Penne, analoga alla formula “rex in regno suo est imperator” che esprime il trapasso dalla comunità universale cristiana agli stati nazionali sovrani. Sull’“analogia tra le due formule, cfr. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità. Studio di diritto comune pubblico, (1944), II ed., Giuffrè, Milano 1951, pp.172‑174
[10] M.T. Guerra Medici, L’aria di città cit., p.13: “‘L’aria di città rende gli uomini liberi’, recitava un celebre detto medievale che, però, ci sembra difficile estendere alle donne”.
[11] Si vedano, di M.T.Guerra Medici, I diritti delle donne nella società alto‑medioevale, Esi, Napoli 1986; Id., L’esclusione delle donne dalla successione legittima e la ‘Constitutio super statutariis successionibus’ di Innocenzo XI, in “Rivista di storia del diritto italiano”, 56, 1983, pp.261‑294; Id., L’aria di città cit., pp.39‑46.
[12] Mi limito a richiamare Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, vol. I, § 2.4, pp. 157-161 e §§ 11.3-11.6, pp. 737-759, e vol. II, § 14.15, pp. 229-234 e §§ 14.19-14.21, pp. 253-265.
[13] Il lavoro non è una merce cit., cap. X, pp. 135 ss.
[14] Ho definito “sfera pubblica” come la sfera degli interessi pubblici e dei diritti fondamentali e la “sfera privata”, al contrario, come sfera degli interessi privati e dei diritti patrimoniali prodotti dall’esercizio dei poteri privati di autonomia, con le definizioni D11.36 e D11.37 in Principia iuris cit., vol. I, § 11.15, pp. 802-809
[15] In Italia è solo nel 1975 che viene abolita, con la riforma del diritto di famiglia, la “potestà maritale”. Il vecchio art.144 del codice civile stabiliva: “(Potestà maritale). Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. La discriminazione giuridica delle donne dura di fatto, in tutti i settori del diritto, fino al Novecento. In Italia è solo del 1919 la legge che sancisce l’autorizzazione maritale e la pienezza dei diritti civili delle donne. Solo nel 1945 viene ad esse esteso il diritto di voto. Infine, solo con la Costituzione repubblicana viene stabilita, negli articoli 3 e 51, l’uguaglianza giuridica tra uomini e donne e il loro pari diritto di accedere ai pubblici uffici. Ma la discriminazione continuerà a lungo. Solo con una legge del 1963 le donne sono ammesse a tutti i pubblici uffici, compresa la magistratura, e solo nel 1981 all’ingresso nella polizia. Ancora durante tutti gli anni sessanta, fino alla sentenza costituzionale n.147 del 27.11.1969, erano punite per adulterio solo le donne, mentre gli uomini erano puniti solo per concubinato. E bisognerà attendere una legge del 1981 per veder soppressi l’omicidio per causa d’onore e il matrimonio come causa di estinzione del delitto di violenza sessuale.
[16] Ho delineato la prospettiva di un costituzionalismo di diritto privato in Principia iuris cit., vol. II, § 14.14-14.21, pp. 224-266; La democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna 2016, cap. X, pp. 81-89; Costituzionalismo oltre lo Stato, Mucchi, Modena 2017; Manifesto per l’uguaglianza, in corso di pubblicazione, Laterza, Roma-Bari 2018, cap. 8, pp. 220 ss.