TORNIAMO AD ESSERE UMANI
All’assemblea del 2 dicembre
TORNIAMO AD ESSERE UMANI
Da tempo abbiamo smesso di esserlo, e di essere cristiani. Torniamo a costruire una società che abbia al centro la vita e l’uomo e non più l’idolatria del denaro e la supremazia della forza; parliamo ai giovani dal cuore di una Chiesa rinnovata
Felice Scalia
Intervento di Felice Scalia, gesuita, all’assemblea romana del 2 dicembre di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”:
La mia prima reazione al titolo di questa assemblea fu vissuta in termini che potrei dire agghiaccianti. “Ma viene un tempo ed è questo”, mi richiamava alla necessità storica di toglierci finalmente la maschera che nasconde una nostra identità umana e cristiana a dir poco, piuttosto disonorevole.
In un Occidente che nega il diritto di esistere a milioni di persone, ci si può ancora dire cristiani? Se ipocritamente continuiamo a farlo è perché abbiamo indossato una maschera di perbenismo affaristico che spacciamo per cristianesimo.
Ovviamente l’argomento dell’assemblea non era così allarmistico, ma non per questo meno pressante. Il senso del nostro convenire l’hanno dato diversi Relatori. L’ha spiegato Raniero La Valle, l’ha ribadito il professore Ferrajoli. Tuttavia vorrei ritornare sulla mia prima interpretazione del titolo dell’Assemblea, quasi a volere sottolineare l’urgenza della conversione a cui ci richiama la provvidenziale presenza di papa Francesco a Roma.
Ho la precisa sensazione che da tempo abbiamo smesso di essere umani e cristiani. Non siamo più umani, non siamo più cristiani, anche se ci diciamo tali. È costosa questa operazione di camuffamento. Significa essere costretti ad indossare divise di oscenità e ipocrisia.
Quando – finita la guerra – per un breve periodo siamo stati davvero umani, abbiamo affermato il diritto di tutti ad avere diritti. Poi abbiamo smesso di dire cose simili, ed abbiamo preteso da centinaia di milioni di persone il “dovere” di non pretendere tanto, di non reclamare i propri diritti. Che essi esistessero pure, ma da rifiuti, esuberi, paria.
Non da oggi ma da secoli, abbiamo anche smesso di poterci dire cristiani. L’Europa privilegiata è stata costruita da cristiani che tranquillamente hanno creduto di potere mettere insieme Vangelo e rapina, Vangelo e sterminio di popoli. Cristiani che hanno conquistato e schiavizzato, che sono stati colonialisti, che sono giunti a giustificare il “diritto di conquista”, cioè il diritto ad usare “la forza come fondamento della giustizia”. Esattamente quello che rivendicano gli “empi”, sragionando, secondo il testo biblico di Sapienza 2. Cristiani quindi che hanno agito secondo la legge della giungla, non della ragione e tanto meno dell’amore.
Tutto ciò, in modalità diverse, permea la storia contemporanea. Per questo non siamo più umani e non siamo più cristiani. Viviamo contraddicendo il Vangelo, che è esattamente un anelito alla condivisione, alla fratellanza, alla fondamentale uguaglianza nella dignità, di ogni nato da donna.
Gesù è perentorio: nel mondo gli uomini vivono da nemici in lotta fratricida, ma tra voi non deve essere così perché voi siete fratelli, “Vos, autem, fratres estis”.
Interpellato dalle evocazioni del tema dell’Assemblea sono tra voi per sottolineare che stiamo vivendo un tempo in cui la Chiesa è chiamata a riconoscere queste oscure pagine del passato. È chiamata ad ammettere nella penitenza, di aver abbondantemente tradito Gesù Cristo.
L’ha tradito nel processo primario del suo ripensamento, quando ha trasformato un messaggio di salvezza universale, un avvenimento di gioia per “le nazioni”, in dottrina sofisticata accessibile a pochi “eletti”. Ma l’ha tradito anche quando si è fatta mondanizzare da questo mondo, quando ne ha assunto i parametri, perfino l’organizzazione istituzionale, invece di evangelizzarlo.
Non avremmo avuto la Riforma se, appunto, avessimo predicato il Vangelo di Gesù, e non il Vangelo adattato a noi.
Per me allora “Viene un tempo ed è questo”, è anche un invito ad andare oltre i 50 anni di anticoncilio che abbiamo vissuto. È il tempo di riprenderci questo mezzo secolo. È questo nostro il tempo in cui tutta questa storia dolorosa di avversione al Vaticano II può essere ribaltata. Perché papa Francesco nel suo pontificato si riferisce esattamente a una ripresa del Concilio e ad una ripresa genuina dell’immagine di Dio che ci ha dato Gesù.
Abbiamo un’occasione unica per dare speranza ad un mondo in guerra e consacrato alla belluinità. Sarebbe criminale non coglierla.
Del resto, quale alternativa abbiamo? Forse solo quella malaugurata che nessuno si aspetta. Così orribile da non volerla pensare neppure possibile. Si chiama guerra, sangue, rivoluzione dei poveri, perché se c’è questo processo di pauperizzazione del pianeta, per quanto tempo resisteranno i poveri a starsene zitti?
Gli esclusi dalla vita, i poveri che a centinaia di milioni si muovono in cerca di spazi davvero vitali, attuano per ora una sorta di assedio al diritto ad esistere tramite un’invasione pacifica. Questa invasione pacifica interpretata, addirittura, come lo tsunami, questa invasione pacifica della nostra Italia, dove da parte dei benpensanti si presenta l’oppresso come oppressore e la vittima come carnefice, non so fino a quando potrà durare. Non rischia di volgere al peggio? Del resto, sappiamo tutti che una “bella guerra” è stata sempre un grande affare per il nostro sistema capitalistico.
Il nostro allora è tempo di speranza. E di questo tempo noi siamo i responsabili.
Diverso tempo fa Raniero La Valle finiva un suo incontro dicendo “Il Concilio è nelle nostre mani”. Forse oggi è da dire “Il tempo della salvezza è nelle nostre mani”, perché dobbiamo prendere coscienza non delle piccole cose secondarie, che non stavano a cuore a Gesù Cristo, ma di quelle che stavano a cuore a Lui. Sono quelle che dobbiamo avere assolutamente presenti se vogliamo che il mondo e lo stesso messaggio di Gesù abbiano un futuro.
Un’ultima osservazione. Parlare di futuro comporta pensare ai giovani, ma qui dove sono i giovani?
Tanti di questi discorsi, anche in termini allarmati, risalgono a mezzo secolo fa. Allora si parlava ed i giovani comprendevano. Anche quando a denunziare misfatti prossimi futuri (armamenti in una Italia che “ripudiava la guerra”, inquinamento di acque, aria e campi…) era la sinistra democristiana di Donat-Cattin su quella efficace rivista che fu “Settegiorni”. Sì, i giovani leggevano, ascoltavano simili denunzie, ma a distanza di anni ci pare di poter dire che non le hanno prese sul serio. Tanti di loro sono stati travolti da situazioni di sonnolenza indotta dal dilagare della droga, oppure sono rimasti storditi da problemi di sopravvivenza personale.
Forse i giovani oggi sono più interessati a qualche argomento immediato, ma poi si dissolvono, perché vivono in un’altra ben più pressante angoscia, quella del loro avvenire. Mi chiedo cosa possa essere una società che non dà futuro ai propri figli. Eppure è quanto capita.
Se noi siamo oggi in Italia una società di vecchi, significa che siamo diventati sterili, di una sterilità che non è solo biologica. Siamo diventati sterili soprattutto perché non riusciamo a trasmettere speranza e vita, perché non abbiamo niente da dare a questi ragazzi, niente da trasmettere, se non di essere funzione della specie, nel caso migliore. Ma anche questo si può dire vietato per legge, dato che per legge si oscura ogni spiraglio di possibile rinascita di civiltà e di progettualità creativa.
L’esperienza della risposta popolare al tentativo di Renzi di cambiare la Costituzione senza neppure attuarla, ci dice che nulla è inamovibile quando con passione ed impegno si affronta un problema serio. Nella nostra lotta per una società ed una Chiesa più ricche di autenticità, è tempo di parlare ai giovani. È il tempo della nostra responsabilità verso le giovani generazioni.
Se ognuno di noi tentasse di avvicinare i ragazzi e di renderli coscienti di quello che li aspetta, probabilmente il nostro prossimo convegno sentirà anche le loro voci e le loro attese.
Discorsi come questi non sono accettati da nessuno se non hanno la testimonianza di una Chiesa “altra”, appunto, più fondata sul vangelo di Gesù che sulla saggezza o furbizia umana. In altri termini non abbiamo nessuna credibilità verso i giovani se essi non vedono il segno di una Chiesa capace di riformarsi. Anche di questo sta cercando di parlare papa Francesco. Ma il problema fondamentale non è che la Chiesa cambi, non è la riforma della Chiesa, per quanto possa essere importante che essa ritrovi il suo ambito di sacramento di salvezza. Vero problema decisivo è che tutti ci rendiamo conto della necessità di ritornare ad essere umani, di costruire una società che abbia al centro la vita e l’uomo e non più l’idolatria del denaro e la supremazia della forza. Vero problema è che la Chiesa tenti sempre di attuare ciò che annuncia, che ritorni ad avere il volto che le ha dato il suo Fondatore: annunziare la buona notizia che siamo figli dell’Amore, chiamati a relazioni di benevolenza e gratuita bontà.
“Abbiamo nella Chiesa duecento anni di arretratezza” – diceva il cardinale Carlo Maria Martini. Di peggio era convinto Ernesto Balducci: “Questa Chiesa è destinata a morire”. Non la Chiesa di Cristo, ma questa Chiesa, la Chiesa istituzionalizzata, con questa superfetazione di istituzionalizzazione. Questa è destinata a morire, questa non ha parole per le giovani generazioni.
“È venuto il tempo, ed è questo” perché contribuiamo, nel nostro possibile, per parlare ai giovani, per parlare ai nostri preti, ai nostri politici, e soprattutto è tempo di non tacere perché questi politici si rendano conto, almeno con minimi gesti, che hanno davanti a loro non l’interesse della finanza, (di cui del resto sono poveri manutengoli) ma il futuro di questa nostra società e della vita nel mondo.
(Trascrizione dalla video-registrazione di Radio Radicale a cura di Raffaello Saffioti)